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denti stretti. Peggio fu, quando il signor Momino si arrisicò a dar consigli, dettati naturalmente dalla grande amicizia, dal desiderio onesto di veder finita, «pro bono pacis», per il decoro della famiglia, per l’interesse della prole, una contesa come quella, che lasciava la figliuola del signor Demetrio a mezz’aria, non maritata nè vedova. Il conte suo marito ne era dolentissimo; da Parigi, dov’era andato a finire, e dove si era messo a lavorare in Borsa, scriveva lettere commoventi. Voleva leggerne una, il signor Demetrio? Momino l’aveva in tasca per l’appunto: il suo buon amico Bertòla avrebbe potuto giudicarne. Qui il signor Demetrio ci montò lui, sul cavallo d’Orlando, e prese una corsa sfrenata.

— Signor Momino gentilissimo, non mi parli di quel furfante matricolato. Lei ha in tasca una sua lettera? Ed io ho in tasca lui e tutte le sue scuse. Dissanguato di quasi trecentomila lire, delle quali ventiseimila rubate a man salva e le altre sperperate malamente in due anni, sarebbe disposto Lei a farsene levare delle altre? So bene quello che mi toccherebbe, se ripigliassi il suo conte. Ma, per sua norma, il Bottegone non lo manderanno in rovina, giuro a Dio, non lo manderanno. È la mia nobiltà, è il mio blasone; lo difenderò fino all’ultimo sangue. Quanto alla pace che il conte Spilamberti vorrebbe rifare con sua moglie, e fuori di Mercurano dovrebbe essere, se mai, io non ho a dirle niente, perchè non ho niente da vederci. Parli a mia figlia: ma le dica ancora, Lei che sa tutto, le dica ancora che il bell’arnese preso a proteggere da lor signori è andato a Parigi con quella poco di buono di Maddalena Pasquati. —

Il signor Momino si guardò bene dall’accettare il consiglio dell’amico Bertòla. Balbettò qualche scusa, a difesa delle sue buone intenzioni, scosse la sua zazzeretta, e spulezzò prontamente; nè più si lasciò vedere al Bottegone.

Ma una settimana dopo, secondo l’annunzio ch’egli ne aveva dato, giungeva a Mercurano la signora contessa Sferralancia. Al solito non era