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no: vogliamo dire la infermità del signor Demetrio, convenientemente aggravata per la circostanza, che giustificava benissimo l'accorrere, non di una figlia soltanto, ma di una dozzina di figlie.
Potevano contentarsi di quella risposta le signorine Cometti, gran bargellone nel cospetto di Dio, che tre volte nello spazio di un giorno erano già capitate al Bottegone, una col pretesto di negoziare quattro braccia di cambrì, un’altra col pretesto di comperare due rocchetti di refe, un’altra ancora colla scusa di aver dimenticato il meglio, che era un assortimento di lane da ricamo? Speravano sempre di cogliere la contessa al varco; ma invano. La contessa Spilamberti non aveva più gli usi della signorina Fulvia, che a certe ore calava alle pannine, o nella cartoleria del Bottegone. Ed esse non potevano salire da lei, per riverirla: colpa loro, che l’avevano sempre tenuta a distanza, quando non era altro che la figlia di Demetrio e di Giuditta Bertòla.
La signorina Arpalice, bargella maggiore, fu tanto addolorata di non venire a capo di nulla, nè di veder la reduce contessa, per leggerle bene entro gli occhi, nè di ottenere dal signor Lorini più di quello che ne ottenevano tutti gli altri curiosi, che ci perdette perfino la misura della cattiveria lecita ed onesta, cioè consentita dall’uso e non riprovata dal galateo moderno. Ne sia prova questa domanda in punta di labbra (la vecchia immagine del fior di labbra non sarebbe applicabile infatti al caso di Arpalice Cometti) ch’ella rivolse al signor Virginio Lorini.
— È vero che il conte Spilamberti ha perduto tanti denari a Roma?
— Denari! — esclamò Virginio, sorridendo sempre di quel suo eterno sorriso che le circostanze gli avevano insegnato, anzi impresso e scolpito sulle labbra. — Denari e santità, metà della metà. C’è molta esagerazione, in ciò che si narra. Del resto, tutti hanno perduto, nella catastrofe edilizia di Roma; intendo coloro che ne avevano