La figlia del re (Barrili)/XIV
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XIV.
Non c’era, infatti. La mattina seguente, Virginio andò da buon cavaliere ad attendere l'arrivo del treno; e due carrozze, per bastare ad ogni bisogno, erano preparate fuori della stazione mentre egli passeggiava sotto la tettoia, spiando il nastro di fumo e tendendo l'orecchio al fischio della vaporiera, dalla parte di Piacenza. Finalmente, col solito quarto d’ora di ritardo che è il colmo della puntualità delle strade ferrate italiane, giunse il treno benedetto, e Virginio potè scorgere la testa della contessa Fulvia, che si affacciava da un finestrino di prima classe, per riconoscere i cari luoghi, e respirare le dolci aure della terra natale. Discese sola; vogliamo dire senz’ombra di marito, coi suoi due amabili rampolli, il primo dei quali, Lamberto, saltellante come un capriolo, tra le braccia della bambinaia, e il secondo, Guido, appiccicato saviamente al petto della balia.
Quei due piccini furono una buona occasione ai primi discorsi di Virginio colla sua antica scolara. Cari bambini! voi fate spesso buon giuoco ai grandi, offrendo il tema a tante vane conversazioni, che nascondono le tempeste dell’anima, e colmano utilmente le lacune dei troppo lunghi e pericolosi silenzi. Vengono a voi di pien diritto le prime attenzioni di tanti disgraziati, che vi hanno preceduto nelle noie del mondo birbone; si sorride volentieri a voi, quando siete di buon umore; si è tutti in ansietà quando strillate; e comunque sia, qualunque cosa si faccia per voi, le piccole cure aiutano a dissimulare, se non a dimenticare le grandi.
Il signor Demetrio era ancora a letto quando giunse sua figlia; e la nobil signora fu introdotta ed accolta dal solo Virginio Lorini in quella casa dove era nata e della quale si era un po’ troppo dimenticata. Ma non per questo rimaneva a letto il suo babbo, che non era punto permaloso e a certe sottigliezze del sentimento non aveva mai avuto inclinazione. Temeva l’arrivo del suo signor genero, piuttosto; e temendolo e crucciandosene in anticipazione, voleva almeno ritardarsi la noia dell’incontro: perciò il nostro buon convalescente si faceva volentieri più infermo che veramente non fosse stato mai, neanche quando il medico era venuto a fargli per ogni buon fine una cavata di sangue. Ma quando egli ebbe udito da Virginio che la contessa era giunta senza il suo conte, egli non resistette più al desiderio di veder la figliuola, che fu tosto introdotta nella camera. Virginio si ritrasse immediatamente, per non disturbare quelle due anime nell’intimità delle prime effusioni: ma nell’atto di ritirarsi potè sentire lo scoppio delle lacrime, immaginare le genuflessioni al capezzale, i teneri abbracci, i facili perdoni, e tutte l’altre cose di questo genere, che fanno sempre un certo senso ai cuori bennati.
Quando la contessa Fulvia uscì dalla camera del babbo, aveva gli occhi un po’ rossi; ma il volto era anche illuminato da un bel sorriso. In questa maniera dicono i poeti che sorrida il sole da un rotto di nuvole, dopo una scossa di pioggia. La contessa aveva anche ragione di sorridere, vedendo i suoi bambini, che andò a baciare con tenerezza, quasi volesse farli partecipi delle sue gioie filiali, e chi sa? forse ancora delle sue rifiorite speranze materne. Ciò fatto, si volse e con un bel moto d’animo stese anche la mano a Virginio. Il quale rimase lì un pochettino sconcertato, quasi smarrito. Per fortuna, l’atto della contessa era di quelli che non domandano ricambio di parole.
Verso le nove, il signor Demetrio si alzò, e venne anch’egli in sala, di buonissimo umore e tutto felice di riavere la sua Fulvia. Gli furono portati davanti i bambini ed offerti al bacio solenne. Li accarezzò, li vezzeggiò a modo suo, facendo rider Guido che si era spiccato per lui dalla poppa, e gli tendeva la sua manina rosata colla confidenza inconscia dei suoi cinque mesi d’età; per contro facendo torcer gli occhi a Lamberto, che incominciava a conoscere qualche cosa, ma che appunto per ciò non si adattava così facilmente a veder facce nuove.
— Piccolo impertinente! — gli disse il signor Demetrio, fingendo di dargli un buffetto sul naso. — Non riconosci neanche il tuo padrino? Ma già, capisco; tu non sei che un falso Demetrio.
— Perchè falso? — domandò Fulvia, turbata.
— Lascia correre; è storia antica, che Virginio ti spiegherà, se non la sai. Del resto, se il falso Demetrio non ti va, diciamo Demetrio per metà. Del suo primo e vero nobilissimo nome non si chiama forse Lamberto? Animo, bambinona che sei; lascia dire a tuo padre quel che gli gira per l'anima. Sai pure che io amo te, e i tuoi figliuoli non meno di te. —
Lo scontrosetto Lamberto fece miglior viso a Virginio, non pure perchè quello era un conoscente di due ore più vecchio, ma perchè ritornava allora in sala con un palloncino di guttaperca, dipinto a spicchi di varii colori, con un cavalluccio di legno e un piccolo can barbone, tutt’e due disposti a lasciarsi tirare su quattro ruote, fino a tanto che queste non uscissero dai perni; cose che succedono spesso ai can barboni e ai cavallucci, quando sono di legno.
— Ho già capito, — disse il signor Demetrio, — che giù al Bottegone bisognerà aggiungere una buona provvista di balocchi.
— Ce ne son tanti! — rispose Virginio; — e ci avranno sempre da scegliere.
— No davvero, non sceglieranno; — Soggiunse Fulvia. — Si avvezzeranno a vedere e non toccare. Non ci mancherebbe altro, per l’ordine e la quiete che io ho lasciato qui sotto, e che spero bene di non esser venuta a turbare.
— Se è per l’ordine e la quiete, hai ragione; — rispose il signor Demetrio. — Grazie al signor Virginio l’uno e l’altra regnano qui sotto, come a Varsavia. Quanto ai danni che possono recare, il signor Virginio ti potrà soggiungere che il Bottegone sta fermo e non crollerà nè per questo nè per altri colpi, cento o duecento mila volte più gravi. Ecco, l'ho detta, e dev’essere una sciocchezza, perchè mia figlia fa muso, come il mio figlioccio Lamberto.
— No, babbo, noi — gridò Fulvia, correndo a lui e gittandogli le braccia al collo. — Bisognerà bene che io mi avvezzi a sentir la lezione, anche quando tu non abbia intenzione di darmela.
— Vuoi dire? — mormorò il signor Demetrio.
— E sia pure come ti piacerà. Lascia allora che i tuoi figli rompano e sciupino quanto vorranno. Per far che facciano, non ti pare?... non arriveranno mai.... Va bene così? Ridi, e non se ne parli più. Sai bene che questa è casa tua, dopo tutto!
— Povero babbo! come sei buono!
— Oh questa è nuova di zecca! E come vorresti che io fossi cattivo? o solamente mediocre? Marietta! ehi dico, Marietta! —
La cuoca fu pronta ad apparire sulla soglia.
— Comanda, signor padrone?
— Comando e voglio grandi cose; — gridò il signor Demetrio, levando con olimpico piglio la testa e stendendo imperiosamente una mano vedova per fortuna di folgori. — Ha da essere un pranzo magno quest’oggi, mi capisci? E vedrai che gli faremo onore, tu che ti lagni sempre di non vederci mangiar mai di buon appetito. Quella cara tavola lunga, che morte! ci pareva sempre di vederci ballare i topi. Ora ci ballerete voi altri, ragazzi! Tu, falso Demetrio.... cioè no, diciamo invece mezzo Demetrio; e Guido, dall’altra parte, accanto a sua madre. Sicuro, li voglio a tavola, con quei due ritratti della salute che li portano in collo, e che mi paiono di buon augurio per la nobilissima stirpe. —
Niente di meno, la nobilissima stirpe! Tornava dunque alle antiche debolezze, il signor Demetrio Bertòla? Non lo credete; sicuramente l’enfatica frase portava la celia con sè. Per altro, anche quel tanto di celia mostrava che nello spazio di due ore il signor Demetrio si era assai rabbonito. E come no? Prima di tutto era stato predisposto a più miti consigli dal timore di guastarsi il sangue, col pericolo di rimettersi a letto e di lasciarci la pelle. Il piccolo assaggio che ne aveva fatto era tale da metterlo in pensiero, e le esortazioni di Virginio avevano compiuta l’opera riparatrice del medico. Poi, sua figlia era sua figlia; verità sacrosanta, come quell’altra che il sangue non è acqua. Doveva egli impuntarsi nell’ira, o star grosso, davanti a quella cara ambiziosa, che aveva scontate a così caro prezzo le sue ambizioni? La pace era una conseguenza necessaria del ritorno di lei al tetto paterno. E qui, lo sapete, quando s’incomincia a dare una mano, tutto il braccio a breve andare ci corre. Finalmente, e questo era il meglio, quella cara figliuola tornava sola; non gli portava tra’ piedi la causa di tutti i mali, il signor conte, lo spiantato autore della nobilissima stirpe.
A proposito, e come mai non era venuto colla moglie, il signor conte Spilamberti? Per saperlo, bisognerà ritornare al primo incontro di Fulvia col babbo, alle prime effusioni di lei, quando si era inginocchiata al capezzale del vecchio, implorando la sua grazia e la sua benedizione. Raccontava con rotte parole come si fosse sbigottita ad un cenno della lettera di Virginio Lorini, un cenno che nella sua brevità lasciava immaginare ogni cosa più grave; come avesse manifestato il desiderio di correre a Mercurano, e come il conte Attilio le avesse detto: «va pure; a disfar la casa penserò io; tu avvisami, appena sarai giunta, se posso restare il tempo necessario a vender tutto con calma.» Essa allora aveva fatte le valigie, e quel medesimo giorno era partita da Roma. Ritornava a casa sua, con impeto di desiderio, e non diceva ancor tutto; ci ritornava infatti con tanto giubilo, quanta era stata dapprima la sua ripugnanza.
Ed era ben mutata, oramai. Come donna, certamente, era diventata più bella. Il primo stadio dell’esperienza insegna molto alle donne, uscite appena dal guscio della casa e delle sue consuetudini gelose; nè conferisce meno alla loro bellezza il primo rigoglio della maternità trionfante. Il fiore dischiuso durerà nella sua freschezza quanto vorrà durare o potrà; così come esso appare, nella pompa de’ suoi vivi colori, varrà sempre più del bottone, con tutte le sue timide speranze, con tutte le sue mal sicure promesse.
Si notava poi un certo che di pensoso, in quella bellezza, un certo che di profondo, di straniero, d’insolito, che ne accresceva il pregio e ne rendeva la sensazione più forte. Quante visioni in quegli occhi! Un po’ incantati, da fanciulla, un po’ birichini alle volte, ma sempre più curiosi che furbi: ora apparivano esperti del mondo, meno desiderosi di sapere, più raccolti in sè, più avari della loro luce o più schivi di mostrare la cresciuta potenza; grandi occhi, infine, come son sempre gli occhi d’una bella donna, sui quali è passata la doppia visione del bene e del male; ond’è che non sieno mai del tutto sereni, e nell’umido luccichìo lascino pensare alle lagrime che li hanno spesso velati.
Virginio Lorini vide tutte queste cose in un lampo; ma non si fermò a riguardarle. Si rinchiuse in sè, più che non avesse mai fatto; ed anche essendo vicino a lei, aveva un tal modo di esserci, che Fulvia non vedesse mai gli occhi di Virginio fissarsi un istante nei suoi. Ed egli sfuggiva le occasioni di trovarsi alla presenza di Fulvia, oltre le necessarie d’ogni giorno, del pranzo e della cena. La cosa non era neanche difficile, potendo egli star molto a pianterreno, ed ella non uscendo quasi mai dalle sue stanze del primo piano.
L’arrivo della contessa Spilamberti aveva fatto rumore in paese. Tutti volevano sapere il come e il perchè; tutti, naturalmente, non potendo saperne abbastanza dai fattorini e dagli altri giovani di negozio, cercavano di far parlare il signor Virginio. Ma egli aveva la sua ragione bell’e pronta per tutti, e tale da non appagare nessuno: vogliamo dire la infermità del signor Demetrio, convenientemente aggravata per la circostanza, che giustificava benissimo l'accorrere, non di una figlia soltanto, ma di una dozzina di figlie.
Potevano contentarsi di quella risposta le signorine Cometti, gran bargellone nel cospetto di Dio, che tre volte nello spazio di un giorno erano già capitate al Bottegone, una col pretesto di negoziare quattro braccia di cambrì, un’altra col pretesto di comperare due rocchetti di refe, un’altra ancora colla scusa di aver dimenticato il meglio, che era un assortimento di lane da ricamo? Speravano sempre di cogliere la contessa al varco; ma invano. La contessa Spilamberti non aveva più gli usi della signorina Fulvia, che a certe ore calava alle pannine, o nella cartoleria del Bottegone. Ed esse non potevano salire da lei, per riverirla: colpa loro, che l’avevano sempre tenuta a distanza, quando non era altro che la figlia di Demetrio e di Giuditta Bertòla.
La signorina Arpalice, bargella maggiore, fu tanto addolorata di non venire a capo di nulla, nè di veder la reduce contessa, per leggerle bene entro gli occhi, nè di ottenere dal signor Lorini più di quello che ne ottenevano tutti gli altri curiosi, che ci perdette perfino la misura della cattiveria lecita ed onesta, cioè consentita dall’uso e non riprovata dal galateo moderno. Ne sia prova questa domanda in punta di labbra (la vecchia immagine del fior di labbra non sarebbe applicabile infatti al caso di Arpalice Cometti) ch’ella rivolse al signor Virginio Lorini.
— È vero che il conte Spilamberti ha perduto tanti denari a Roma?
— Denari! — esclamò Virginio, sorridendo sempre di quel suo eterno sorriso che le circostanze gli avevano insegnato, anzi impresso e scolpito sulle labbra. — Denari e santità, metà della metà. C’è molta esagerazione, in ciò che si narra. Del resto, tutti hanno perduto, nella catastrofe edilizia di Roma; intendo coloro che ne avevano da perdere; — soggiunse egli, a mo' di commento. — Ma son cose da non badarci troppo.
— Me ne consolo; — ribattè la signorina Arpalice. — Ma che cosa c’è di vero in quell’altra notizia di Modena? Si dice laggiù che la Banca Agraria gli faccia andare in vendita i suoi stabili. —
La botta era veramente un po’ forte. Si poteva rispondere mandando l'indiscreta bargella a quel paese, e non avendo neanche l'aria di mancare alle buone creanze. Ma il signor Virginio non si commosse punto, e parò con grazia anche quella; tanto era già preparato, per tutti i casi possibili e immaginabili.
— Ah sì, vero; — rispose. — Ma non è che una vendita fatta d’accordo tra debitore e creditore. La Banca ha un credito, in apparenza più forte del vero; il conte Spilamberti fa vender gli stabili con calma, con molta calma, per non aver da dare in ricambio le azioni che possiede, e per una somma discreta. Ha capito?
— Non bene; — rispose la signorina Arpalice; — Non bene.
— Meccanismo bancario; — conchiuse Virginio, sorridendo ancora; — ed è più complicato di quello degli orologi. Stiano tutti tranquilli, del resto; il conte Spilamberti non è ancora spacciato, e ad ogni modo una cosa è certa, ch’egli non ricorrerà per aiuto alle anime caritatevoli. —
Questa non era più una parata; era una botta a fondo, e la signorina Arpalice la ricevette in pieno costato, tanto che parvero crocchiarne le ossa. Ahimè, povere ossa della gran zitellona! Imparavano a proprie spese che gusto ci sia a rallegrarsi dei malanni altrui, perdendoci ancora un tempo prezioso, che il buon Dio ci accorda perchè ci occupiamo dei nostri.
Così, tutti cercando di conoscere e nessuno riuscendo a sapere più di quello che si poteva argomentare da poche induzioni, passavano i giorni, e la furia delle domande incominciava a quietarsi. La contessa Fulvia, sempre al fianco del babbo, non si vedeva mai comparire per le vie. Bene si vedevano i piccini, portati attorno dalla balia e dalla bambinaia; ma la balia parlava il dialetto di Frosinone, la bambinaia quello di Subiaco, e a Mercurano non c’era nessun cardinale Mezzofanti per capire quei gerghi e per entrare in discorso.
Neanche il signor Virginio, che doveva rispondere, neanche il signor Virginio sapeva poi tutto. Non sapeva, a buon conto, che idee ci avesse il signor conte Spilamberti, e se contasse di restar sempre lontano dalla famiglia. Ma un giorno il signor Demetrio, disceso nel salottino, gli entrò di punto in bianco a toccare quel tasto.
— Ed ora, mio caro, un gran bicchiere d’olio di ricino. Lo manderemo giù da valorosi, non è vero?
— Che cosa intendete di dire?
— Che dobbiamo prepararci a vedere quel bell'arnese. Non ha più casa nè tetto; dovrà venir qua, al «refugium peccatorum». Sai che a Modena vanno all’asta i suoi beni?
— Ho bene udito; — rispose Virginio. — E verrà presto?
— Fra quattro o cinque giorni. L’ha scritto iersera a sua moglie. —
Virginio aveva veduta la lettera; egli stesso l’aveva levata dal fascio, e mandata su alla contessa.
— Voi mi farete una grazia, signor Demetrio; — diss’egli.
— Una grazia? Sentiamo.
— Di darmi qualche giorno di congedo.
— Di congedo? Oh, questa è nuova....
— Di zecca, sì; — riprese Virginio. — Ma voi la intenderete benissimo. Non vorrei trovarmi presente all’arrivo del conte. —
Il signor Demetrio rispose a tutta prima con una spallata e con parecchie contrazioni di labbra.
— Se lo hai da incontrare ad ogni modo, — diss’egli poscia, — io non vedo come ti possa importare di essere lontano da casa quando egli ci metterà piede.
— Lasciatemi andare ugualmente; — rispose Virginio. — Mi avvezzerò all’idea di ritrovarlo qui, se egli si fermerà; non avrò da vederlo, se starà pochi giorni soltanto. Infatti, potrebbe darsi che non volesse restarci; il Bottegone mi par così poco fatto per lui!
— Oh, in questo hai ragione; penso ancor io che sarebbe una gran noia per lui.... ed anche un grande impiccio per noi. Va dunque, ragazzo mio; purchè non sia per troppi giorni, la grazia è fatta. —
Quel giorno, a tavola, si parlò molto di Bercignasco, dove Virginio contava di passare una settimana.
— Capisci? — diceva il signor Demetrio a sua figlia. — Abbiamo un milionario che tu non ci avevi lasciato, partendone.
— E sarebbe? — chiedeva Fulvia, non intendendo alle prime.
— Il nostro Virginio, perbacco, l’erede di suo zio arciprete, il padrone di mezzo il territorio di Bercignasco.
— Siete un cattivo agrimensore, signor Demetrio; — rispondeva Virginio. — Siamo ancora molto distanti.
— Perchè distanti? Se non hai tanto di terra, puoi comperarne quanto ti pare; — ribattè il signor Demetrio. — Hai rendita dello Stato a bizzeffe, e chi sa? fors’anche rendita turca. I preti ci credevano pure, una volta, alla rendita turca, omaggio reso alla solidità di Maometto. Va al tuo Bercignasco, ragazzo mio, e consolati a passeggiare i tuoi campi, come un patriarca; ma vedi anche di ritornare al più presto. Sei troppo necessario al Bottegone.
— Necessario! — esclamò Virginio. — Nessuno è necessario; altrimenti, bisognerebbe essere immortali.
— Che bella cosa! Ci farei patto ancor io: — disse il signor Demetrio.
— Quanto a me, non saprei consolarmene; — conchiuse Virginio.
— Come la ninfa Calipso! — mormorò Fulvia sorridendo. — Se ne ricorda, il mio maestro di francese? «Dans sa douleur elle se trouvait malheureuse d’être immortelle». —
L’accenno al primo maestro era buono, e Virginio ringraziò con un sorriso la sua antica scolara.
Egli rimase ancora due giorni; poi si apparecchiò alla partenza. Il conte, da Roma, annunciava di aver dato sesto a tutte le cose sue: si era in venerdì; sarebbe arrivato il lunedì sera.
— Vai dunque davvero a Bercignasco? — chiese il signor Demetrio al suo segretario.
— Non so; scendo a Parma, per ora. Poi, chi sa? mi spingerò fino a Milano; anzi ci andrò ad ogni modo, per non dimenticar gli affari, e vedrò tutti i vostri corrispondenti.
— Bene, e scegli qualche buon genere, che possa servire. Mi raccomando pei caffè, che non mandino Bahia per Portorico; altrimenti manderemo ad effetto le nostre minacce e ci serviremo da Venezia senz’altro. Quanto al pepe.... —
Noi non istaremo a sentire le raccomandazioni del signor Demetrio sul pepe, e nemmeno quell’altre, che seguirono, sulla cioccolata alla vaniglia, sulle penne Mitchell e sulle stoffe di mezza stagione. Il vecchio Bertòla coglieva il destro per passare in rassegna tutti i generi del Bottegone, forse volendo mostrare di non essere poi diventato straniero del tutto al suo esteso commercio.
Virginio partì, risoluto ma triste, con un gran mancamento di cuore. Si può aver fatto il proposito, e volerlo mandare ad effetto; ma si parte mal volentieri dai luoghi in cui rimane legato il nostro pensiero. Ed egli era anche noiato di un’altra cosa più lontana, pensando che il signor conte poteva andar contro a tutte le previsioni più ragionevoli, e voler rimanere a Mercurano; nel qual caso sarebbe stato impossibile che ci rimanesse lui, testimone forzato, a divorar la sua rabbia. Sarebbe poi stata una dolorosa ironia della sorte, che da quella casa in cui era vissuto tanti anni, ch’egli poteva considerare come sua propria, ne fosse cacciato lui, per far posto a un intruso dell’ultim’ora, che non ci aveva consuetudine, che non ci aveva amore, e per conto suo non avrebbe potuto far altro che mandarla in rovina.
Andò a Parma, e non scese a quella stazione; seguitò invece per Modena, dove si fermò per abboccarsi coll’amico notaio e ragionare con lui intorno alla vendita dei beni del conte Spilamberti. Le notizie corse erano vere pur troppo: seccata di non avere interessi da un anno, la Banca Agraria aveva promossa la vendita all’asta pubblica. Quella era una buona occasione per Virginio Lorini. Non mirava già ad acquistare la terra di Nonàntola; per quella aveva offerenti il notaio, e del resto non poteva piacere a lui di rinvilirne il prezzo, come avrebbe dovuto, poichè il possessore ne aveva levate in anticipazione sei annate di reddito. Per contro, gli poteva convenire il palazzo di Modena, che a nessuno sarebbe venuto in mente di comperare per un prezzo superiore alle ventimila lire, ed egli ne avrebbe date magari le venticinque e le trenta. Strano, che il successore del conte Spilamberti in quella proprietà fosse appunto l’uomo da lui soppiantato in casa Bertòla. Ma anche questa era un’ironia della sorte. Virginio Lorini voleva pure la rôcca di San Cesario, quella sopra tutto, che non valeva nulla, che si sarebbe data per un fico secco, tanto sarebbe stata di peso a chi la dovesse possedere. Bisognerebbe esser matti per comprar quella rôcca, aveva detto il notaio, e i matti scarseggiano a Modena, dacchè li raccoglie il manicomio di Reggio. Ma queste non erano ragioni per trattenere Virginio Lorini; il quale si proponeva di far vedere che non tutti i matti erano ancora ricoverati là dentro.
Il notaio non aveva più niente da opporre; promise di contentare l’amico, andando a dirci su per conto di lui, e colla clausola del «nome da dichiarare». Così stabilite le cose, Virginio, che non aveva più altro da fare a Modena, se ne ritornò verso Parma e Piacenza, donde finalmente si condusse a Milano. Laggiù stette parecchi giorni, lavorando per conto del Bottegone, come aveva promesso. E più ci sarebbe stato, se una lettera del signor Demetrio non fosse giunta a fargli premura del ritorno.
— «È inutile che tu perda il tempo fuori di casa,» gli scriveva il vecchio; «quell’altro ha piantata la labarda, e non parla di andarsene. Mi ha fatto un piagnisteo più lungo della quaresima, tanto che io gli ho detto: «va bene, va bene, diamogli un taccio e finiamola.» Mi pare molto avvilito, ed io stesso mi sono ritrovato confuso per lui. Senti, caro, se me lo sorbisco io, puoi sorbirtene la tua parte anche tu. Male in comune sarà poi mezzo gaudio?»
Ah sì, altro c’era per lui. Pure, si adattò, e si dispose al ritorno. Il signor Demetrio lo accolse a braccia aperte, mettendo a rumore tutto il Bottegone, come se gli fosse ritornato un figliuolo dal mondo della luna.
— Eccoti finalmente! suonate, campane. Temevo già che tu non volessi venir più, milionario traditore! Come vanno gli affari a Bercignasco?
— Bene, tutto bene. E vedo in buona salute anche voi; me ne congratulo. —
I bambini sorrisero al reduce; Guido stendendogli la manina rosata e gorgogliandogli una sillaba indistinta, in mezzo ad un fiotto del suo buon latte di Frosinone; Lamberto aggrappandosi alle sue ginocchia, per veder bene i nuovi balocchi ond’egli veniva carico a Mercurano.
— Me li guasterà, signor Virginio; — disse Fulvia, che era venuta in sala a dargli il ben tornato; — ed io finirò con esser gelosa. —
Buone parole, buona stretta di mano che le accompagnava; Virginio accettò quelle e questa col sorrisetto consueto. Ripigliò subito il suo posto al Bottegone, e andò a rivedere il suo libro maestro, dove il signor Demetrio si era ben guardato di scrivere.
— Quella è stampa; — diceva il signor Demetrio; — non mi attenterò di guastarla io, coi miei scarabocchi. —
E il conte? Virginio non lo cercava di sicuro, e non domandò di lui a nessuno. Lo vide, per altro, lo vide più presto che non desiderasse, entrando a caso nella cartoleria, dove il signor conte stava intento sul banco a sfogliare e scegliere quinterni di carta vergata. Maddalena, che gli era da presso, alzò la testa e fu la prima a scorgere il nuovo venuto.
— Ah? è qui Lei? — gridò la formosa Maddalena. — Credevo che fosse andato a prender moglie.
— Perchè? — disse Virginio, rabbuiandosi a quello sciocco accenno, che gli dava sempre sui nervi.
— Perchè non si vedeva più ritornare; — rispose Maddalena.
— Affari; — replicò brevemente Virginio.
Il conte si era voltato, frattanto, levandosi un poco sulla vita. Virginio fece un saluto, come voleva la cortesia, e come del resto era sua consuetudine verso tutti coloro che capitavano al Bottegone. Al saluto di Virginio, quell'altro rispose a mala pena, con un cenno del capo. Ma si pentì certamente di aver fatto troppo poco; perchè subito, vedendo il Lorini già in atto di allontanarsi, finì di alzarsi sulla persona, e con un certo tono signorile tra la gentilezza e la degnazione, fingendo di non averlo a tutta prima riconosciuto.
— Il signor Lorini?...
— Per servirla; — rispose Virginio.
— Mi compiaccio di vederla; — ripigliò il conte Attilio, sforzandosi di dare al suo volto un’espressione di benevolenza, conforme alla frase che gli usciva dalle labbra.
— Grazie; — replicò Virginio; — La prego.... —
E voleva soggiungere: non s’incomodi. Ma quell’altro seguitava:
— E debbo ringraziarla ancora di qualche cosa. Certamente, della gentile premura con la quale, essendo nostro padre ammalato, Ella ha fatte le parti sue, scrivendoci a Roma e....
— Non ho fatto che il dover mio; — interruppe Virginio.
Ma proprio non interrompeva niente. La sospensione del conte Attilio aveva aspettata per l'appunto la frase di Virginio Lorini, per risolversi in una reticenza tanto fatta.
Il signor conte, in verità, venuto a toccare quel tasto, poteva dir qualche cosa di più. Le parole che aveva proferite, sciocche, leggere, elastiche come il sughero, parevano tirate fuori col cavatappi. Ma che importava ciò a Virginio Lorini? Egli non era punto orgoglioso delle sue buone azioni; e del resto, siccome non aveva fatto per quell’uomo il sacrifizio del suo denaro, non gli premeva di esserne ringraziato da lui. Da lei, forse? No, neanche da lei; anzi, meno da lei che da ogni altra persona. Per non avere i ringraziamenti di Fulvia, aveva sempre evitato di trovarsi da solo a sola con lei, temendo ancora ad ogni istante che ella lo chiamasse in disparte per entrargli a discorrere di quelle sessantamila lire. La contessa, per fortuna, non ne aveva fatto nulla; forse non osando neppure lei di parlare. Ma che bisogno c’era che le parole venissero a guastare la delicatezza del fatto? Egli aveva potuto rendere un servizio, e lo aveva reso, senza farsene un vanto: ella aveva potuto accettarlo, e il suo silenzio non significava punto che volesse dimenticarlo. L’espressione di bontà, di sollecitudine affettuosa, di delicato riguardo che appariva da ogni sua parola, da ogni suo atto verso il signor Lorini, diceva assai chiaro che la contessa Spilamberti aveva mutato profondamente d’opinione e di sentimenti per lui; lasciava intendere che Fulvia avesse qualche cosa sull’anima, come un rimorso, e qualche piccola colpa, d’ingratitudine, d’ingiustizia, di trascuranza, volesse farsi perdonare da lui.
Quel giorno, alla mensa del signor Demetrio, il nostro Virginio si trovava per la prima volta a disagio; non già straniero del tutto, ma un po’ meno figliuol di casa, e un poco più ospite. Cose che non si sanno spiegare, ma che si sentono e non si posson negare, essendo chiare come la stessa evidenza! I discorsi, naturalmente, erano meno intimi del solito; vagavano sul più e sul meno, interrompendosi spesso per troppo facile esaurimento dei piccoli temi. Per fortuna, c’erano i bambini; quei cari bambini che riescono di tanta utilità in una brigata che non ha niente da dire, e che non vuol guastarsi il sangue toccando un punto piuttosto che un altro. Ed anche Virginio, aiutandosi come poteva, rivolse la sua attenzione ai bambini.
— Lamberto ama molto il signor Virginio; — notò la contessa, cercando anche lei di aiutare la conversazione e di estenderla. — Ma quando Guido conoscerà un po’ meglio e potrà dire la sue piccole ragioni, Lamberto avrà in lui un fiero rivale.
— Già; — rispondeva Virginio. — Son tutt’e due così cari! —
Ma non si poteva parlar sempre dei bambini e delle loro prodezze. Dopo le frutte, la balia e la bambinaia si alzarono, portando via i due rampolli a prender aria. Si sa, i bambini non possono stare lungamente fermi in un luogo, come i grandi. E i grandi, come si trovarono soli, attaccarono presto una conversazione più seria. Il conte Attilio, evidentemente, voleva rompere il ghiaccio; e a modo suo, con grande asseveranza di discorso, entrava a fringuellare d’affari, di commercio, di compra e di vendita, forse cercando di prendere a quell’esca il suocero, ancora un po’ grosso, e d’ingrazionirsi a mano a mano con lui.
Curioso personaggio, quel genero; e curioso il modo come intendeva di riuscire accetto al signor Bertòla! Aveva mangiata in due anni la dote della moglie; aveva i suoi beni in vendita; viveva oramai alle spalle del suocero, e si dava l’aria d’un gran finanziere, d’un milionario in vacanze, che con spensierata generosità semina idee nel campo dei vicini, degli ospiti, dei conoscenti, coi quali è stato messo in relazione dal caso. Quel giorno, per esempio, prendeva argomento dal Bottegone: una grande intrapresa, un’idea maravigliosa, di cui dava gran lode al genio del suo amatissimo suocero; ma un’idea che poteva essere ancora allargata, ingrandita, fecondata, e ciò sempre in omaggio alla bellezza sua e al sullodato genio dell’autore. Il Bottegone, portentoso organismo dai mille tentacoli, doveva estendere la sua sfera d’azione, impadronirsi di tutti i generi, rispondere a tutti i bisogni, destare tutte le curiosità, e rendere il triplo di ciò che rendeva, fors’anche il quadruplo e il quintuplo.
— Caro mio, — rispondeva il signor Demetrio, che fin allora era stato quieto a sentirsi fare il solletico, — saran tutte idee bellissime; ma io penso che oramai non si possa ottenere di più. Siamo a Mercurano, per tua norma, non in un gran centro di popolazione. Il signor Virginio ha già studiato questo problema, e l’ha sulla punta delle dita. Gli abitanti di Mercurano faranno molto a toccare i quattromila ottocento: aumenta pure il numero con tutti i contadini che calano la domenica dai monti, e non passeranno di molto i cinquemila.
— Ma bisogna farne calare di più; — ribatteva con aria di trionfo lo Spilamberti; — bisogna andare a studiare i loro bisogni sul posto, vedere di che si provvedono nei loro paeselli, per fare una concorrenza vittoriosa a tutte le piccole industrie. Ci sono anche i bisogni che s’inventano, che si fanno nascere dove non c’erano ancora. È una cosa, questa, a cui voglio pensare. Mi permetterai bene di pensarci, di formare un disegno, e di sottoporlo alla tua approvazione. Tu sei stato qui lo scopritore d’un mondo; le grandi idee ti son dunque familiari; sei capace d’intenderle a volo. Dove io avrò veduto male, mi correggerai, col tuo colpo d’occhio raddrizzando gli errori, e in fin dei conti vedendo meglio di me. Anch’io, dopo tutto, voglio lavorare con te.
— Lavorare! — esclamò il signor Demetrio. — Tu, proprio?
— Io, sì, perchè no? Le disgrazie immeritate non mi hanno abbattuto. E non è bene che io stia qui a non far niente. Lavorare è un eroismo necessario; e io sarò un eroe, te lo prometto. —
Il signor Demetrio non gradì la promessa che a mezzo. Gli piaceva poco e non gli annunziava niente di buono quello sfoggio di grandi idee che dovevano gonfiare il Bottegone, col rischio di farlo scoppiare. Sapeva bene che erano tutte ciance; ma appunto perchè erano tali, lo annoiavano parecchio, come sogliono annoiare le spacconate di cui uno ci viene intronando il cervello, mentre noi per la buona creanza dobbiamo starle a sentire, mostrando quasi di accettarle per buona moneta.
Quella sera, rimasto un momento a quattr’occhi col suo segretario, il signor Demetrio gli uscì in queste parole:
— Dimmi un po’ tu, che te ne dovresti intendere; che cos’è un eroe?
— Un eroe! — ripetè Virginio, sconcertato lì per lì da quella domanda improvvisa. — Un eroe è.... un eroe.... cioè, ecco qua, un uomo che fa delle grandi cose.... che compie, o può compiere un atto di valore inaudito.
— Già, ed è l’idea che me n’ero fatta ancor io; — disse il signor Demetrio. — A questi patti il mio signor genero non dovrebb’essere un eroe, nè in via di diventare un eroe; sicchè dubito forte che mi rimanga quello che è, voglio dire un imbecille.
— Signor Demetrio! — esclamò Virginio, compreso di stupore a quella volata del suo principale.
— Ma sì, non hai sentito che idee sul commercio in genere, e particolarmente sul mio? Mi dava l’unto, il compare. Ma io non sono nato pizzicagnolo per niente, e so di che roba si fa: perchè io lo gradissi, sarebbe necessario almeno che lo strutto fosse di prima qualità. Il Bottegone... sicuro, è stata un’idea, una trovata; ma naturale, semplicissima, direi quasi casuale, come la scoperta della legge.... di quella legge della mela.... ma sì, com’è più quella storia della mela, caduta sul naso dell’astronomo, che tu spiegavi così bene a Fulvia, quando era bambina?
— Ah, capisco; — rispose Virginio. — Volete dire la mela d’Isacco Newton, dalla quale il grand’uomo fu condotto alla scoperta della gravitazione universale.
— Sicuro, la gravitazione; — ripigliò il signor Demetrio, messo finalmente sulla buona strada. — La mela casca sul naso al Newton; dunque i corpi.... certamente i corpi son gravi, e quando son gravi possono anche far male; ecco la legge. Così il Bottegone. Avevo una bottega; ho trovato che era bene averla, e che averne due era meglio che averne una sola; perciò ne ho aperte due, tre, quattro e via dicendo. Questa è stata l’idea; maravigliosa, ne convengo; ma c’era egli bisogno di proclamarmi, per questa semplicissima trovata, un grand’uomo? Povero grand’uomo, se mai, che ha fatte tante corbellerie! E mi fermerò poi qui? Mistero, ahimè, impenetrabile mistero! —
Sospirò, il bravo signor Demetrio, grande filosofo senza saperlo. Se il suo signor genero lo avesse udito in quel punto, certamente avrebbe trovato modo di aggiungerlo ottavo ai sette sapienti della Grecia.