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guida le indagini. Non si tardò molto a sapere il suo nome e la condizione del marito, poichè il conte Spilamberti passava per tale; e del resto nessuno chiedeva la sua fede di matrimonio. Ammesso in qualche società, un po’ per il suo titolo, molto per la bellezza della sua ammirata compagna, si mostrava gran signore e corretto al giuoco, che era veramente il colmo della cavalleria. Giuocando, guadagnava qualche volta e qualche altra perdeva; nè certo doveva fargli comodo il perdere, poichè si vedeva spesso di cattivo umore, con certe nubi sugli occhi, indizio di negri pensieri, che tentava di scacciare da sè, ma non venendone a capo.
A farla breve, quel conte italiano, ornato di una così bella compagna, non era punto felice: per un osservatore esperto, come ce ne son tanti nell’alta società, che hanno studiato nel vivo senza impacciarsi nei libri, quel conte aveva la faccia dell’uomo avviato al suicidio. Ci si va sempre per gradi, a quell’ultimo stadio della falsa condizione in cui l’uomo si è messo per sua propria follia o per forza di eventi: dopo aver lungamente cercato di tenersi in equilibrio, piegando successivamente di qua o di là, barcollando e raddrizzandosi un tratto, si perde finalmente il lume degli occhi, o la volontà di resistere; e allora il valoroso diventa vile quanto bisogna per rinunziare alla lotta, il vile diventa valoroso quanto è necessario per rinunziare alla vita.
Ma il conte Spilamberti non pareva ancor giunto a quella estremità. Cambiava con una certa ostentazione i biglietti da mille, che non s’intendeva come fossero ancora nel suo portafoglio, o donde venissero ad impinguarlo; e sorrideva, allora, come nei primi giorni della sua comparsa a Parigi, e in quel sorriso c’era un lampo d’orgoglio, di beffa amara, quasi di sfida al destino.
Agli esperti non isfuggivano quegl’indizi fugaci, ma certi, di una pugna interiore. Parecchi incominciarono a diradare le visite. Erano tutti coloro che più temevano di essere richiesti d’aiuto, e meno speravano di cogliere i frutti dei