La figlia del re (Barrili)/XIII
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | XII | XIV | ► |
XIII.
Povera bambina bella, che Virginio aveva tanto amato, ch’egli amava ancora, che avrebbe amata sempre, chiudendo l’amor suo, triste e dolce segreto, nel profondo dell’anima, come nella piccola boccetta cristallina, custodita e sigillata in un bossolo di metallo o di legno prezioso, si chiude l’essenza di rose! Ma il profumo è penetrante; l’arcano aroma ritrova la sua via, e tradisce la presenza del geloso stillato, imbevendo di sè l’involucro, diffondendo il suo sottile effluvio nell’aria. Così la figura di Virginio tradiva il segreto dell’anima; lo tradiva la quiete malinconica dell’aspetto, lo tradiva il sorriso, che in lui non era mai sincera espressione d’allegrezza; più doveva tradirlo il dolore di quei giorni malaugurati.
Non temeva pel vecchio, oramai; quel vecchio aveva forte la fibra, e una sottrazione di sangue era venuta a sollevarlo in buon punto. Temeva per lei, che sapeva rovinata, senza intendere com’ella potesse più rilevarsi dal colpo inatteso. Che cosa avrebbe pensato Fulvia di quell’uomo, cui si era legata per sempre? Con quali sentimenti avrebbe più potuto vederselo dinanzi, conoscendo (e il fatto non doveva indugiar molto) che sulle sostanze di lui non era da fare assegnamento, per rimediare ai danni della dote sfumata? Una rovina chiamava l’altra, e ambedue s’illuminavano a vicenda, riflettendo la loro sinistra luce sull’aspetto morale del conte Spilamberti, del giuocator temerario, che non aveva dubitato di giuocare sopra una carta parecchi anni di riposata esistenza. Quell’uomo, sicuramente, già rovinato negli averi, si era rivolto a lei come ad un estremo partito; aveva veduto in lei, non l’amore, non la speranza, la fede di tutta la sua vita, ma solamente il mezzo di tentare la sorte, di riconquistar la ricchezza, di ritornare all’ozio fastoso che il suo titolo gli faceva apparire come una condizione necessaria, e che la dote di casa Bertòla non sarebbe certamente bastata ad assicurargli. Gran che, la dote di casa Bertòla! Il conte Attilio Spilamberti l’aveva presa, come si prende ad imprestito un’ultima moneta d’oro, per gittarla sul tappeto verde, a tentar la fortuna. Fallato il conto, si pensa egli a restituir la moneta? E a lui, giuocatore sfortunato, che solo aveva sposata quella donna per amore del giuoco, doveva premer molto di lei? di lei, che dopo avergli recate le duecentomila lire di dote, perchè potesse giuocarle, non gli serviva, neanche più per ottenere quelle misere cinquantamila, ancor necessarie a colmar la voragine?
Virginio era rimasto pensoso. Che fare, in tanta distretta? Le parole del vecchio gli stavano sempre fitte nell'anima. «Non ti resta più che di darle tu, quelle cinquantamila lire, del tuo; ne sei capace; tu sei capace di tutto.» Ah sì, veramente, capace di tutto; e il dare le cinquantamila lire era il meno, per lui. Ma non sapeva come. Egli era diventato così straniero per quella donna, che non vedeva il modo di riavvicinarsi a lei, di giustificare agli occhi di lei una offerta di servigi. La contessa non gli aveva mai scritto: doveva egli, povero diavolo, oscuro uomo, semplice impiegato di casa Bertòla, aver aria di conoscere certi segreti, e prenderne argomento ad offrire un aiuto, che poteva assumere il carattere di un’offesa? Doveva egli scrivere ad una donna come quella, fosse pure stata sua scolara e avesse pur ballato sulle sue ginocchia, che dopo il matrimonio, diventata contessa Spilamberti, non si era più ricordata di lui, non lo aveva più considerato come un essere vivente? Bene essa gli aveva mandato, al ritorno da Parigi, un ricordo; ma come a tutti gli altri impiegati di suo padre, servidorame e bassa forza del Bottegone. Poi, più nulla, neanche un accenno al nome di lui. Nelle lettere frequenti al padre, lettere che Virginio doveva leggere per obbedienza, Virginio non era mai ricordato, neanche per caso. Non se ne lagnava, no, certo; non se ne doleva neanche; meglio così, meglio il silenzio e l’oblìo, che un ricordo delle ultime righe, che un accenno in poscritto, per salvar le apparenze.
Così poteva egli credere d’esser dimenticato da lei; così poteva egli chiudere con dolorosa voluttà il suo segreto nel profondo dell’anima, essenza di rose che penetrava l’involucro e trapelava dal sembiante, dandogli quell’aspetto di morto vivo che conservano nelle loro arche di cristallo certi corpi di santi. Le carni, dove la vita si è spenta da secoli, appariscono fresche tuttavia, come di persona dormente, che sogna in pace il gran sogno di un’altra età, più dolorosa al certo, ma più gloriosa e più cara.
Quanti pensieri in quel raccoglimento silenzioso! Virginio non faceva che ordire e disfare via via sempre nuovi propositi, uno più pazzo dell'altro. Pure, uno tra tanti gli pareva più savio; non darsi pensiero del come avrebbe la contessa interpretato il suo atto, e scrivere una lettera in nome della casa, una lettera d’ufficio, accompagnante l’assegno bancario per le cinquantamila lire richieste, come se il vecchio avesse dato al suo segretario l’incarico di spedire la somma. Col vecchio, quando avesse veduto poi il copialettere, se la sarebbe aggiustata lui molto facilmente. Non aveva detto il signor Demetrio: «gliele darai tu, del tuo?» Ebbene, egli le aveva date del suo; se aveva fatto male a servirsi della firma della casa, una nota in margine poteva correggere l’errore, e scaricare di quel gravame l’azienda. Bel gravame, del resto, che non era pesato sulla cassa!
Egli dunque avrebbe osato appigliarsi a quel partito, più sbrigativo degli altri. Ma come si poteva scrivere in quel modo, due giorni dopo la lettera «ab irato» del signor Demetrio alla figlia? Non avrebbe la contessa pensato egualmente che la volontà del signor Lorini fosse entrata di straforo, a correggere la durezza del principale? E non sarebbe egli apparso ad ogni modo partecipe d’un segreto di famiglia, d’uno di quei segreti che i principali non comunicano ordinariamente ai loro dipendenti, se pure questi sian decorati del titolo di segretarii? Sottigliezze, dopo tutto, sottigliezze ridicole, a cui non bisognava fermarsi, mentre era urgente di venire in aiuto. Si rimettesse il signor Demetrio da quella sua indisposizione, fortunatamente leggera: egli, Virginio, la mattina seguente, andando a Parma, sarebbe corso alla sede della Banca nazionale, e avrebbe spiccato l’assegno.
— Sì, — diss’egli risoluto, non volendo più mutar di proposito, — così farò; è detta, e non si torna più indietro. —
Aveva parlato sommesso; ma aveva parlato, come talvolta avviene a chi medita con troppa intensità di pensiero, che le cose ragionate tra sè gli paion brani di conversazione vera tra due interlocutori alle prese. Ed era, così parlando, seduto al capezzale del signor Demetrio, che sonnecchiava, convalescente del suo piccolo male.
— Sei qui tu? — gli disse il vecchio, destandosi d’improvviso al suono delle parole di Virginio. — Perchè non vai a letto? che ore sono?
— Le cinque del mattino; — rispose Virginio. — Fra poco si alzerà la Marietta, e verrà lei.
— C’era bisogno di vegiliarmi? Sto bene, non vedi?
— Sì, grazie al cielo, e avete riposato placidamente tutta la notte. Ma voi permetterete all’amicizia qualche attenzione, sia pure esagerata. Non avevo sonno, del resto; potrei vegliare un’altra notte così.
— Già, e ti credi d’acciaio, tu! Povero ragazzo! — esclamò il signor Demetrio, con un sospiro. — Perchè l'hai lasciata andar via?...
— Io? — disse Virginio, sussultando.
— È vero, scusami, tu avevi ragione a fare quello che hai fatto; — riprese il signor Demetrio. — Essa voleva il suo conte.... E gliel'ho detto, sai? Virginio, soltanto Virginio è l’uomo fatto per te.
— Non parlate di ciò, ve ne prego; — disse Virginio, che quei ricordi facevano fremere. — Sono storie di mill’anni fa.
— No, non di mill’anni, ragazzo, di ieri. E tu ne soffri ancora, ne soffri sempre, poveraccio! Perchè io ti leggo negli occhi, sai? E non so perdonarmi di non avere insistito. E qualche volta, scusami ancora, non so perdonare a te di non avermi secondato un po’ meglio, di non aver tenuto fermo sulla promessa che ti avevo fatta, con tanta sincerità di amico e di padre.
— A che mi sarebbe servito? — esclamò Virginio. — Ma non ci pensate, vi supplico. Vedete? Non ci penso più io. Era un sogno, il mio, un sogno come il vostro. Si fanno alle volte di questi sogni, quando si ha il romanticisimo nelle ossa. Ma l’uomo è fatto per la vita e per le sue severe necessità, non per la poesia dei romanzi: l’uomo pensa, vede ciò che va fatto, e compie il suo dovere senza tanti rimpianti. Io ho compiuto il mio, e sento, scusate il mio orgoglio, sento la compiacenza della vittoria.
— Così dicessi tu il vero, ragazzo mio! Sarei perfino più contento di trovarmi qui in letto, con due once meno di sangue. Ma pur troppo mi pare che in queste cose non ci sia da cantar vittoria così presto. Per quello che se ne intende ogni giorno, a leggere gazzette, a sentirne di tutti i colori, è da credere che ci sia nell'aria un’epidemia, un contagio, un’influenza, o che so io, per cui si pigliano al giorno d’oggi delle cotte più forti che non se ne pigliassero prima. Ai miei tempi ci sarà stata molta romanticheria; par bene anche a me di ricordare questo nome, quantunque a Mercurano non abbia mai attecchito la cosa. Si andava un po’ più sulle nuvole, ecco tutto; eppure, si cascava di meno alto, quando si cascava, e non ci si faceva mai tanto male come ora. Non si scrivono più tragedie oggi, ma se ne fanno di più. Ci han tutti la rivoltella in tasca, o il braciere preparato in casa. Che brutta fine, a tante poesie! Poesie del malanno, dico io. Vedi intanto la poesia di quella pazza, dov’è andata a finire; duecentomila lire sfumate, e la miseria in vista. Perchè oramai non so più come potrà rimediarla, quel furfante assassino! Ma non mi venga davanti, non mi venga! Nè lui, nè lei; non voglio vederli. Il mio denaro.... il frutto di tante fatiche, di tanti sudori!...
— Calma, vi prego! — diceva Virginio, spaventato da quella animazione progressiva, che minacciava di soverchiare, come due giorni innanzi. — Volete farvi ritornare il sangue alla testa? lasciarci la salute e la vita, per questo vile denaro? Sì, ho detto vile, e lo ripeto. Si suda a guadagnarlo, voi dite; ebbene, che importa ciò? Gli altri che non ci hanno sudato, lo buttano via. Forse son essi più filosofi di noi. Siano poi filosofi o sciocchi, la conseguenza è una, che si pentono sempre di averlo buttato. Ma almeno i savi che lo han guadagnato, non si guastino la salute a rimpiangerlo, quando gli altri lo hanno perduto. La salute val più del denaro. Chiedete ad un ricco in punto di morte se gli piacesse di più aver cento milioni da lasciare agli eredi, o cent’anni ancora di vita, a mille lire di stipendio all’anno; e vedrete che cosa vi risponderà. Riposate, intanto; lo voglio. E fate una volta a modo mio.
— Ah, tu sei un savio ragazzo; — mormorò il signor Demetrio, vinto da quel piglio d’autorità, ma più ancora dalla bontà del ragionamento di Virginio. — Se io avessi perseverato nella mia prima idea!
— E dalli! — gridò Virginio. — La volete finire? Ora m’inquieto davvero. —
Il signor Demetrio non disse più verbo. Frattanto appariva Marietta, la cuoca e donna di governo della casa, a rilevare Virginio dalla sua guardia. Il giovanotto diede il buon giorno al suo principale, e andò a buttarsi, vestito com’era, sul letto. Voleva dormire, non pensar più; troppo aveva pensato quella notte, e non gli sarebbe piaciuto ritornare sul fatto proposito, col pericolo di averlo a mutare, peggiorandolo.
Dormiva ancora, quando salirono a chiamarlo per la posta, che era allora allora arrivata. Balzò dal letto, e ancora con gli occhi assonniti prese a sfogliare un fascio di lettere, che gli avevano portato in camera. Tra tante lettere, gliene baluginò una di Roma, una di quelle che egli soleva riconoscer tosto nel mazzo. Ma quella, per la prima volta, non era diretta al signor Demetrio Bertòla; bensì a lui, a lui, Virginio Lorini. Gran novità, veramente; ed ugualmente grande quell’altra della busta senza stemma, mentre nella soprascritta appariva pur chiaro il caratterino di Fulvia. Perchè tanta semplicità, così di punto in bianco? Virginio pensò involontariamente ad un atto di umiltà pensata, e ne fu tutto intenerito. Avrebbe anche potuto paragonarlo alla umiltà delle gran dame, quando vanno in abiti più dimessi alla chiesa, per l’occasione del precetto pasquale, bene sentendo che per andare davanti al gran giudice, che è pure il grande consolatore, le vanità mondane debbono essere lasciate nell'abbigliatoio, con tutte le ciarpe vistose che servono a rappresentarle.
Virginio tremava dalla commozione, prendendo quella lettera ed osservando per tutti i versi la busta. Si era bene svegliato, allora. Ma non l’aperse; la ripose con le altre, e scese nel salottino per l'usato ufficio quotidiano, di leggere, di prender nota, di rispondere. Era forte, e forte si riconobbe in quel punto. Troppo più tenero lo stimava il signor Demetrio; ma il signor Demetrio, per una volta tanto, s’ingannava a partito. Non esageriamo, per altro: ad essere così forte gli giovò molto il pensare che aveva fatto un proponimento e non voleva mutarlo; che quella lettera non avrebbe mai potuto recare argomenti da raffermarlo maggiormente nel suo disegno, persuadendolo con più forti ragioni; che egli voleva leggerla senza frastornamenti molesti, quella cara lettera inaspettata, gustarla, assaporarla nella pace della sua cameretta; che finalmente (tanto è vero che un certo grado di puerilità si mescola sempre alla grandezza, nelle risoluzioni degli uomini forti) egli poteva, reggendo alla sua commozione, resistendo alla sua curiosità febbrile, dimostrare a sè stesso la serietà del proponimento che aveva fatto quella notte, stando al capezzale del vecchio.
Com’ebbe finito di sfogliare il carteggio, di registrare, di rispondere, tornò nella sua camera e finalmente aperse la lettera di Fulvia. Gli batteva il cuore aprendola; più forte gli battè, quando vide il piccolo foglio vergato su tutte le quattro facce, di quei fini e fitti caratteri ch’egli ben conosceva. Si fermò un tratto, allora, chiuse gli occhi, ed aspettò che gli si fosse chetato il batticuore; poi diede un gran respiro, e incominciò risoluto a leggere. Fulvia, la bambina bella! Fulvia, la bambina cara! Era lei che scriveva:
«Signor Virginio gentilissimo,
«Non faccia le maraviglie. Scrivo a Lei, perchè non oso scrivere al babbo, dopo la lettera che ho ricevuta stamane da lui, e che mi ha fatto tanta pena. Questa è tanto più viva e profonda, al pensare che i rimproveri del babbo son giusti, e al riconoscere che noi siamo qui senza scusa. Povero padre, che ha fatto tanto per me, come deve aver sofferto! Ma perchè poi non perdonare a sua figlia? Il conte Sferralancia gli avrà raccontato in che modo è avvenuta la catastrofe, e non solamente gravissima per casa nostra, ma ancora e più per moltissimi, dei più ricchi di Roma. Io non m’intendo bene di queste cose, e non saprei rifarne la narrazione; ma anche i giornali ne sono tutti pieni, e Lei ad ogni modo ne avrà cognizione. Si era tutti poggiati sul falso, a quanto pare; il credito ricusato ad una banca, creduta potentissima, ha fatto da un giorno all’altro andar tutti in rovina. I valori (non so se dico bene, e Lei mi scuserà) si sono risentiti di questo colpo, ed hanno preso un tracollo spaventoso. La colpa è nostra, certamente, di essere stati spensierati come tanti e tanti altri! Ma ne siamo anche ben puniti, non le pare? Ed ora, c’è da portare in pace la disgrazia, vedere almeno di mettere in salvo l’onore. Come si può, questo, se il babbo ci ricusa l’aiuto che il conte Sferralancia in nome nostro gli ha chiesto? Se egli non ci assiste, dove troveremo noi il modo di superare questo passo disgraziato? Io penso ai miei due innocenti figliuoli, signor Virginio, e gli occhi miei si riempion di lagrime.
«Io non le dico altro di ciò. Piuttosto ho da chiederle scusa di un fallo mio verso di Lei; e questo è un ufficio che adempio ben volentieri. Ho il torto di scriverle oggi per la prima volta. Com’è avvenuto che io non mi sia fatta mai viva con Lei? Se ci penso, mi pare che ella stessa mi abbia levato il coraggio, non assistendo alle mie nozze. So bene che poteva astenersene; e forse ha creduto, nella sua modestia, che il potere fosse sinonimo di dovere. Ma chiunque abbia colpa di ciò ch'è avvenuto, voglia esser buono Lei, che è sempre stato così buono. Da bambina io la facevo sempre disperare, e Lei mi voleva sempre più bene. Se ne rammenta? Io sì; e perciò, sicura del passato, non dubito del presente; immagino anzi che arrivato a questo punto, ella trovi aver io già fatto più parole che non ne occorrano con un cavaliere suo pari.
«A Lei, ora, a Lei che tiene così meritamente ambo le chiavi del cuore di mio padre, e lo rivolge, per citarle il nostro Poeta,
Serrando e disserrando sì soavi
a Lei mi rivolgo fiduciosa, perchè voglia persuadere il babbo a soccorrermi. Sarà l'ultima noia, spero. Si resterà male, salvato l’onore del nome; ma sarà un male da poter sopportare. Io ho pensato lungamente, ho consigliato ed ho vinto. Si rinunzia al soggiorno di Roma; si vende tutto e si ritorna nell’ombra, donde certo sarebbe stato meglio non uscir mai. Ma al fatto non c’è più rimedio: bene, piuttosto, meriteremmo il peggio, se non ci affrettassimo a cangiar modo e costume.
«Del resto poco sacrifizio sarà il nostro. Qui, dopo essere stati sul carro trionfale, non è lecito di rimanere a batter la polvere nella folla della gente a piedi. Non mi giudichi male, la prego, da questa cruda sincerità di parola. Non son leggera, e saprei sopportare una condizione umilissima anche per giusto castigo delle passate vanità; ma penso che pur troppo la umiltà del vivere non ci aiuterebbe per nulla a sormontare i nostri mali presenti, e forse non farebbe che aggravarli. Meglio vender tutto, i mobili del nostro quartierino, come i cavalli e la carrozza, licenziare la servitù, e ritirarci a San Cesario. Gran fortuna, nella nostra disgrazia, che sia appigionato il palazzo di Modena. A qual pro un grande appartamento, senza gente di servizio? A San Cesario ci saranno i contadini per darci una mano; ed io basterò a tutto, non avendo da vergognarmi di nulla. Come ricorderò bene gli studi incominciati con Lei, per esser io l’unica maestra dei miei poveri e cari bambini!
«Finisco, essendo alla fine del foglio. Mi rimane il posto di dirle un grazie, e per offrirle, se non la ricusa, una mano amica, che è felice di ritornare a quella firma che un tempo soleva farle con tanto piacere, da quel benedetto collegio di Lodi
«la sua obbedientissima
«Fulvia.»
Quel foglio, letto e riletto da capo a fondo più volte, ebbe virtù di tenere Virginio in estasi per un’ora. E più sarebbe stato egli a rileggere, a meditare, a commuoversi, se una voce interiore non lo avesse avvertito che quello non era tempo di stare in contemplazione. Guardò l'orologio; aveva due ore davanti a sè, per rispondere, far attaccare, correre alla stazione, e prendere il treno delle dodici e mezzo.
Il medico era venuto, aveva visitato il signor Bertòla e lo dava risanato oramai, solo che stesse un po’ riguardato e non volesse farsi andare un’altra volta il sangue alla testa. Virginio aveva scritto frattanto una lettera breve breve, segnandola col bollo della casa, e se la riponeva in tasca, per fidarla egli stesso alla buca dell’ambulante, nel treno che doveva portar lui fino a Parma. Non andò per altro a congedarsi col vecchio.
— Se il signor Demetrio domanda di me, — diss’egli a Marietta, — ditegli che sono andato fino a Bercignasco, per affari miei; ritornerò questa sera. —
E partì. Un’ora dopo, era a Parma e a quella sede della Banca Nazionale. Teneva colà in deposito la sua rendita e tutto ciò che gli aveva lasciato di contanti il suo amatissimo zio. Ah, come si sentiva felice di esser ricco, e come ne era riconoscente a quel caro avaraccio! Poteva esser utile, a tempo opportuno, utile a quella donna adorata, che con tanta fede si era rivolta a lui, che con tanta delicatezza aveva per lui ritrovata la sua firma di ragazza, di educanda, non opprimendolo col ricordo del suo nuovo ed illustre casato.
Quel casato, per altro, doveva scriverlo lui: lo aveva già scritto sulla busta della lettera impostata alla stazione; lo scriveva ancora sul ricapito del telegramana che le mandava da Parma, annunziandone un altro, della Banca Nazionale con l'assegno di sessantamila lire, pagabili a vista, presso la sede di Roma. La contessa Spilamberti di San Cesario non aveva che a presentarsi colà, appena ricevuto il telegramma di Virginio Lorini; le sessantamila lire erano là ad aspettarla. Era un parlar chiaro, e forse poteva parere inutile l’aggiunta: «segue lettera esplicativa».
Quella lettera, scritta da Mercurano, spiegava la cosa per l’appunto così:
«Signora Contessa,
«Ho a mala pena ricevuta la lettera di Vossignoria, gentilissima, e subito le rispondo che corro a Parma, per farle spiccare oggi stesso da quella Banca Nazionale un assegno telegrafico per sessantamila lire. Spero che basteranno al bisogno ch’Ella mi accenna, ed anche agli altri che immagino. Dolenti, com’ella può immaginarsi, di ciò che avvenne, mandiamo saluti, non parole di conforto. Perdoni se nella urgenza del provvedere, non mi fermo a scriver di più. Il suo signor padre, incomodato dall’altro ieri, non scrive. Speriamo non sia cosa grave. Ella mi onori dei suoi comandi e mi creda sempre il suo devotissimo servitore
«Virginio Lorini.»
Era breve, la lettera, e diceva assai poco; ma non bastava, forse? non ce n’era d’avanzo? specie, dovendo essa giungere a Roma molte ore dopo il telegramma consolatore?
Contento di sè, come non era stato mai, Virginio Lorini se ne ritornò a Mercurano. Il vecchio si era alzato, ma ancora non usciva di camera.
— Sei stato a Bercignasco? — gli disse. — A che fare?
— Oh, niente di grave; — rispose. — Volevo farmi pagare l'annata del caciaio, che mi pareva poco voglioso di fare il suo dovere. Ho anche dato un’occhiata ai conti del fattore. L’occhio del cavallo, come dite voi, governa il padrone. —
Rideva, quel giorno, il signor Virginio, e fece ridere anche il signor Demetrio, che riconobbe la sua celia; una celia, per verità, non nuova di zecca. Ma perchè rideva, il signor Virginio? perchè si mostrava d’ora in ora così ilare in volto? Pensava che il suo telegramma era giunto a destinazione; pensava che la contessa Fulvia era andata alla Banca, lei, lei in persona, a ritirare le sessantamila lire; sessantamila, mentre era già molto che ne sperasse cinquanta.
— Tutto aggiustato, — soggiungeva egli tra sè; — il signor conte Spilamberti, ricevendo quel denaro dalle mani di sua moglie, non crederà che la donna da lui sposata valga oggi il povero nulla immaginato da lui, gran disperato nel cospetto di Dio. Valgono ancora qualche cosa, le borghesucce di Mercurano, signor conte degnissimo! valgono assai più delle vostre pergamene aggrinzite. Volete ceder quelle? Siamo gente da comperarvele, per rinvoltarci la soprassata e il prosciutto, in quel povero Bottegone che non vi degnavate più di onorare della vostra nobilissima presenza. Ah, ah, signor conte Spilamberti di San Cesario! vogliamo rider noi, oggi, della cera che fate, aggiustando le vostre malefatte e coprendo la vostra vergogna coi nostri poveri quattrini borghesi. —
Quella sera il galoppino della stazione portò un telegramma da Roma; un telegramma che Virginio lesse e rilesse, ma che non fece vedere al signor Demetrio. Non era per il signor Bertòla, del resto.
«Ricevuto e ritirato ogni cosa in ordine» diceva quel telegramma. «Ringrazio vivamente. Prego non fare alcun caso del tono della seconda mia lettera. Fulvia.»
— Della seconda sua lettera! — esclamò Virginio. — Ne ha scritta un’altra! — Come va che non l'ho ricevuta? Forse l’ha mandata alla posta fuor d’ora; la riceverò domattina. Comunque, poichè ella parla d’un tono spiacevole.... chi sa? forse troppo triste, che ha preso nello scrivere questa seconda lettera, debbo applaudirmi io di aver risposto telegraficamente alla prima.
Quella seconda lettera capitò per l’appunto la mattina seguente. Come aveva argomentato Virginio, era stata impostata fuor d’ora, non più in tempo per partire col treno del pomeriggio.
«Signore ed amico» scriveva la contessa, incominciando; e Virginio si fermò a considerare quel nome di amico che veniva a lui come un saluto, come una carezza, ed era scritto da lei, prima di aver da Virginio in ricambio le prove di tanta amicizia. Non pareva quello un premio anticipato al grande servizio ch’ella aspettava da lui, e certamente essendo lontana dallo immaginarselo così grande, così generoso?
Ma era triste, assai triste, la lettera di Fulvia: e dopo averla letta, quel titolo di amico dato a lui in principio, lo faceva fremere, gli agghiacciava il sangue nelle vene, parendogli quasi una voce dell’anima, nel momento solenne di dare un addio alla vita.
«Le ho scritto poche ore fa» diceva la lettera, «ignorando ancor molto. Ora ho vuotato il calice di tutte le amarezze. Non si era osato dirmi tutto: oggi soltanto è venuto il principe Andolfi, un amico di casa, un parente (quali amicizie, mio Dio, e quali parentele!) a spiegarmi con la massima sincerità, ma di due anni troppo tarda, fin dove potesse giungere la miseria mia e la nostra vergogna. Da Mercurano aspettano sempre salute, sospesi ad un debolissimo filo; io frattanto non posso più nutrire alcuna speranza di vivere come avevo sognato, come sognavo ancora stamane. Poco male, per me; tanto la vita mi pesa! Ma che sarà di due povere creature, innocenti delle colpe dei padri?
«Ella intende, amico buono, che notizie mi sieno state date poc’anzi, e qual velo d’inganni mi sia stato squarciato. Sui beni di Modena e di Nonàntola, come sulla rôcca di San Cesario, erano già assicurati dei crediti ingenti: il mio, solo il mio, venendo l’ultimo, era assicurato sull’aria. È questa la dolorosa verità che prima di me ha conosciuta mio padre? Intendo la sua collera, e non so più lagnarmi della sua dura sentenza. Non abbandoni egli almeno i miei bambini; son sangue suo, finalmente. Ah, quante vergogne! e che rimorsi nell’anima mia. Se sapesse....»
E non finiva più il periodo, e non metteva neanche i puntini, per indicare una voluta sospensione di pensiero. Le ultime righe, del resto, erano state vergate in un momento d’angoscia suprema, che bene s’indovinava, vedendo i caratteri mezzo cancellati e la carta tutta guasta da segni di lagrime. Fulvia non aveva più potuto o saputo finire: volendo pur dare a Virginio l’annunzio della sua tarda scoperta e del suo acerbo dolore, aveva gettato il foglio così come era nella busta e mandato alla posta lo scritto incompiuto.
Povera donna, da quale altezza cadeva! Lo aveva saputo finalmente, come le avessero assicurata la dote. Lo intendeva allora, con che animo quel nobile disperato si era invaghito di lei! La nausea, certamente, le era venuta, insieme coll’orrore del tristissimo stato in cui l’avevano precipitata; e tra i due sentimenti quello della nausea era il più forte. Virginio non ebbe mestieri di meditar lungamente su quel mozzicone di lettera: il suo pensiero fu pronto a indovinare tutto ciò che Fulvia tralasciava di scrivere, e s’immedesimò di tutti i dolori, di tutte le angosce di lei. Ma era troppo, era troppo; la sua fibra delicata, non sostenendo quella piena d’affetti, si sciolse in un fiume di lagrime. Non pensava più a dissimulare, non badava più a nascondersi: aveva perfino lasciato aperto l’uscio della sua camera, dove si era ridotto per leggere il biglietto di Fulvia. E quando Marietta venne sulla soglia per avvisarlo che il desinare era all’ordine, la buona donna lo trovò là, mezzo inginocchiato, mezzo bocconi contro il suo letto; ne udì i singhiozzi, vide un foglio aperto sul tappeto, e si ritirò sbigottita, per andare ad avvertire di quella novità il signor Demetrio, che era già ad aspettare il suo segretario nella sala da pranzo.
Il convalescente lasciò la poltrona, e più svelto che non si fosse mai dimostrato nei suoi anni migliori, si affrettò verso la camera di Virginio. Vide egli pure il foglio caduto sul pavimento, lo raccattò, bene intendendo che quel foglio gli avrebbe detto assai, e meglio di quanto potesse fare quel gran ragazzo singhiozzante sul letto. Riconosciuti i caratteri di Fulvia, non ebbe neanche scrupolo di metter gli occhi sopra una pagina che non era stata scritta per lui; e già finiva di leggerla, mentre Virginio, levatosi di soprassalto al rumore dei passi, tentava invano di ricomporsi, frenando male i singhiozzi, ed asciugando in fretta le lagrime.
— Che cos’è questa roba? — disse il signor Demetrio, mostrando il foglio al suo segretario.
— La seconda lettera di vostra figlia; — rispose Virginio, che oramai non aveva più nulla da nascondergli.
— Ce n’è stata dunque una prima?
— Sì, eccola. —
Così dicendo, Virginio traeva una busta dal petto della giacca, e la porgeva al suo principale.
Il signor Demetrio afferrò quella busta, l’aperse e andò nel vano della finestra a leggere il foglio. La lettura fu lunga, e spesso interrotta dalle solite interiezioni, dai soliti moti di stizza; ma si vedeva chiaro dal volto di lui che la tenerezza incominciava a soverchiare lo sdegno.
— Vedo bene, — diss’egli com’ebbe finito, restituendo la lettera a Virginio, — vedo bene che il mio signor genero ha risoluto di farmi morire d’un accidente a secco. Ma io non gli darò questa consolazione, vivaddio, non gliela darò. Per quella sciocca, solo per lei, e per farla finita una volta con questi piagnistei, si mandi a Roma quel che bisogna, e non se ne parli più.
— Ho già mandato; — rispose Virginio.
— Che? come? quando? — scoppiettò il signor Demetrio, guardando il suo segretario con aria di vivo stupore.
— Ieri, da Parma; — replicò Virginio. — Non ero stato a Bercignasco, ma a Parma.
— Volevo ben dire; — esclamò quell’altro. — Da te non se ne può più sapere una giusta. Ma allora la lettera non finita....
— È una lettera di più, scritta poche ore dopo la prima, e dopo aver saputo.... quello che la vostra povera figliuola non sapeva ancora.
— Assassino! — brontolò il signor Demetrio. — Tra lui e quei del castello ci han conciati per il dì delle feste. Ma intanto quella disgraziata, la vedi, ha perso il lume degli occhi; se Dio guardi, non arrivano in tempo i denari....
— Non c’è pericolo; — rispose Virginio. — Eccovi il suo telegramma, che ho ricevuto iersera. In esso la signora Fulvia accenna di aver ricevuto tutto, e prega di non far caso della seconda lettera.
— È vero.... e me ne consolo.... — disse burbero il signor Demetrio, respirando, e non volendo riconoscere di aver avuto paura. — Ma come ha fatto a ricevere così presto?
— Per telegrafo; — replicò Virginio. — Capirete, non mi pareva che ci fosse da perder tempo. L’assegno della Banca Nazionale, spiccato da me, era telegrafico, al ricapito della contessa. Le sessantamila lire non poteva ritirarle che lei, ed io, per l’appunto, a lei....
— Sessantamila! — interruppe il signor Demetrio, strabuzzando gli occhi. — Sessantamila, hai detto? Che sessantamila? Questa è nuova di zecca. Non erano cinquantamila, quelle che bisognavano.... a lui?
— A lui, non so; — ribattè Virginio. — So che bisognavano a lei, poichè lei le chiedeva.
— Ed erano sempre cinquanta; — rincalzò il signor Demetrio, ingrossando la voce; — cinquanta e non sessanta, scellerato! Così governi il denaro?
— Sì, cinquanta, sessanta, settanta, cento, tutto quello che occorre; — disse Virginio, seccato da parte sua di vedersi fare i conti addosso a quel modo. — Non mi fate dire, signor Demetrio. Ne chiedeva cinquanta, ne ho mandate sessanta; sarà un errore, ma è mio, fatto sul mio, dalla prima lira fino all’ultima. Del mio e sul mio ho il diritto di fare quel che mi pare, e di non veder andare in collera nessuno. —
Il signor Demetrio rimase lì per lì sconcertato da quell’impeto di parole. Aveva trovato il suo uomo, e quando meno se lo aspettava. Era anche giusto che lo trovasse. Infine, si avrà egli sempre a sopraffare la gente, sia pure con le migliori intenzioni del mondo? E non è conveniente che si riceva qualche lezione salutare, a punti di luna? Quella, nondimeno, era stata un po’ forte; e il signor Demetrio, pur riconoscendo di averla meritata, non la poteva altrimenti inghiottire.
— Per la prima volta, — osservò egli, dopo un istante di pausa, — tu sei duro con me. —
Ma neanche Virginio poteva star saldo nell’ira; già era pentito d'aver dato nei lumi.
— Scusate; — mormorò egli, confuso. — Non so quel che mi dica; non so quel che mi faccia.
— Ah, tu soffri; vedi? tu soffri; — gridò il signor Demetrio, felice di riavere il sopravvento. — E non canti vittoria, come pretendevi già, nel tuo sciocco orgoglio; non canti vittoria!
— No, ma l’otterrò ad ogni modo, giuro a Dio, l’otterrò; — rispose Virginio. — A che mi servirebbe, dopo tutto, il non vincere? Sì, l’ho amata come un pazzo. Ed ella non ha voluto, lo ha detto a voi; non lo negate ora, dopo di avermelo lasciato capire due volte. Meglio così, del resto, meglio così; ed ella ha fatto benissimo. Quanto a me, ci avrò forse più merito a fare quello che faccio. Son ricco ancor io, signor Demetrio; non darò solo le sessantamila, ma le cento, le duecento, quanto possiedo, fino all’ultimo centesimo. Ne avrò io forse mai bisogno per me, delle ricchezze che mi son venute così tardi, quando avevo preso il verso a vivere nel mio lavoro onorato? Voi conservatemi il mio posto nel Bottegone, dove son cresciuto, dove mi sono educato, dove ho ancora una ragione di vivere; il resto non vale, ve lo dico io, non vale, non vale. Ora poi, andrò a Roma; avrò questo coraggio: avvicinerò quell’uomo, gli parlerò, tratterò con lui come con uno che vedessi per la prima volta; non vedrò in lui che il vostro genero, l’uomo scelto dalla vostra figliuola e sacro in ogni occasione per me; osserverò io lo stato delle cose, provvederò io, fin dove sarà possibile, aggiusterò io, come potreste far voi, amandolo ancora e volendo giovargli.
- Sì, bravo, e gittando mezzo il territorio di Bercignasco nel pozzo di San Patrizio. Son belle intenzioni, le tue; ma non riuscirebbero a nulla. Hai fatto già troppo, mio caro, ed io non permetterò mai che resti a carico tuo. La ricchezza non vale, tu dici? tu, che hai davanti a te molti anni? Lascia che non valga niente per me, che ho solamente a pensare ai miei due metri di spazio, accanto a quella buon’anima di Giuditta Bertòla. Aspetta, a buttarlo dalla finestra, il tuo danaro; aspetta un altro poco! E abbracciami, intanto, abbracciami sodo; perchè, come è vero Dio, tu sei un caro ragazzo, che a cercarlo per tutto il mondo, quanto è largo, non si troverebbe il compagno. —
Era tempo di mettersi a tavola per desinare. Lo stufatino, che era il debole del signor Demetrio, e il forte della sua cuoca, si poteva dire, anzi che al dente, ormai cotto e stracotto. Marietta non se ne voleva dar pace. Ma in fondo, povera donna, non era colpa sua, se da qualche giorno in quella casa andava ogni cosa a traverso.
— Andate là! andate là! si lascia mangiare; — diceva il signor Demetrio, per consolare quell’amor proprio mortificato. — E del resto, pensate che non ho riacquistato tutto il mio appetito. Un po’ più cotto, il vostro stufato sarà anche più tenero per un convalescente come me. Sia dunque tutto per il meglio, e ringraziamo il Signore. —
All’ottimismo del signor Demetrio era ancora serbata una prova. Mentre erano a tavola, giungeva dalla stazione un altro telegramma per Virginio Lorini. Scriveva la contessa:
«Grande ansietà per sua notizia; mi metto in viaggio, arriverò domattina. Fulvia.»
— Che cos’è quest’altra novità? — gridò il signor Demetrio, poi ch’ebbe letto a sua volta.
— Le avevo scritto che eravate ammalato; — disse Virginio; — soggiungendo per altro che non si trattava di cosa grave. Ma ella si sarà turbata, e non avrà voluto vedere nella mia attenuante che una pietosa bugia.
— Ah, questa, poi, non me l’aspettavo; — borbottò il signor Demetrio, mezzo intenerito e mezzo stizzito. — Così doveva ritornare a Mercurano, la signora contessa?... Purchè non le venga in testa di portarmi il suo conte.... Giuro a Dio!...
— Calma, signor Demetrio! — disse Virginio. — Non vi guastate il sangue prima del tempo. Tutto considerato, — soggiunse poi, — scommetto la testa che quell’altro non c’è. —