La figlia del re (Barrili)/XVIII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | XVII | XIX | ► |
XVIII.
Il povero signor Demetrio aveva cominciato; e così, come aveva cominciato, seguitò a sudar freddo.
E quale è quei che volentieri acquista,
E giugne 'l tempo che perder lo face,
Che 'n tutti i suoi pensier piange e s’attrista....
Cioè, no, non abusiamo della similitudine; il signor Demetrio non piangeva, tanto era rimasto confuso da quella ingrata scoperta. Non voleva ancor credere; continuava a frugar cassetti, a rovistar carte, a contar biglietti di banca. Ce n’erano ancora, di questi, da cinque, da dieci, da venticinque, da cinquanta. Per contro, non ce n’erano da cento; e questo gli parve strano, ricordando egli di averne veduti passare quattro o cinque il giorno innanzi, e più ancora due giorni prima. Che fossero andati in pagamenti di tratte? Ma di scadenze in quei giorni non ce n’erano state. O erano passati in collocamento di denaro? Ma l’ultimo acquisto di rendita era stato fatto venticinque giorni addietro. Proprio venticinque? Il signor Demetrio non n’era ben certo. In verità, fossero più, o fossero meno, poco importava, trattandosi di ritrovare il denaro di quarantotto ore prima. Nondimeno, il signor Demetrio aperse il cassetto dove si custodivano le cartelle di rendita e le azioni della Banca Nazionale. Là dentro ci dovevano essere le ultime cartelle acquistate per seicento lire di rendita. Ma dove mai si erano ficcate? Appunto quelle, le ultime, non c’era verso di ritrovarle. E le penultime, per trecento lire di rendita? Neanche quelle, per tutti i diavoli, neanche quelle. In cassa, a farla breve, non si ritrovavano che cartelle di rendita nominative.
Per una costumanza introdotta da Virginio Lorini fin dai primi tempi che questi aveva assunto il segretariato di casa Bertòla, i profitti andavano prontamente investiti in rendita al portatore; ma appena le cartelle acquistate avevano raggiunto un certo numero rotondo, quello di mille lire di rendita, erano sempre convertite in cartelle nominative. «Non si sa mai» diceva Virginio Lorini; «e mi par meglio andare incontro ad una piccola noia per la conversione, e ad un’altra ugualmente piccola per la riscossione delle cedole, che aver la grossa di vigilar sempre un tesoro, alla guisa dei draghi della favola, per vederselo poi portar via da un troppo ardito cavaliere, armato di grimaldelli, di scalpelli, di trapani, e portante per asta un palo di ferro.»
Le precauzioni fanno sempre ridere, quando prevengono le cupidigie dei ladri; paion miracoli di antiveggenza, quando si riconosce che sono state utili a sventare i lor colpi audaci. A buon conto, era salva la rendita iscritta al nome di Demetrio Bertòla; si vedeva tutta quanta là dentro, in bell’ordine, nei ripostigli della cassa forte. Mancavano in quella vece le seicento, mancavano le trecento lire di rendita al portatore; novecento in tutto, che rappresentavano cinque mesi di guadagni netti del Bottegone. Ed erano state almeno acquistate, quelle novecento lire di rendita? Bene ai momenti opportuni, il conte Attilio era andato a Parma, per barattare in cartelle del debito pubblico i bei biglietti unti e bisunti di Mercurano e dei paesi limitrofi; ma il signor Demetrio non si era fermato ad osservare le cartelle, quando quell’altro le aveva portate con sè. «Metti dentro» diceva egli al suo genero; «a suo tempo si farà la conversione in rendita nominativa.»
Ah sì, bella conversione! Ma forse.... non era egli troppo sollecito ad accusare il suo genero? Bisognava cercare, frugare, rovistare ancora. E il signor Demetrio cercò, frugò, rovistò da ogni parte; com’ebbe finito al pian terreno, andò a cercare, a frugare, a rovistare al primo piano, nelle stanze del conte Attilio, aprendo l'un dopo l’altro tutti i cassetti e ripostigli, dello stipo, dell’armadio, del cassettone, perfino del comodino accanto al letto. Da per tutto ritrovò molta roba, che il conte Attilio aveva dimenticata, o trascurata, nel far le valigie; paia di guanti smessi, cravatte, molte cravatte, fin troppe cravatte, giornali illustrati a dozzine, specie giornali allegri, giornali di «sport», che erano la sua lettura preferita; ed ogni cosa il signor Demetrio rimescolava con mani convulse, sparpagliava, gittava a furia sul pavimento, sbuffando, smaniando, attaccando più moccoli che non ne avesse san Zenone dalla pietà dei fedeli di Mercurano, nei tre giorni della gran fiera intitolata al suo nome.
Le smanie del signor Demetrio non potevano passare inosservate. La casa era tutta a rumore. Fulvia, accorsa nella camera dove suo padre faceva più pazzie che non ne faccia un elefante capitato in un campo di canne da zucchero, non tardò a sapere da lui ogni cosa.
— Anche questo! — esclamò la contessa, stringendosi le mani al petto, dove le pareva che qualche cosa stesse per iscoppiarle. — Anche questo! Signore, fate almeno che il mio povero babbo non si ammali. —
Il signor Demetrio aveva finito. Non c’erano più giornali di «sport», non più guanti, non più cravatte da buttar via. Ruppe ancora, battendolo alla parete, un piccolo «necessaire» da viaggio, che non aveva voluto aprirsi alle prime, e ne fece schizzar fuori spazzole, spazzolette e boccettine. Ahimè, nessuna cartella al portatore ne uscì. Ma allora il signor Demetrio gridò di voler andare quel giorno medesimo a Parma, per mettere ogni cosa in mano al procuratore del Re.
— Alla reclusione, il signor conte Spilamberti! in galera il signor conte di San Cesario! Alla forca, se ci fosse ancora, per utilità dei popoli! Ah, viva la Francia, che alla sua ghigliottina non ci ha ancora rinunziato. Ma spero che ci vada lui, laggiù, o in qualche altro paese dove l'ordigno è sempre tenuto nel debito onore. Ne farà tante, quel furfante matricolato, ne farà tante, che una le pagherà tutte. —
E avrebbe seguitato, sfogando così la sua rabbia, quel bravo signor Demetrio, che quando cadeva nei giurati votava sempre, per suo criterio invariabile, secondo i desiderii della difesa. Ma la figliuola reputò necessario d’intromettersi, con qualche buona parolina.
— Sì, tutto quel che vorrai; — gli disse. — È il tuo diritto, e l'azione è troppo brutta. Ma sai tu almeno quanto ti manca?
— E come vuoi che lo sappia, benedetta da Dio? Non so più nulla di nulla. Consulto i libri; c’è una partita segnata e l’altra no. Confronto il giornale di cassa col giornale di banco; non c’è caso che vadan d’accordo. Chiama e rispondi! Guardo il registro delle scadenze; non ce ne son di segnate, e Dio sa se non ce ne saranno per questa settimana, o per l’altra. È come trovarsi in un bosco, e di notte. Che rovina! Una azienda che andava così bene, come un cronometro!... Uscirò io, caverò i piedi da questo serpaio?
— Speriamo; — disse Fulvia, tanto per dir qualche cosa.
— Ma che sperare! — ripigliò il signor Demetrio. — C’è da sperare una malattia. Sento che la farò; sento che me ne andrò uno di questi giorni a vedere tutti gli antichi Bertòla. Ma non mi venga tra i piedi uno Spilamberti, non mi venga! Giuro a Dio, che te lo agguanto per la gola, fosse pure a chiacchiera con san Pietro benedetto, o sotto la guardia di san Demetrio, mio venerato patrono. Che fare intanto? che fare? Me lo dici tu, che sai tante cose, figliuola?
— Una cosa; — disse Fulvia; — chiamare il signor Lorini.
— Virginio! — esclamò il signor Demetrio. — E credi?...
— Credo che nel tuo caso, se non vuoi ammalarti davvero, non ci sia altro da fare.
— Eh, questo lo intendo ancor io. Sarebbe la man di Dio, quel benedetto ragazzo. Ma vorrà egli ritornare? Sai che non si è fatto più vivo?
— Ma ti aveva pur detto che in ogni occasione, un tuo biglietto a Bercignasco....
— Sì, sì, un biglietto, «sol due righe di biglietto» — interruppe il signor Demetrio. — Ma quello era un discorso per cavarsela, un complimento, come quelli che si mettono in fondo alle lettere, non pensando affatto di essere i devotissimi servitori di nessuno. Se gli scrivo il biglietto, mostrando di far capitale su lui, mi manda a quel paese senz’altro. Ed ha ragione; oh, se ha ragione! L’ho trattato così male, povero diavolo! Cioè, intendiamoci, povero un corno! Avevo un segretario ricco, straricco, che mi aveva servito fedelmente vent’anni; che non aveva bisogno di lavorar d’unghia; che all'occorrenza, l’hai visto, ne metteva fuori di tasca sua; e proprio quello ho lasciato andar via, aiutando il tuo conte, col mio silenzio, con la mia condiscendenza, a dargli il gambetto. Ma come potevo far io, per tutti i settemila, così tra il martello e l’incudine? Non dovevo neanche immaginare che le cose girassero come sono girate. Di tutte le belle qualità del tuo conte, l’unica che io non potevo immaginare era questa, che egli fosse un disonesto ed un ladro. Prodigo, sciupone, fannullone, passi; ingrato, orgoglioso, arrogante, passi ancora; donnaiuolo di prima riga, marito niente esemplare, gran cacciatore alla macchia e allo scoperto, l’avevi a passar tu, ed io potevo crederlo pentito! ma ladro, ladro, giurabacco! non l’avrei immaginato mai e poi mai. Discorsi al vento! — conchiuse il signor Demetrio, stringendosi nelle spalle. — Non si fa cammino con questi, e non si rimedia a nulla. Quanto a quell’altro, vorrà egli ritornare?
— Scrivigli ad ogni modo; — riprese Fulvia. — Gli errori si scontano. Se non vorrà ritornare, tu gli avrai mostrato almeno di desiderarlo, e la tua lettera sarà una gentilezza, un atto di scusa, ch’egli avrà ben meritato.
— È una buona ispirazione; — disse il signor Demetrio, andando verso la sua scrivania, per non metter più tempo tra il dire e il fare. — Dopo tutto, non voglio andare in rovina per quell’arnesaccio, e salvi il Bottegone chi lo conosceva come la palma della sua mano. —
E scrisse, e mandò subito la lettera a Bercignasco. Ma il signor Lorini non era lassù; da cinque giorni aveva lasciato il paese, dove del resto non abitava troppo volentieri, e dove non restava mai lungamente, non essendo quello il suo nido, ma piuttosto il suo rifugio. Dov’era andato? A Modena, dicevano; e ad ogni modo gli avrebbero mandato laggiù il biglietto del signor Demetrio Bertòla.
— Oh, questa è nuova di zecca! — gridò il signor Demetrio, sconcertato da quella notizia, l’unica che non avesse preveduta. — Scrivetemi a Bercignasco! Ecco, gli ho scritto, e l’amico non c’è; anzi, è miracolo se ci capita a punti di luna. È andato a Modena. Che cosa ci ha con questa sua Modena benedetta? E sarà poi a Modena? Beato lui che può darsi bel tempo, col suo denaro, che se lo governa lui, senza scadenze in vista, senza pensieri in testa e senza cassieri in fuga. —
Quell’ottimo signor Bertòla non sapeva proprio come levarsi d’impicci. Più consultava libri, e meno capiva della sua contabilità disordinata. Frattanto, s’era sparsa in paese la notizia dell’accaduto, della scenata tra suocero e genero, della partenza di questo, e del vuoto da lui lasciato nella cassa del Bottegone. Già si era saputo a suo tempo della catastrofe di Roma, della dote mangiata e non debitamente assicurata, perciò sfumata nella vendita dei beni di Modena, che non eran bastati neanche a pagare del suo credito la Banca Agraria. Ah, le Banche, le Banche! dove hanno la testa, coloro che le amministrano?
— Dato e non concesso che l’abbiano; — sentenziava qui, molto giudiziosamente, l’avvocato senza cause, che rallegrava Mercurano della sua dotta persona.
Anche a lui, rotto ogni ritegno, si era rivolto per consiglio il signor Demetrio Bertòla, non curandosi più di nascondere i fatti suoi alla gente del paese. Così lo avesse consultato quando si trattava di visitar le carte legali, e in esse lo stato di fortuna del conte Spilamberti! Ma allora si aveva paura di far conoscere le proprie faccende ai curiosi, di dar pascolo alle ciarle di casa Cometti e di altri salotti ugualmente pettegoli. Sciocca paura, che era costata al signor Demetrio una quarta parte, a dir poco, dei suoi lunghi sudori!
L’avvocato Calestani venne di buon grado a portare i suoi lumi; venne un po’ meno volentieri il notaio del luogo, che ricordava troppo di non essere stato richiesto dell’ufficio suo quando s’era fatto il contratto dotale; non mancò neanche all’appello uno della partita dei tarocchi, il bravo farmacista Spertini, quantunque ben vedesse di non avere nei suoi barattoli di maiolica un rimedio che facesse al caso dell’amico Bertòla. E questi ed altri, non venendo a capo di nulla, poterono almeno riconoscere che il signor conte Spilamberti aveva fatto un bel guasto. Riconoscere i danni, non è solamente privilegio delle autorità inquirenti. Così tutto il paese di Mercurano fu presto e largamente informato, potendo anzi credere che il guaio fosse più grave del vero. E si commentava da ogni parte il caso del signor Bertòla, buon uomo, tre volte buono, che s’era lasciato prendere in giro a quel modo. Ma più ancora che commentare, si compativa. Siamo tutti così felici di poter compatire una volta la gente che credevamo di dover solo invidiare!
Da quella ondata di compassione si lasciavano sollevare e trasportare perfino le sorelle Cometti. Non conoscendo Fulvia altrimenti che di vista, osarono andare a farle una visita. Fulvia si maravigliò un poco di quell’atto; ma intese di non poterle respingere, e le accolse con dignità. Non si lagnava di nulla, lei; ma non poteva impedir loro di toccare il doloroso argomento che era il discorso di tutto il paese.
— Ah, è un’infamia, creda, è un’infamia! — ringhiava la stizzosa Arpalice, che parlava sempre per sè e per la sua sorella minore. — Una donna così bella, savia, costumata, nobilmente educata come Lei vedersi abbandonata, tradita, assassinata a quel modo! Trecentomila lire divorate!.... Ma è un mostro, quell’uomo; se lo lasci dire, è un mostro e per tutta Mercurano non è che una voce contro di lui. So bene, immagino che Le dispiacciano questi discorsi; e in altre circostanze noi non avremmo osato mai venirla a tediare coi nostri ragionamenti. Ma qui c’è un caso strano, inaudito, e tutte le persone oneste devono sentire il bisogno di portare la loro parola amica, di venire a far causa comune colla famiglia Bertòla. Noi donne, poi!... Se non ci sosteniamo tra donne, chi ci vorrà sostenere? Ah, li conosco ben io, i signori uomini! Si figuri, anche a me, come a mia sorella Clorinda....
— Già; — soggiunse Clorinda, corroborando della sua testimonianza il discorso della sorella maggiore.
— Anche a me, come a lei, — rincalzò la signora Arpalice, — si son presentati i partiti. Per un pezzo niente li ha disanimati; venivano sempre all’assalto. Ma noi, se lo immagina, noi sempre più dure. Perchè tanto accanimento? dicevamo tra noi. Non siamo già più belle di questa, o di quella, o di quell’altra: e del resto certe romanticherie, passioni, furori, non s’intendono più, non son più di moda; il nostro denaro, è quello che cercano; della nostra dote son tanto desiderosi. Ah, creda, è proprio una disgrazia oramai, nascer ricche! —
Lasciamo lagnarsi la signorina Arpalice, e tenerle bordone coi gesti e coi monosillabi la signorina Clorinda, che non osava fiatare, essendo sorella minore e dovendo riconoscere il diritto di quell’altra, come va fatto in ogni famiglia ben governata. In verità, la signorina Clorinda, sorella minore, rimpiangeva le sue cinquantadue primavere, sacrificata a dir sempre fiat voluntas tua alle cinquantacinque della sorella maggiore Arpalice. Arpalice! anche voi, se un giorno vi si fosse presentato un conte Spilamberti, un po’ leggero di borsa, ma non storpio, nè gobbo, nè guercio, come tutti gli invalidi che si fecero avanti per un periodo di otto o dieci anni, dite, non avreste portato il voto a S. Antonio?
Due giorni dopo tutte quelle noiose conversazioni e condoglianze, un calesse si fermava davanti al Bottegone. Il signor Demetrio che aveva finito allora allora di pranzare e già si disponeva a scendere nel salottino per farci il sonnellino della digestione, non ebbe bisogno di affacciarsi alla finestra fra Dante e Michelangelo, per sapere chi smontasse a casa sua. Clamori di piazza, a cui si aggiungevano ben presto clamori di bottega, indicavano abbastanza il viaggiatore arrivato in quel punto. Il signor Virginio! si gridava d’ogni parte. Il signor Lorini! il nostro Virginio che torna!
Demetrio Bertòla si sentì venir meno, come una bella donnina nervosa. Compatitelo, e non gli dite che questa era nuova di zecca. Nessuna donnina nervosa aveva mai aspettato con ansia più viva il ritorno di un cavaliere prediletto.
— Son qua: — disse Virginio, apparendo sulla soglia della stanza, seguito da uno dei commessi, che portava le sue valigie.
Quanto mutato da quello di prima, quel benedetto ragazzo! Il signor Demetrio lo vide un po’ dimagrato, per verità, più pallido dell’usato, quasi cereo nel volto; ma con un’aria da gran signore, che a lui piaceva anche meno del pallore e della magrezza. Mai, mai più, quel piccolo milord si sarebbe adattato a ritornar segretario del Bottegone.
— Ti avevo scritto; — gli disse tuttavia, dopo averlo abbracciato, — ti avevo scritto per pregarti....
— Male, signor Demetrio; — rispose Virginio, interrompendogli la frase; — potevate e dovevate comandarmi. Eccomi ad ogni modo; appena ricevuto il vostro biglietto, son corso. C’è da lavorare? Sono il vostro uomo; sempre quello che voi avete raccolto ventidue anni fa, educato, nutrito, tirato su, fatto uomo. Vi ho ben detto ogni cosa? E non posso pretendere da voi che mi comandiate, scambio di pregarmi, come vi è saltato in mente di fare?
— Ah, mi consoli; — gridò il signor Demetrio, abbracciandolo ancora; — come è vero Dio, mi consoli. Saprai a quest’ora....
— Sì, molte cose; — rispose Virginio. — Dalla stazione in qua ho avuto i primi ragguagli, ma anche prima dei ragguagli avevo avuto i sospetti, e più che i sospetti, gl’indizi. Vengo da Milano...
— Non da Modena?
— No, a Modena ero stato; poi ero tornato indietro ed ero andato a Milano, Laggiù, — soggiunse Virginio, abbassando la voce, — ho veduto il signor conte.
— Oh senti! non è dunque andato a Bologna come diceva?
— Pare di no; — riprese Virginio. — Era a Milano, ed avviato a Torino. Questo, poi, l’ho immaginato, osservando l’ora della partenza sua, e il treno a cui era avviato.
— Non gli hai dunque parlato?
— Io! a lui? Figuratevi! Del resto, gli avrei dato noia, perchè non era solo.
— Ah, con donne, al solito?
— Con una almeno; ed anche quella fu molto seccata di vedermi là, come l’ombra di Banco.... o del banco. Non badate, signor Demetrio; — soggiunse Virginio, con quel certo risolino amarognolo che aveva accompagnate le sue parole fino a quel punto; — è un giuoco di parole, che mi viene troppo facilmente alle labbra.
— Beato te, che puoi ridere! — disse il signor Demetrio, non intendendo nulla di nulla. — Ma chi era la donna? Dama, o pedina?
— Non saprei definirla; — rispose Virginio. — Era una bionda, una gran bionda, che voi conoscete, e la definirete voi.
— Ah, per tutti i diavoli! — gridò il vecchio, battendosi la fronte. — Ma come può essere?
— Che posso dirvene io? So che mi è parso doppiamente vile, il signor conte Spilamberti. Perchè ho capito ogni cosa, vedendolo; ho indovinato allora, senza bisogno di aiuti. E già, del resto, — soggiunse Virginio, — avevo capito dove s’andasse a parare, fin dal principio, quando il signor conte faceva quelle lunghe stazioni in cartoleria.
— Maddalena! — esclamò il signor Demetrio. — Lei dunque, proprio lei?
— Sì, Maddalena; ma parlate più basso, vi prego.
— Oh, non mi dispiace d’essere sentito; anzi, ora vado da Fulvia per dirglielo. —
Virginio mise le mani avanti, in atto tra esortativo e imperioso.
— Signor Demetrio, — diss’egli solenne, — voi non direte niente alla contessa. Se voi le parlate di ciò, ve lo giuro per l’amor che vi porto, me ne ritorno per la via donde sono venuto, e voi non mi vedrete mai più. Lasciate correre; la vostra figliuola saprà questo a suo tempo, come avrà saputo altro ed altro, m’immagino.
— E come, ragazzo mio, e come! La storia è più lunga del passio; — rispose il signor Demetrio, chiosando la frase del suo delicatissimo segretario. — E non so veramente che cosa possa più farle stupore.
— Ma almeno non sappia questa per mezzo mio; — replicò Virginio. — Son sempre cose spiacevoli, infine.
— Spiacevoli fino ad un certo punto; — disse il signor Demetrio; — e poi, quando è pieno il sacco, pùnfete! accade quello che è accaduto tra lei e lui, in questa medesima stanza. E niente può farle più senso. La vedrai; è tranquilla e contenta.
— Vorrà parere, si capisce; la contessa è piena di dignità.
— Sì, lisciala un poco. Potresti dire di orgoglio.
— Ebbene, che cosa vuol dire? Se l'orgoglio è un difetto, meglio quello che un altro.
— Non dico di no, e viva dunque l'orgoglio della mia cara figliuola. Ed ora....
— Ed ora a lavorare; — riprese Virginio. — Mi hanno detto laggiù alla stazione che c’è un piccolo vuoto di cassa.
— Piccolo vuoto! chiamalo uno strappo largo tanto. Per cominciare, novecento lire di rendita che dovevano esserci, sono sparite; di biglietti da cento neppur l'ombra; e Dio sa poi quant’altro di minutaglia ci manca. Vedrai tu; per me, non vengo a capo di nulla.
— Vedremo, vedremo; — disse Virginio. — Lasciatemi fare; se i libri ci sono, li faremo parlare. —
Quello stesso giorno, come se nessuna interruzione fosse stata nelle sue consuetudini, Virginio Lorini si rimetteva a lavoro, facendo i suoi conti con calma, che è il miglior modo, anzi l'unico per farli bene. Intanto il signor Demetrio pensava all’altra novità della fuga di Maddalena con quell’arnesaccio del conte. Ah, in verità, questa era nuova di zecca, e fatta proprio per compir l’opera. Da parecchi giorni Maddalena non si vedeva in paese; ma il signor Demetrio aveva pensato che stesse nascosta per vergogna, rinchiusa, tappata in casa. Altro che tappata in casa! Altro che vergogna! Quella sfacciata era andata sulle tracce del ganzo, che certamente l’aveva avvertita del suo disegno di fuga e le aveva data la posta a Milano, mentre tutti dovevano crederlo a Bologna e cercarlo laggiù, caso mai si fossero avveduti al Bottegone delle sue marachelle. E non poter dir niente a sua figlia, di quella ghiotta novità! Ma aveva promesso; e ai patti, diceva lui, ci sta perfino il diavolo.
Intanto, veniva gente a congratularsi con lui, pel ritorno del suo segretario. La fausta notizia si era sparsa in paese con la rapidità del lampo.
— Signor Demetrio, — gli dicevano le buone massaie, che capitavano per una ragione o per l'altra al Bottegone, — questa sera vogliamo fare la luminaria.
— Sì, brave, come per san Zenone!
— Ma certamente; è una festa per casa vostra, ed anche per tutto il paese. Quel caro signor Virginio, tanto buono, tanto gentile con tutti! il Bottegone, senza di lui, non pareva più quello. —
Erano tutti contenti; perfino i commessi di negozio, che n’avevano avuto abbastanza del mal governo del signor conte, e oramai non sapevano più a qual santo votarsi, sentendo il signor Demetrio attaccar moccoli per ogni più piccola cosa. Il Bottegone sorgeva «a vita novella» come gl’italiani del Quarantotto.
- È una voce generale; — diceva quella sera il signor Demetrio al suo segretario, mentre salivano in casa per la cena. — Tutti contenti, a Mercurano; ne vogliono ber tutti quanti un bicchiere di più. Ed anche sai che cosa hanno osato di dirmi? Che avevo fatto male, a mandarti via, a liberarmi di te. Io? Ma è lui che ha voluto andarsene, benedetto ragazzo matto. Ha un certo carattere! Con la sua modestia, si fa levare da tutti i posti, lasciandoli a chi li vuol prendere. È ai primi, e li cede. Non ti pare, Virginio, che sia un po’ andata così?
— Lasciamo stare, signor Demetrio, lasciamo stare il cedere; — rispose Virginio. — Si cede quello che si ha; ed io non avevo niente. Del resto, sentite; ho letto da ragazzo nella «Gerusalemme liberata» una sentenza che mi ha colpito e che ho sempre ricordata volentieri:
I gradi primi
Più meritar che conseguir desìo.
Se fossi un cavaliere, sarebbe questo il mio motto, e vorrei farmelo scrivere sullo scudo.
— Pazzo, ti ho detto; — gridò il signor Demetrio; — gran pazzo!
— Chiamalo gran savio; — entrò a dire la contessa, che in quel mentre appariva sull'uscio della sala da pranzo. — E Lei è, signor Lorini, il più leale degli amici, il più nobile degli uomini.
— Oh stelle! — gridò il signor Demetrio, con tragicomico accento. — Ecco mia figlia sul cavallo d’Orlando. Anche tu, cara, coi tuoi nobili e coi tuoi stemmi....
— Lasciali dormire, babbo; — ripigliò Fulvia, rabbuiandosi in volto. — Se ho commesso un errore, non è giusto che io ci perseveri. —
Virginio Lorini, per dirla con una frase del signor Bertòla, conosceva il Bottegone come la palma della sua mano. In tre giorni d’indagini, di confronti, di computi, ebbe chiarito lo stato delle cose ed anche accertata l’entità dello sdrucio, Mancavano in cassa ventisei mila lire; una bella sommetta, ma che non lo impensieriva affatto. Ben altro aveva egli temuto da principio.
— Con ventisei mila lire, — pensò egli, — il signor conte Spilamberti vuole andar poco lontano. —
Assai meno lontano lo avrebbe lasciato andare il signor Demetrio Bertòla, a cui quelle ventisei mila lire perdute così scioccamente davano più cruccio che non le duecento sessantamila andate in malora, tra dote e soccorso straordinario. Se avesse potuto fare a suo modo, certamente il procuratore del re sarebbe stato avvertito di tutto. Ma il suo segretario era là per dissuaderlo; non venendone a capo da principio con le buone ragioni, ma ottenendo finalmente l’intento con un classico proverbio: «a nemico che fugge, ponte d’oro».
— Sicuramente, — disse il signor Demetrio, — quel tuo greco ha consigliato bene. Imitiamo dunque il tuo personaggio antico, e lasciamo che quest’altro Serse vada a farsi impiccare altrove. —
Tutto si rimetteva in ordine al Bottegone, e in pace a casa Bertòla. Anche le ciarle si erano molto chetate in paese; e questo per una buonissima ragione. Da principio si era mormorato, criticato, censurato l’orgoglio dei Bertòla; poi, dopo le disgrazie avvenute, si era passati alla commiserazione, diventata generale dopo la fuga e le ladrerie del signor conte Spilamberti. Ora non si può star sempre lì a compatire il prossimo; la gente se ne stanca assai più presto che non di leggergli la vita.
Lamberto e Guido, i due cari innocenti, i soli ignari di tutto, rallegravano dei loro amabili strepiti la casa del nonno. Spesso saltavano al collo del signor Demetrio; più spesso al collo del signor Virginio, gran distributore di belle immagini e figurine di carta. Senza avvedersene, il signor Virginio ripigliava a fare con essi come aveva fatto vent'anni prima con la madre loro. Par compir l’opera, metteva fuori una scatola con le lettere dell’alfabeto, espresse in altrettanti tasselli di legno. Per il piccolo Guido non erano che un balocco; per Lamberto, che aveva toccati i quattro anni, erano già un esercizio. Il primogenito di Fulvia, nella prima settimana, imparò a conoscere le vocali.
La bella mamma pensosa assisteva alle lezioni, seguitando a lavorare. Non ricamava, cuciva; le pareva troppo da gran signora, il ricamare; amava meglio attendere alle più umili occupazioni del tagliare, imbastire, cucire e rammendare le vesticciuole, i calzoncini, le camicine, e tutto l’altro della biancheria dei piccini. Al signor Demetrio pareva che quello non fosse lavoro per lei, e che una cucitrice presa alla giornata non sarebbe stata la morte Domini. Ma lei non voleva saperne.
— Non è per l’economia; — diceva Fulvia, sorridendo. — So bene che s’incomincierebbe troppo tardi, se mai. Ma mi piace far così; sono contenta così; sono nata borghesuccia; della mia condizione mi ritornano gl’istinti, e mi piacciono.
Il signor Demetrio faceva una spallata, e se ne andava regolarmente pei fatti suoi. Quasi sarebbe inutile il dire che aveva ripigliato l’uso quotidiano della partita a tarocchi.
— Che strana donna, quella mia figliuola! — diceva egli tra sè. — Va da un eccesso all’altro con una facilità singolare. E vedete che calma, che tranquillità, che flemma! Non par più quella che in quattro e quattr’otto ha messo Maddalena alla porta.