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Contento di sè, come non era stato mai, Virginio Lorini se ne ritornò a Mercurano. Il vecchio si era alzato, ma ancora non usciva di camera.

— Sei stato a Bercignasco? — gli disse. — A che fare?

— Oh, niente di grave; — rispose. — Volevo farmi pagare l'annata del caciaio, che mi pareva poco voglioso di fare il suo dovere. Ho anche dato un’occhiata ai conti del fattore. L’occhio del cavallo, come dite voi, governa il padrone. —

Rideva, quel giorno, il signor Virginio, è fece ridere anche il signor Demetrio, che riconobbe la sua celia; una celia, per verità, non nuova di zocca. Ma perchè rideva, il signor Virginio? perchè si mostrava d’ora in ora così ilare in volto? Pensava che il suo telegramma era giunto a destinazione; pensava che la contessa Fulvia era andata alla Banca, lei, lei in persona, a ritirare le sessantamila lire; sessantamila, mentre era già molto che ne sperasse cinquanta.

— Tutto aggiustato, — soggiungeva egli tra sè; — il signor conte Spilamberti, ricevendo quel denaro dalle mani di sua moglie, non crederà che la donna da lui sposata valga oggi il povero nulla immaginato da lui, gran disperato nel cospetto di Dio. Valgono ancora qualche cosa, le borghesucce di Mercurano, signor conte degnissimo! valgono assai più delle vostre pergamene aggrinzite. Volete ceder quelle? Siamo gente da comperarvele, per rinvoltarci la soprassata e il prosciutto, in quel povero Bottegone che non vi degnavate più di onorare della vostra nobilissima presenza. Ah, ah, signor conte Spilamberti di San Cesario! vogliamo rider noi, oggi, della cera che fate, aggiustando le vostre malefatte e coprendo la vostra vergogna coi nostri poveri quattrini borghesi. —

Quella sera il galoppino della stazione portò un telegramma da Roma; un telegramma che Virginio lesse e rilesse, ma che non fece vedere al signor Demetrio. Non era per il signor Bertòla, del resto.