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dimenticata. Ma non per questo rimaneva a letto il suo babbo, che non era punto permaloso e a certe sottigliezze del sentimento non aveva mai avuto inclinazione. Temeva l’arrivo del suo signor genero, piuttosto; e temendolo e crucciandosene in anticipazione, voleva almeno ritardarsi la noia dell’incontro: perciò il nostro buon convalescente si faceva volentieri più infermo che veramente non fosse stato mai, neanche quando il medico era venuto a fargli per ogni buon fine una cavata di sangue. Ma quando egli ebbe udito da Virginio che la contessa era giunta senza il suo conte, egli non resistette più al desiderio di veder la figliuola, che fu tosto introdotta nella camera. Virginio si ritrasse immediatamente, per non disturbare quelle due anime nell’intimità delle prime effusioni: ma nell’atto di ritirarsi potè sentire lo scoppio delle lacrime, immaginare le genuflessioni al capezzale, i teneri abbracci, i facili perdoni, e tutte l’altre cose di questo genere, che fanno sempre un certo senso ai cuori bennati.

Quando la contessa Fulvia uscì dalla camera del babbo, aveva gli occhi un po’ rossi; ma il volto era anche illuminato da un bel sorriso. In questa maniera dicono i poeti che sorrida il sole da un rotto di nuvole, dopo una scossa di pioggia. La contessa aveva anche ragione di sorridere, vedendo i suoi bambini, che andò a baciare con tenerezza, quasi volesse farli partecipi delle sue gioie filiali, e chi sa? forse ancora delle sue rifiorite speranze materne. Ciò fatto, si volse e con un bel moto d’animo stese anche la mano a Virginio. Il quale rimase lì un pochettino sconcertato, quasi smarrito. Per fortuna, l’atto della contessa era di quelli che non domandano ricambio di parole.

Verso le nove, il signor Demetrio si alzò, e venne anch’egli in sala, di buonissimo umore e tutto felice di riavere la sua Fulvia. Gli furono portati davanti i bambini ed offerti al bacio solenne. Li accarezzò, li vezzeggiò a modo suo, facendo rider Guido che si era spiccato per lui