La figlia del re (Barrili)/XX
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XX.
C’è una cosa buona nel mondo, la legge: e balza fuori evidentissima dai fatti oscuri della vita, come dai fenomeni appariscenti dell’essere. Onde il conoscere, lo scoprire, l’inventare, il creare, non sono che modi d’intender la legge, la buona legge che informa e governa ogni cosa nel nostro mondo e negli altri. Per non uscire dal nostro, vedete come è bella nel ritmico alternarsi dei flussi e riflussi, nel ritorno della luce e delle tenebre, nell'avvicendarsi delle stagioni, così invariabili nei loro periodi, come il corso del sole da levante a ponente, o, se meglio vi piace, come il girar della terra da ponente a levante. Quel giorno che il sole non apparirà più da levante, io dirò che il mondo va male; fino a quel giorno penserò che va bene, e solo avverrà che io non lo dica, per non urtare i nervi a tanti malinconici che voglion tingere col nerofumo dei loro dispiaceri l'opalino dei cieli, l’azzurro dei mari e il verde dei prati; bei colori che rallegrano il cuore e, sia detto qui tra noi, che nessuno ci senta, aiutano a far dimenticare l'umanità. Dimenticarla, dico, e non mi voglio disdire, essendo quello il modo migliore per non prenderla in uggia.
Una bella primavera arrideva alla campagna di Mercurano. Cantavano e tripudiavano al cielo tutte le cose rinascenti e risorgenti, dai colli e dai piani. Bisognava sentire di notte, che musica! I rosignuoli replicavano ad intervalli le poderose cavatine, ingemmate di gorgheggi, di trilli, di fioriture d’ogni maniera; l'assiuolo, cheto cheto, di là dal fiume, mandava il suo monotono chiù, per dire ai contadini: rallegratevi, che il freddo è finito; il passero solitario, dal fondo del macchione, faceva il suo bel verso malinconicamente soave, dolce carezza d’amante trasformata in dolcissimo suono, mentre i grilli cantaiuoli, usciti a mezzo dalla buca, frignavano sommessamente ai leprotti, che nel bianco d’una radura facevano le capriole ad onore e gloria della luna piena. Filosofi tutti e poeti, quegli animali, le sono rimasti più fedeli di noi che ad ogni tanto siamo presi da morbose antipatie per la candida Cinzia, seguente il nostro globo nello spazio, con un affetto ch’egli forse non merita. Ah, i rosignuoli! Ah i leprotti, e tutti gli altri animali del buon concerto campestre! Non s’impicciano di grandi problemi, nè di piccoli, non leggono rendiconti parlamentari, e non giuocano in Borsa. Iddio li benedica, e confonda i loro nemici che son sempre lì colla licenza e col licenzino, colle aperture di caccia da anticipare, coi termini da prorogare, come se la vita fosse fatta per dar noia a chi vive.
Virginio Lorini sentiva la primavera a suo modo, senza inni, senza tripudii esteriori, lavorando sempre, ma lavorando un po’ meglio. Chiuso in sè stesso, secondo il costume, appariva tuttavia più sereno. Così un bel lago alpino, sotto il vigile occhio del sole, muta le sue ombre verdognole in placidi strati d’azzurro, a mano a mano che il grand’astro procede nel suo corso, visitandone i più cupi recessi. Lavorava, e lo stavano tutti ad osservare, quasi pendendo da lui. Senza volerlo, senza saperlo, era diventato il domestico iddio di quel luogo; stesse ritto ed immobile davanti al leggìo del salottino, segnando numeri nel libro maestro, o andasse di qua e di là per le stanze del Bottegone, impartendo con voce calma e misurata i suoi ordini, era l’idolo rispettato e venerato da tutti. Ognuno, là dentro, aveva i suoi dispiaceri, le sue afflizioni, le sue diseguaglianze d’umore; egli no, sempre quello, temperato negli atti e nei discorsi, attento, diligente, cortese, infaticabile sopra tutto al lavoro. E quasi pareva che nessuno lavorasse là dentro, vedendo lui, così assiduo; mentre ognuno aveva per lui, anima e braccio di casa Bertòla, lo sguardo profondamente benevolo, nella sua stessa benevolenza rispettoso e devoto.
Il signor Demetrio, ogni giorno, prima di appisolarsi su quel tal canapè, riapriva un occhio per dargli una sbirciatina. «Eccolo lì, diceva tra sè, eccolo lì quel prodigio di ragazzo, quel diamante, quella perla di casa mia! Ma parla, che Iddio ti benedica, parla dunque una volta! Chi sa mai, chi riesce a indovinare quel che tu pensi? Basta, fa un po’ a modo tuo; chi si contenta gode.»
I bambini facevano meno chiasso quando passavano accanto al salottino, dove il signor Virginio lavorava, dove anzi si poteva credere che pontificasse. Ma non dubitate, se ne ricattavano in sala da pranzo, quei cari demonietti, saltandogli sulle spalle, scomponendogli la divisa dei capelli, abbracciandolo stretto. Ora piaceva a Lamberto di accomodarsi sulle sue ginocchia, per ripassare sulla tavola centinaia d’immagini, dicendo a chi voleva levarlo di lì, che sulla sedia ci stava male, non potendo arrivare coi gomiti sul piano della tavola. Ora saltava in mente a Guido di arrampicarsi sulla spalliera della sedia, di girargli intorno alla testa le sue belle braccine, tanto da giungergli con le manine sugli occhi, per gridargli: indovina chi sono. Sei Lamberto; doveva rispondere invariabilmente Virginio. Ah, vedi? te l'ho fatta; conchiudeva non meno invariabilmente il piccino.
Lamberto e Guido erano stati vestiti da principio di nero; sei mesi dopo, di grigio. Ora tornavano al bianco, al rosso, al turchino. Anche la contessa aveva seguito il colore dei bimbi; finito il lutto e il mezzo lutto, era ritornata alle tinte predilette. Con la medesima calma di Virginio, quando lavorava, Fulvia aveva messa la gramaglia e l’aveva lasciata, senza ostentazione da principio, senza giubilo in fine.
Uno di quei giorni, la bella signora aveva attaccato con Virginio un discorso che da parecchio tempo meditava di fargli.
— Signor Lorini, si lascia dire una cosa? Lei lavora troppo. Permetta anche a me di fare qualche cosa qui dentro.
— A Lei, signora! che dice? Ma, prima di tutto, io non ho troppo lavoro. E poi, che cosa vorrebbe far Lei? farsi veder qui a pianterreno? mettersi a contatto con gente d’ogni specie?
— Ebbene, che importa ciò? Mi faccia questa grazia, mi associi ai suo lavoro.
— No, perdoni, non posso.... e, se mi permette di dirlo, non voglio.
— Sempre Lei! — esclamò Fulvia!
— Sempre; — rispose Virginio.
— È una bella parola; — ripigliò la signora. — Ed è contento così?
— Certamente; — replicò egli.
Ma era diventato un po’ troppo pallido, dicendolo, e subito dopo un po’ troppo rosso; scherzi del sangue, che non si vergogna di tradire i sentimenti più celati del suo ospite e signore.
Fulvia era rimasta pensosa, osservandolo. Tante cose le diceva quel cangiar di colore, che ella non amò proseguire una conversazione, la quale certamente avrebbe detto assai meno. Ma il giorno seguente la pietosa signora (pietosa a modo suo, si capisce, e col suo solito piglio d’autorità) ebbe modo di ritornare all’assalto.
— Mi fa piacere di dirmi, perchè, avendo così poco lavoro, non approfitta delle sue ore d’ozio per fare un po’ di moto? È vita la sua, di star tutto il santo giorno in casa? Perchè non passeggia?
— Non ne ho bisogno; — rispose Virginio. — Mi par poi di passeggiare abbastanza.
— Già, infatti, lo vedo; — notò Fulvia, con un risolino sarcastico. — Salottino e divagazioni sul libro maestro; poi gran camminata, gran marcia di resistenza, da una bottega all’altra; finalmente quei viaggi di cento miglia al minuto.... negli otto metri quadrati della sua camera.
— Badi, son ventiquattro; — disse Virginio, cercando di mettersi sul medesimo tono. — Deve moltiplicare la lunghezza per la larghezza; sei via quattro, ventiquattro.
— Davvero? Per un campo di corse, non c’è male.
— Signora mia, per un luogo di meditazione è fin troppo.
— Verissimo; e dica.... per caso, ci si chiude a scrivere un’opera?
— Non mi ci chiudo mai. Può andarci a vedere; c’è sempre la chiave di fuori.
— Ma non ci saranno dentro quelle dei cassetti, m’immagino.
— Certo, le tengo io, per custodia; ma le posso dar sempre; — rispose Virginio. — Vivo in casa di suo padre; son dunque in casa sua, e non posso aver segreti per nessuno dei due.
— Bene, bene! — conchiuse Fulvia. — Chi sa che non mi venga voglia di procedere, quando Ella meno se l'aspetti, ad una ispezione minuta nel suo santuario! —
Virginio trasse un sospiro. Povero santuario, ahimè! dov’egli era vissuto tanto dolente! Eppure, così l'anima nostra si avvezza ai luoghi delle sue afflizioni, che egli ne aveva sentita la mancanza acerbissima per tutto il tempo ch’era rimasto lontano di là, nella solitudine di Bercignasco. Che giorno felice per lui, quando aveva potuto far ritorno al suo covo! Lo ritrovava tal quale lo aveva lasciato. Il signor Demetrio, che si era impossessato delle chiavi, glielo dischiudeva sotto gli occhi, dicendogli: «non c’eri tu, ragazzo, e non c’è mai entrato nessuno». Là dentro passava lunghe ore leggendo, più spesso meditando, contemplando, come un triste cenobita. La cameretta del solitario non è poi altro che un nido, un involucro geloso, quasi una coscienza più vasta, ma ugualmente chiusa, dove nessuno penetra, e donde la mente spazia liberamente da per tutto.
Quante cose del passato, là dentro, quanti ricordi, quante immagini gli richiamava ogni oggetto! Da quella stanza, come porgeva l'orecchio a tutte le voci della casa! Quante volte, nel cuor della notte, essendo la bambina ammalata, si era levato di là per andarla a visitare, per chinarsi sulla sua culla, a spiarne i moti, a studiarne il respiro! E là, quando Fulvia si era fatta più grande, là aveva pensati i temi dei còmpiti quotidiani di lei; là aveva preso a disamina, l'un dopo l'altro, tutti i libri di scuola, dal sillabario alla grammatica, dalle letture del primo grado fino a quella famosa antologia del Mauri, per adempiere meglio che per lui si potesse il suo ufficio di maestro. Ma poi, colpa sua, non lo aveva più continuato; la fanciulla era andata per suo consiglio in educazione dalle Dame Inglesi di Lodi, e la camera del povero maestro era rimasta più sola, più triste che mai. Restava sempre un santuario, per altro, ed una sola divinità ci regnava, espressa in molte immagini, quante ne erano state fatte nel corso di diciassette anni, dalla culla agli sponsali.
Belle fotografie, sebbene un tantino sbiadite oramai, quelle dei primi anni di Fulvia! La cara birichina ci si vedeva in tutti gli atteggiamenti, in tutte le fogge delle sue diverse età: tombolina, nel suo gonnellino bianco ricamato, in collo alla nutrice; trottolina, in vesticciuola, calzerotti e scarpine, per andare a mimmi; fattoressa, grassoccia e sana, un po’ affagottata nella sua veste di lana a quadri; poi via via, come accade a tutte le fanciulline quando son passati i dieci anni, più curante di sè, più attillata, più raffinata, un vero donnino. Seguivano le fotografie di Lodi, con una cert’aria di maggiore eleganza, quasi di pretensione, mostrando la signorina consapevole del suo valore, col cappellino di paglia e l’ombrellino, o colla fronte scoperta e con un libro tra mani, in perfetta corrispondenza collo sguardo pensoso. Poco più in là si fermava la collezione; santa Fulvia non appariva ritratta nella sua seconda maniera. Sicuramente, altre fotografie c’erano state, dopo il suo matrimonio, fatte a Parigi e a Roma, più belle e più artistiche delle prime; ma queste non si vedevano nel santuario; il loro periodo storico non apparteneva a Virginio Lorini.
Pure, di quel periodo ce n’erano due; ritratti di bambini cari, che ripetevano a diciotto e vent’anni di distanza l’immagine di una dolce tombolina, sorridente dalla parete, entro la sua bella cornice di velluto pavonazzo. Ma quei due bambini erano i figli di lei; Virginio non aveva potuto negar loro il posto accanto alla mamma. Del resto, quei due ritrattini erano là da pochissimo tempo; collegavano una generazione coll’altra, e, pur lasciando una lacuna nel mezzo, non la facevano troppo sentire. Cari bambini! non dovevano essere i suoi scolaretti? e non aveva egli già incominciato a farli leggere? non aveva messi fuori, per loro uso, i medesimi libri che erano serviti alla madre loro? Bene i sapientissimi editori scolastici, pieni sempre di amorosa sollecitudine per le nuove generazioni, avevano rinnovati i metodi e rinnovati gli autori, con gran gioia ed altrettanta gratitudine dei padri di famiglia. Virginio si ostinava a non voler riconoscere questi innegabili progressi della didattica italiana, e credeva fermamente che a Lamberto e a Guido Spilamberti potessero servire i libri di lettura nei quali aveva imparato a leggere, sui quali si era educata a pensare, la piccola Fulvia Bertòla.
Sì, perbacco, metodi antichi, e niente di mutato nel suo insegnamento, come niente era mutato nel mondo ideale per cui egli viveva tanto volentieri; specie là dentro, vegliando il più delle volte fino al tocco dopo la mezzanotte. Il tocco è l'eternità, nelle veglie dei borghi, dove le serate son lunghe, interminabili, senza teatri, senza feste, senza divertimenti più o meno intellettuali. Ma quando il pensiero sa vivere di sè medesimo, non c’è più spazio vuoto nel tempo, nè pericolo di noia nell'anima.
Or dunque, secondo l'uso, una di quelle sere, tra leggere, meditare e sognare ad occhi aperti, Virgimo Lorini aveva fatto ora assai tarda, quando lo scosse il rumore d’un uscio che si apriva, e gli venne udito dalla sala attigua un passo leggero leggero. Quel passo egli lo conosceva bene; era quello di Fulvia. La signora, di solito, vegliava i suoi bambini fino a tanto non si fossero addormentati; e anch’essa, poi, leggeva molto nella notte. Ma perchè in volta per la casa, a quell’ora? Forse per prendere qualche libro, od altro oggetto dimenticato sulla tavola della gran sala? Virginio pensò che a buon conto egli aveva lasciato socchiuso l’uscio, e che non era più in tempo di andarlo a richiudere. Se almeno avesse potuto spegnere il lume! Ma neanche questo poteva più fare; ella aveva veduta la striscia di luce, e gli rivolgeva di fuori il discorso.
— Bravo, signor Virginio! ancora alzato?
- Come Lei, signora; — rispose egli; — come Lei.
— Ma io per far compagnia ai bambini; — replicò la contessa. — E a chi fa compagnia Lei?
— Ai miei pensieri, signora.
— Un po’ più grandi, se mai; diciamo anzi vecchi, non Le pare?
— Eh, saranno su per giù come me; buona notte. —
Sperava, con quella chiusa, di aver tutto aggiustato. Ma era appena al principio. Fulvia, a cui egli dava in quella forma il commiato, si affacciava allora sull'uscio.
— Non si spaventerà mica di questa apparizione notturna? — diss'ella, entrando. — Avevo promesso un’ispezione; e poichè una striscia di luce m’invita, eccomi qua. Bello! — soggiunse, guardandosi intorno. — C’è ordine, e mi piace. Libri assai.... Bisognerà che dia una ripassata a tutti quei titoli; ma aspetterò a farlo di giorno chiaro. E questa esposizione, che cos’è? Ah, bene, bene, una processione di Fulvie! Dio, quante Fulvie! in collo alla balia, al primo dente, alle prime scarpine, c’è tutto il vestibolo dell’esistenza! Questo, col muso lungo lungo, dovrebbe essere stato fatto dopo la rosolìa,
— Che muso lungo! — esclamò Virginio. — Dove lo vede Lei?
— Mi pareva; — rispose Fulvia. — Ma son pronta a ricredermi. E tu piccina, così affagottata nella tua vesticciuola a quadri, sei bruttina parecchio.
— Quella lì non la tocchi; — rispose Virginio; — è del tempo che incominciava a leggere.
— Bispettiamola, allora. E quest’altra, che mostra di aver tante pretese?
— Ma che pretese? È seria; ha già fatta la sua prima comunione.
— Capisco, — disse Fulvia, — che dovrò rispettarle tutte.
— Sì, farà bene; — rispose Virginio.
— Con che tono me lo dice, signor Lorini! Sa che non era così neanche quando m’insegnava a compitare? Basta; andiamo avanti. Ecco la nostra signorina a Lodi. Ne ha imparate, delle cose laggiù, ed anche ci ha preso un’albagìa.... Scusi, volevo dire un’aria di umiltà, di bontà, che so io, tanto tanto carina. Oh, ecco il ritorno a Mercurano; suonate, campane! Ma che vuol dire? È l’ultimo. C’è una lacuna qui... —
Virginio non rispose parola. Fulvia rimase un istante sovra pensiero, e i suoi occhi corsero involontariamente a scrutare negli occhi di lui. Fu un lampo, per altro, ed ella si volse da capo a guardar la parete.
— Ma ci sono i miei figli; — ripigliò allora; — ed io Le perdono, signor Lorini, di aver soppressa la mamma.
— Signora....
— Se soppressa Le spiace, diciamo dimenticata.... tralasciata.... Nessuno di questi participii Le serve, signor maestro stimatissimo? Ne trovi uno Lei, con suo comodo, e mi dica intanto, dove sono le chiavi dei famosi cassetti?
— Che chiavi?
— Ma sì; non mi aveva detto ier l’altro che le avrebbe messe tutte a mia disposizione?
— È vero; eccole lì, sulla scrivania. Son le tre più piccine; aprono cassetti e vetrine.
— Lascio le vetrine, e mi volgo ai cassetti; — disse Fulvia ridendo. — Sul serio, non Le dispiace che io visiti, che io frughi, che io rovisti da per tutto?
— Ma no, no; — rispose Virginio, facendo a mala fortuna buon viso. — Non c’è niente, del resto; niente, che franchi la spesa.... Cioè, sì, c’è molto, ma che a Lei non parrà tanto importante. Ci troverà ancora la signora Fulvia studiosa; — soggiunse, mentre la signora, aperto un cassetto, ne traeva già fuori parecchi quinterni e qualche mazzo di copie, tutte ripiegate in due e diligentemente legate d’un nastro roseo. — Sono i còmpiti del quinto anno, questi... i suoi esercizi di composizione italiana, di aritmetica, di francese....
— E tutto in ordine, come io non ho mai saputo fare in collegio; — disse Fulvia, interrompendo la enumerazione. — Sa che non ho preso il primo premio per cura di libri e carte di scuola? Anche a Lodi, nei quinterni e nei libri, facevo certi tocchi in penna, che le maestre chiamavano sgorbi; come Lei, si rammenta? A proposito, e dove sono i miei libri dei primi anni?... i miei quaderni?
— Là, nell’altro cassetto. Ma che cosa vuol andare a guardare? — diss’egli, un po’ sconcertato, vedendo che Fulvia apriva dov’egli aveva accennato, un po’ leggermente, pur troppo. — Il meglio è qui; là sono tutti esercizi da bambini.
— Non del tutto, non del tutto; — rispose ella, che aveva adocchiato delle copie. — Ci sono già dei compiti raccolti a mazzo. Seconda elementare, niente di meno! Perchè i posteri non dovessero ignorarlo, ce lo scrivevo a lettere di scatola, sopra il mio riveritissimo nome e cognome, Ah, ah, che brava bambina!... E che cosa è questa copia sciolta?... Sciolta, per modo di dire; — soggiunse; — che veramente è tutta legata e tenuta insieme con sostegni di carta gommata. Mi lasci guardare! Che cos’ha, che non vuol lasciarmi guardare? Stia buono, via, e non me la sciupi, Lei, che l’ha così bene rammendata con tanti pezzettini di carta da francobolli. Doveva essere una copia ben preziosa, per meritar tante cure. Vediamo, vediamo!
— Signora, La prego... Se avessi preveduto.... Lasci stare; è una ragazzata....
— Vedo bene. Son tutte cose fatte da una ragazzina, qui dentro. E questa è mia come le altre, non è vero?
— Sì, sua; ma che cosa vuol leggere, ora?
— Perdoni; se è mia e se mi piace di leggerla, non capisco che cosa ci trovi Lei da ridire. Sia cavaliere, signor Lorini, e mi offra una sedia. Stia cheto, ora: e non parli, se io non la interrogo. Oh sentite un po’ questa! Non vuole che io rilegga la mia prosa. Perchè questa è prosa mia, veramente; e se non sarà robusta, tanto peggio per me. Il titolo promette, per altro.... «La figlia del Re», niente di meno! —
Virginio non si opponeva più. Caduto sopra una scranna, si era lasciato andare con le braccia sull’orlo della tavola, e là, nascosto il viso tra le palme, gemeva sommessamente. Fulvia era inflessibile, e non badava a quel rammarichìo di vecchio fanciullo. Aveva già letto il titolo; lo lesse da capo, ad alta voce, e così via via tutto il racconto:
LA FIGLIA DEL RE.
“C’era una volta un re che aveva una figlia, la quale si chiamava anche lei Fulvia, ed era buona, studiosa, ed amava tanto i suoi genitori; e poi venne grande e vollero maritarla. Ma nel palazzo del re non si trovava uno che la potesse sposare. C’era un paggio del re, che lui l’avrebbe sposata volentieri, ma essa non lo voleva. Quel paggio si chiamava Zufoletto di nome, e la principessa quando seppe che lui la voleva sposare ci disse: “Zufoletto il tuo nome non mi piace e io non ti sposerò mai. Perchè ti chiami così? E poi, non sei tu il servitore di mio padre? Non sai che devo sposare il figlio del re della China, che una buona fata mi ha promesso di farmi sposare quando sarò grande? Quando verrà lo sposerò e saremo felici.
“Allora Zufoletto ci rispose piangendo: “Io non sono un servitore ma un paggio del suo signor padre. Sono povero e piccolo, ma poi verrò ricco e grande e mi guadagnerò un regno colla mia spada„. E la principessa allora ci disse: La buona fata mi ha detto che il mio sposo sarà alto come un pioppo, e forte come san Giorgio e bello come l’angelo Gabriele. Tu non diventerai alto come un pioppo; tu non somiglierai mai all’angelo Gabriele e a san Giorgio, che lui sapeva stare a cavallo.
“Intanto venne il principe della China con tanti guerrieri a cavallo, per domandare la mano della figlia del re. E il re ce la diede, e fecero un gran pranzo di allegrezza. E Zufoletto se ne andò a combattere i nemici (?) e morì in battaglia. La figlia del re allora fu tanto felice col suo principe. E poi quello diventò re, e diventò regina anche lei e stettero allegri in pace e amore per tutta la vita.„
— Che sciocchezza! — esclamò Fulvia, meno tranquilla di quanto volesse parere. — Ed era da conservare con tanta cura un così stupido saggio? Seconda elementare, è scritto sulla copia! Ma che seconda? neanche di prima! E Lei è stato molto buono, signor maestro, troppo buono, a non rimandarmi all’asilo infantile. Questa sciocca che si chiama Fulvia «anche lei», si mostra crudele, per giunta, e cattiva come una piccola scimmia. Mi ricordo, del resto.... mi ricordo di quando l’ho scritto, questo orrendo pasticcio!... Lo leggevo a Lei, sghignazzando, come una vera birichina, e poi l’ho fatto in due pezzi. Lei, allora, con la sua aria grave, mi ha detto che non c’era malaccio, per i miei sett’anni; ma che avevo fatto male a servirmi di nomi e soprannomi usati in casa. Credo ancora di aver fatto un’altra copia, mutando i nomi e levando inoltre tutti quei «ci». Non se ne rammenta Lei, signor maestro stimatissimo? —
Virginio rispose con un cenno del capo, ma, senza alzare il volto dalla sponda della tavola. Seguì un istante di pausa, in mezzo a cui si poteva sentire un suono di singhiozzi non potuti frenare.
— Che cattivo uomo siete voi! — gridò ella, appressandosi a lui. — Come serbate il rancore!
— Io? — mormorò egli.
— Sì, voi; dite che non è vero! E poi, e poi... son io la Figlia del Re? Vi sembro io, proprio io, quella vana principessa del vano racconto infantile? Guardatemi!
— Signora, io La prego....
— No, — incalzò ella, avvicinandosi ancora e afferrandogli le mani, per modo ch’egli fu costretto ad alzare la faccia lagrimosa. — Voglio che tu mi dica se son io proprio quella. Guardami, Virginio, lo voglio. Ti pare egli che, se c’era, mai della cattiveria pensata, là dentro, a quella sciocca età di sett’anni.... io non l’abbia pagata ben cara? Ah, vorrei esser davvero una figlia di re, avere avuto in dono dalla buona fata tutte le virtù, tutte le bellezze, tutte le grazie, e dirti oggi: Virginio, mi vuoi?
— Son Zufoletto, io!... — mormorò Virginio, schermendosi.
— Povero bambino! — riprese Fulvia, ritraendosi indietro, per guardarlo meglio nel volto, e non abbandonando tuttavia le mani di lui. — Ti hanno dato quel nome per celia affettuosa, non già per ischerno, lo sai. Eri alto così, dicevano. Anche il pioppo incomincia dall’esser alto così; poi cresce, va su, sempre più su, come tu sei andato, a fronte scoperta, maestro mio buono, forte del tuo ingegno, ornato delle tue virtù, angelo Gabriele e san Giorgio.
— Signora.... — gridò Virginio, turbato.
— Signora! — ripetè Fulvia. — Che cos’è questo titolo? Non lo voglio, sai? non lo voglio.
— Fulvia! — balbettò timidamente Virginio.
— Ah, così va bene; — diss’ella. — E vuoi tu che bruciamo questa pagina sciocca?
— Non è mia; — rispose egli, chinando la fronte.
— Lo so bene; — replicò ella con aria di trionfo. — È tutto mio, qui. E questo per intanto alla fiamma purificatrice. —
Così dicendo accostava il vecchio foglio di carta, tutto gualcito e rappezzato, alla fiamma della lucerna. Guizzò la carta; si arricciò divampando; si aggrinzò facendosi bruna, mentre per la sua superficie rosolata correvano vagabonde scintille d’un rosso vivo, andando veloci a spegnersi in aria.
— Ecco, — disse Fulvia, ridendo come una pazza bambina. — Vanno a letto le monachine. Che spettacolo sarebbe, per Guido e Lamberto!
— Ahimè! — gemette Virginio. — Di un altro....
— Taci! — fu pronta a dirgli la bella vittoriosa. — Sono i miei; ti adoreranno. —
E palpitante, perduta d’amore, gli si gittò nelle braccia.
FINE.