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tanto non posso più nutrire alcuna speranza di vivere come avevo sognato, come sognavo ancora stamane. Poco male, per me; tanto la vita mi pesa! Ma che sarà di due povere creature, innocenti delle colpe dei padri?

«Ella intende, amico buono, che notizie mi sieno state date poc’anzi, e qual velo d’inganni mi sia stato squarciato. Sui beni di Modena e di Nonàntola, come sulla rôcca di San Cesario, erano già assicurati dei crediti ingenti: il mio, solo il mio, venendo l’ultimo, era assicurato sull’aria. È questa la dolorosa verità che prima di me ha conosciuta mio padre? Intendo la sua collera, e non so più lagnarmi della sua dura sentenza. Non abbandoni egli almeno i miei bambini; son sangue suo, finalmente. Ah, quante vergogne! e che rimorsi nell’anima mia. Se sapesse....»

E non finiva più il periodo, e non metteva neanche i puntini, per indicare una voluta sospensione di pensiero. Le ultime righe, del resto, erano state vergate in un momento d’angoscia suprema, che bene s’indovinava, vedendo i caratteri mezzo cancellati e la carta tutta guasta da segni di lagrime. Fulvia non aveva più potuto o saputo finire: volendo pur dare a Virginio l’annunzio della sua tarda scoperta e del suo acerbo dolore, aveva gettato il foglio così come era nella busta e mandato alla posta lo scritto incompiuto.

Povera donna, da quale altezza cadeva! Lo aveva saputo finalmente, come le avessero assicurata la dote. Lo intendeva allora, con che animo quel nobile disperato si era invaghito di lei! La nausea, certamente, le era venuta, insieme coll’orrore del tristissimo stato in cui l’avevano precipitata; e tra i due sentimenti quello della nausea era il più forte. Virginio non ebbe mestieri di meditar lungamente su quel mozzicone di lettera: il suo pensiero fu pronto a indovinare tutto ciò che Fulvia tralasciava di scrivere, e s’immedesimò di tutti i dolori, di tutte le angosce di lei. Ma era troppo, era troppo; la sua fibra delicata, non sostenendo quella piena d’affetti, si