La figlia del re (Barrili)/XII
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XII.
I tributi augurali alle acque di Roma avevano poca efficacia, o forse era da credere che dovessero operare a lungo termine. Per tutto quell’anno, a buon conto, il signor Demetrio non si mosse più dal suo Mercurano. Un assiduo carteggio lo teneva per altro in relazioni costanti con Roma. La sua Fulvia gli scriveva spessissimo, e le lettere di quella cara figliuola, oltre all’essere più ricche di notizie, erano più affettuose che mai. Era madre, la contessa Fulvia, e la maternità rende le donne espansive, tenere, immaginose, eloquenti. S’intende che tutte le notizie della contessa si aggiravano intorno ad un tema; non risguardavano che il suo Lamberto, un amore di bambino, che cresceva ogni giorno in bellezza, e mostrava poi un giudizio, un giudizio di gran lunga superiore all’età. — Sì, sì, — diceva il signor Demetrio, interrompendo la lettura, per far le sue chiose, — un giudizio da dar dei punti al suo babbo. —
Ma sì, fuori di celia, quel piccolo Lamberto sarebbe diventato un portento. A sei mesi d’età bisognava sentirlo: diceva già «ba ba, ma ma»; a otto spiccava già «bombo» e «nene», appropriando quelle due voci alle cose, secondo che volesse il bicchiere dello sciroppo rosato, o la poppa. Logico precoce, quando era sazio del «nene», batteva con le sue manine il seno della balia, ridendo della propria valentia; quando lo portavano in camera da letto per metterlo nella cuna, strepitava come un ossesso, sparava calci come un puledro imbizzarrito. In istrada segnava a dito i cani, gridando «tette, fa bu bu» e non aveva pace finchè non gli dessero retta in due, la mamma e la balia, dicendo «fa bu bu», come lui. Se poi vedeva qualche prete, apriti cielo! Saltava, agitava le braccia e gridava: «Pete, fa don don», intendendo che quello era un uomo da chiesa, di quelli che facevano suonar le campane. Miracoli, insomma; quel caro tombolino era la consolazione di mamma sua.
Ma perchè mamma sua non se ne contentava? Perchè stava per dargli compagnia? Ahimè, non era lei; era il destino, era la provvidenza. Questi due arcani poteri entrano da per tutto, si sa, e sono essi che mandano i fratellini e le sorelline ai piccoli Lamberti, per toglier loro una metà delle dolci carezze materne.
- Di bene in meglio, e sempre avanti Savoia! — aveva gridato il signor Demetrio, leggendo la lettera in cui la contessa Fulvia gli dava notizia del nuovo suo stato fisiologico. — Il mio signor genero non entra nel consiglio d’amministrazione della «Nuova Esperia»; ma lavora alacremente a moltiplicare le speranze della patria. Ed anche le bocche, pur troppo! —
Ma era contento, nel fondo. La notizia della figliuola indicava che laggiù a Roma, tra quei due felici del Macao, durava la buona armonia dei primi tempi. Quell’accenno dei chiacchieroni di piazza alla bionda puppattola, sgretolatrice di principi, di duchi e di conti, era stato un falso allarme; sicuramente in quel ripesco non c’entrava punto il suo amatissimo genero.
Gli amici dei tarocchi non chiedevano più quando la contessa Fulvia sarebbe tornata a Mercurano. Immaginavano anch’essi che le cure della maternità trattenessero la bella signora. Nondimeno, tra per cortesia e per curiosità, domandavano spesso notizie,
— E così, niente di Roma, quest’oggi? La contessa Fulvia?...
— La contessa Fulvia, — rispondeva il signor Demetrio, — sta meditando un gran colpo.
— Un gran colpo! Che cosa intendete di dire?
— Ma sì, un gran colpo, che non farà poi troppo chiasso nel mondo. In attesa di ciò, sappiate che sta zitta e gonfia. Non vi pare che sia una maniera di meditare? Per giungere al fine ci vorrà il suo tempo, naturalmente, come in tutte le cose del nostro pianeta. Frattanto, da quello che io posso argomentarne, siamo già a mezza strada.
— I nostri rallegramenti. E voi dunque, signor Demetrio, farete presto un altro viaggio a Roma?
— Che! che! non mi muovo, stavolta; ho fatte le barbe a Mercurano, e non mi strappano di qui nemmeno con gli argani.
— Pure ci andrete. Stavolta sarà un Demetrio; — gli dicevano.
— Che Demetrio! che Demetrio! — ribatteva egli, seccato.
— Ma sì, il secondogenito porta il nome del nonno materno, come il primogenito porta quello del nonno paterno.
— Provincialate, miei cari; provincialate ed anticaglie. Ora non si usa più, nel bel mondo. Si scelgono dei nomi che suonino bene, dei nomi graziosi, dei nomi alla moda. Demetrio è troppo vecchio; Dio sa donde ci viene!
— È greco, non lo sapete?
— Ebbene, lo avete detto voi, è greco; e a Roma vogliono esser nomi romani. Lasciate stare Demetrio; il secondogenito degli Spilamberti, se dovrà essere un maschio, si chiamerà come vorrà. Intanto, siate certi che a Roma io non andrò pel battesimo; ci ho scritto basta, sulle porte dell’eterna città, e il mio resto d’anni lo voglio vivere in pace. —
Era sincero, il signor Demetrio, giurando di non voler più ritornare a Roma? Sopra tutto, era sincero, dicendo che se il secondogenito era un maschio, non si sarebbe chiamato col suo nome? Forse il brav’uomo metteva le mani avanti, come chi teme di cascare; le precauzioni non sono mai troppe. Difatti, vedete qua: si era a mezza strada, come diceva lui; quando si fu alle porte coi sassi, venne una lettera di Fulvia, che con accorti giri e rigiri di frase, in aria di consigliarsi col babbo, indicava come padrino probabile il conte Sferralancia.
Gli Sferralancia avevano cooperato alla felicità di Fulvia, e meritavano certamente un riguardo. Il signor Momino, in una recente sua lettera, si era quasi offerto per quell’ufficio, sempre costoso, sempre noioso. Che cosa ne pensava il babbo, ch’era uomo di buon consiglio? Quanto a lei, non sapeva risolversi; e il suo Tili neanche. Certo, se il nuovo rampollo era un maschio, ella non contava di chiamarlo Momino. Al nome, del resto, si poteva provvedere con un ritorno alle vecchie usanze di famiglia. C'era nella casata Spilamberti il costume di alternare i nomi di Lamberto e di Guido; altra prova indiretta delle origini imperiali, poichè Guido di Spoleto era stato il padre di Lamberto. Nella generazione presente il nome di Guido non appariva, ma solamente per un caso disgraziato. Si chiamava Guido per l’appunto il fratello maggiore di Tili; ma quel Guido era morto in assai giovane età, pochi anni dopo la nascita di Attilio. Non era il caso di ristabilire la tradizione, chiamando Guido il suo secondogenito? Vedesse lui, del resto, giudicasse lui; alla decisione del babbo venerato si sarebbero attenuti Fuli e Tili, come al responso di un oracolo.
L’oracolo diede il responso in una brevissima epistola, degna d’essere tramandata alla posterità come saggio di quello stile conciso, tra il commerciale e il familiare, che contraddistingueva l’arte letteraria del personaggio.
«Amatisima figlia,
«Rispondendo a grata tua del 12 andante, godo delle buone notizie che mi dài della tua preziosa salute, e faccio voti per il felice esito a tempo opportuna della tua nuova aspettata produzione. Approvo poi pienamente quanto mi scrivi circa il nome ed altresì circa la scelta del padrino. Il nostro signor Momino merita senza dubbio ogni riguardo, essendosi tanto adoperato per la tua felicità. Perdonami se non mi dilungo, avendo quest’oggi molto da fare. Gradirò sempre tue care notizie. Altro non mi resta che abbracciarti col tuo caro consorte; e credimi il tuo affezionatissimo padre
Demetrio Bertòla.»
Per dar ragione a tutti i pronostici, a tutti gli accordi anticipati, nacque un maschio, e fu un Guido. Il conte Momino, andato a Roma con donna Fulvia, dispose accanto a quel nome di Guido il suo di Girolamo. La madre, s’intende, ci volle aggiungere ancora quello di Demetrio; e la cosa fu debitamente annunziata al signor Bertòla, che aveva tenuto duro, non volendo fare un’altra volta il viaggio di Roma. Pure, lo avevano pregato e ripregato.
— Oh, mi facciano la grazia! — aveva risposto egli, con una spallata, come se quei di laggiù dovessero vederla ed esserne mortificati.
Il signor Demetrio aveva dato ragione, «pro bono pacis», ai suoi amatissimi figli; ma quel Guido, in verità, non lo poteva mandar giù. Che forse Demetrio non era un bel nome? Tanto bello, che molti re di Siria lo avevano portato, ed anche modernamente parecchi czar della Russia, autentici ed apocrifi. Sicuro, anche apocrifi, perchè c’erano stati, dopo la morte d’Ivano il Terribile, quattro falsi Demetrii, niente di meno; cose queste che quell’altro Demetrio, di Mercurano ed autentico, aveva facilmente imparate senza bisogno di libri, tenendo a chiacchiera il suo segretario. Quello lì sapeva tutto, benedetto ragazzo!
Otto o dieci giorni dopo quel secondo battesimo di casa Spilamberti, erano ritornati gli Sferralancia da Roma. Si fermavano a Bologna, essendo già la stagione inoltrata: ma proseguiva per alla volta di Mercurano il signor Momino gentilissimo, volendo portare all'amico Bertòla notizie dirette della cara puerpera. La contessa Spilamberti gliel'aveva fatto promettere; e il signor Momino volentieri si era arreso al primo desiderio della sua bella comare.
Egli dunque portava notizie; ed anche dell’altro, come a dire istanze e supplicazioni, precedute da una confessione non lieta. Il discorso era delicatissimo, e aveva richiesto l’artifizio di un giro largo, assai largo, più largo che non fossero i periodi del cappuccino di casa d’Este, intorno alle cui prediche manoscritte il signor Momino spendeva i suoi ultimi sudori eruditi. La conversazione segreta tra lui e il signor Demetrio era stata assai lunga, framamezzata da scoppi di collera, il cui suono violento giungeva dall’uscio chiuso del salotto fino al basso della scala, dove Virginio stimò prudente richiudere i due usci del pianterreno che davano adito alle stanze del Bottegone.
Mezz’ora dopo quella piccola precauzione di Virginio, il conte Sferralancia discese, per ritornarsene al castello. Virginio l’osservò di passata, e vide che se ne andava via mogio mogio, come un can bastonato. Non osò trattenerlo, per chiedergli notizie; salì in quella vece dal signor Demetrio, che ritrovò abbandonato nella poltrona, convulso ancora, smaniante, con gli occhi fuor della testa e con la schiuma alla bocca.
— Che cos’è? — disse Virginio, accostandosi sollecito. — Vi sentite male?
— Male! male! — rispose quell’altro, sussultando ad ogni parola. — Sfido io! Mi vogliono rovinare, mi vogliono. Ah, non ne avessi date che centomila!... Ce ne sarebbero ora altrettante da gettare in quel pozzo di San Patrizio.... o di San Cesario, che mi pare tutt’uno. Ah, lo dicevo io; quello è uomo da liquidare il Bottegone. Ma vivaddio, no, no, no, mille volte no. L’hai da far colla voglia, assassino! Prima che tu ci riesca, voglio appiccargli il fuoco con le mie mani. —
Virginio lasciò passare quella raffica, sperando di cavargli poi qualche cosa di bocca. Ma il signor Demetrio seguitava a sbuffare; e quando parlava, a frasi rotte, a periodi slegati, usciva sempre dal tema, o lo affogava sotto un diluvio di esclamazioni. Non riuscendo a cavarne un costrutto, ma intendendo bene che di laggiù bussavano a denari, Virginio lasciò il signor Demetrio a smaltir la sua rabbia, scese le scale e corse fuori, sulle tracce del conte Sferralancia, che coi suoi passettini corti non doveva essere andato molto lontano. L’aria frizzante del dicembre giovava anche a Virginio, per rinfrescargli la testa, sconvolta e riscaldata dal timore di qualche grosso guaio, che l’incertezza doveva fargli parere anche più grosso, e forse irreparabile.
Con tutti i suoi passettini corti, il signor Momino aveva guadagnato terreno. Virginio non lo raggiunse che al cancello del parco. Entrò insieme con lui, scusandosi della sua curiosità. Ma pur troppo non era il momento di far cerimonie: il signor Demetrio gli pareva troppo turbato; ed egli, il suo segretario, il suo braccio destro, non poteva restare più a lungo nell’ignoranza di ciò che lo aveva fatto dare a quel modo nei lumi.
— Ma, che vuole, signor Lorini? — disse allora lo Sferralancia. — Quello è un benedetto uomo, che salta come un basilisco e non vuole intender ragione. Capisco ancor io che il colpo è un po’ forte; ma infine, ci vuol pazienza, e bisogna saperci adattare a ciò che non è dato cangiare. Lo sapeva pure, che il suo genero era ingolfato negli affari di banca. Gli affari non son tutti buoni, purtroppo; ce ne sono qualche volta dei pessimi, quando la sfortuna sopravviene e vi guasta tutte le previsioni più ragionevoli. Il conte Attilio ha perduto, e bisogna aiutarlo, perchè possa rialzarsi. Se non lo aiuta il suocero, chi deve aiutarlo? Io lo vorrei, ma non posso. È una somma troppo forte, quella che ci varrebbe per lui; ed io non ci arrivo neanche per la metà. Casa Sferralancia ha molti impegni, e vuol bastare a tutti, onoratamente, come ha fatto fin ora, in mezzo a tante spese obbligatorie e con tanti stabili che non fruttano. Veda i miei beni di Mercurano; quanto crede che io ne ricavi, con tutta l’apparenza che hanno?
— Non saprei, signor conte; mi dica piuttosto, Lei, quanto deve il conte Spilamberti?
— Eh, una bella sommetta. Ma in parte egli spera di riparare con forze sue. Per il resto bisognerebbe che lo aiutasse il signor Bertòla; ed io credo che un cinquantamila lire basterebbero.... per ora.
— Per ora! — esclamò Virginio. — C’è in vista dell’altro?
— No, ch’io sappia: ma Lei capirà; quando si è perduto ogni cosa, c’è ancora la necessità di vivere; e a questo bisognerà provvedere, se non si vuol fare altri debiti.
— Giustissimo; — rispose Virginio. — Ma.... e la dote di sua moglie?
— La dote? L’ha avuta in contanti, e i contanti vanno. Ella sa pure, signor Lorini, che il conte Attilio si era dato a speculare in Borsa. Dunque diciamo, una parte è andata a metter su casa, a viaggiare, a vivere un paio d’anni in modo conforme al suo stato; l’altra ha preso una via più pronta, più sbrigativa, come ho avuto l’onore di dirle. E badi, senza colpa di quel poveraccio; sono stati gli eventi, più forti di lui e di molti, che erano più ricchi, più solidi, più fortunati, di lui.
— Perdoni, non domandavo di questo; — riprese Virginio. — I contanti siano pure andati; ma la dote c’è sempre. Non era forse assicurata, la dote? Non aveva il conte dato ipoteca per duecentomila lire su tutti i suoi beni stabili?
— Certamente; — rispose il signor Momino. — Ma se su quei beni ci fossero state altre ipoteche?... Egli non era ricchissimo del suo patrimonio; ed Ella intenderà facilmente....
— Debbo intendere, — disse Virginio, vedendo che il signor Momino Sferralancia non pensava punto a risolvere la sospensione, — debbo intendere che il patrimonio del conte Spilamberti, se bastava ad assicurare una dote di duecentomila lire, offrirà ancora un bel margine, per un ricorso al credito, posto che il signor Demetrio Bertòla non intenda, come io temo, di fare altri sacrifizii. Ma ella mi parla di altre ipoteche....
— Eh, già: — rispose timidamente il signor Momino. — Mi par bene di aver sentito dire che ce ne siano.
— E saranno allora posteriori al matrimonio del conte; — replicò Virginio. — Quando il signor Bertòla consegnò la dote e la volle assicurare, com’era suo diritto di chiedere, il patrimonio era libero, mi pare.
— Ma.... non saprei; ci poteva.... ci doveva esser già qualche cosa; — balbettò il signor Momino. — E siccome il patrimonio non era vistoso, capirà.... Bisogna premettere che di certe fortune, grandi o piccole che siano, non si può mai stabilire con certezza il valore. Dico il valor venale, ai prezzi del giorno, non tenendo conto del bisogno di vendere. Se c’è bisogno, quel che valeva cento non val più neanche cinquanta. Un castello, per esempio, che cosa rappresenta, se si vuol vendere? E un vecchio palazzo, con grandi appartamenti, dove una famiglia moderna ci si smarrisce, con un vasto cortile, che è tutto spazio inutile, senza botteghe, e con tante riquadrature architettoniche, con bozze e lesene che non permettono di aprirne, che cosa vuole che renda al suo nobile possessore?
— Ho capito; — disse Virginio, che più non istava alle mosse. — Perdoni, signor conte, la noia che le ho data.
— Che! che! felicissimo, anzi.... Quantunque, per la circostanza, dolente, dolentissimo di.... —
Virginio non istette ad aspettare che il signor Momino finisse la frase. Salutò in fretta, e se ne ritornò difilato in paese.
Ànch’egli incominciava a dare ne’ lumi, avendo certa la notizia del male, e indovinando, o temendo il peggio. Quando fu a casa, ritrovò il signor Demetrio ancora nella camera dov’egli lo aveva lasciato, e sempre fuori di sè, che borbottava, facendo le volte del leone, e schizzando fuoco dagli occhi.
— Dunque, — disse Virginio, — vi domandano cinquantamila lire?
— Già; come lo sai?
— Me lo ha detto dianzi il signor Momino.
— Per intenerirti, non è vero? per averti alleato? Ma non isperi il signor Momino che io mi lasci conmuovere da te. Nè da te, nè dagli altri, fosse pure mio padre, ritornato dal mondo di là; mi capisci? È un’infamia, e non la tollero. Cinquantamila lire! dopo duecentomila che n’ha sperperate! Duecentomila! è presto detto, duecentomila! Ma lo so io, quanti anni ho sudato a metterle insieme. E lor signori, che non ci hanno sudato, ne fanno vento in un giorno. Ma sì, dategliene ancora cinquantamila; se le son meritate, col suo buon uso che ne fanno. E basteranno poi, le cinquantamila? Le domandano, per gittarle via in una voragine, che ha già ingoiato tre o quattro volte tanto. E poi? e poi saremo da capo. Ah no, dico io, il Bottegone non lo liquideranno, giuro a Dio, non lo liquideranno.
— Ci avete dell’altro, senza toccare il Bottegone; — disse Virginio.
— E l’altro.... e l’altro è il frutto dei miei sudori. E quando avessi toccato quell’altro, che è terra al sole, e ci dovrei pigliare denari in prestito, che figura farei in faccia al mondo? me la dici un po’ tu? Non isperi niente da me, quel mal arnese; lo faccia lui un debito sopra i suoi feudi; e ci ritorni a vivere, per governarli, per farli fruttare un po’ meglio.
— Dategli le cinquantamila lire, ingiungendogli formalmente di ritornare a Modena e di viverci tranquillo.
— Non gl’iugiungo niente e non gli do niente; è più spicciativo. Tu intanto va via, non mi seccare.
— Andrò; — disse Virginio. — E voi penserete ancora a ciò che dovete fare. Sia pure un no, quello che direte, sarà necessario dirlo dopo aver ben considerato ogni cosa. Frattanto, io avrei da domandarvi un piacere. — Che cosa? — brontolò il signor Demetrio voltandosi, e ficcandogli addosso i suoi occhi di basilisco.
— Il permesso di andar fuori.... fino a Parma, per cose mie. Ho certe spesucce da fare. Sarei di ritorno domani.
— Va, ci guadagnerò di restare una giornata tranquillo; — ruggì il signor Demetrio, ripigliando le sue giravolte per la stanza.
— Grazie; — mormorò Virginio. — Ma almeno vi prego, siate tranquillo davvero; e non vi fate scorgere alterato dai giovani di negozio. Son brava gente; — soggiunse egli, rispondendo ad una spallata sdegnosa del suo principale, — e non n’avrebbero che dispiacere; ma potrebbero lasciarsi sfuggire qualche parola, e far ridere degli altri, a Mercurano. —
Lasciata questa piccola raccomandazione, e certo che avrebbe fatto il suo effetto, insinuandosi chetamente nell’animo del signor Demetrio, come fa una piccola goccia d’olio che a poco a poco si dilata e fa una gran macchia nel panno su cui è caduta, Virginio non pose tempo in mezzo; fece attaccare il calesse e si avviò alla stazione. Non doveva aver niente da fare a Parma, poichè prese un biglietto per Modena. E non erano certamente spesucce che lo chiamassero colà, poichè, appena arrivato all’ombra della Ghirlandina, andò a cercare un notaio. Segno di atavismo, avrebbero detto i burloni d’una certa scuola scientifica; non era figlio di notaio anche lui?
E amico di notai, si potrebbe soggiungere. Quello che Virginio andava a cercare era di fatti un amico, che aveva conosciuto a Mercurano, e di cui si ricordava in buon punto. Tanto è vero che tutto viene in taglio, uomini e cose, a suo tempo.
Il notaio era savio e stagionato; sapeva molte cose, e, le faccende del conte Spilamberti, quantunque non fosse suo cliente, le aveva sulla punta delle dita. Poteva dunque parlarne, amava anzi parlarne, non foss’altro per isfogarsi un tantino, essendo stato qualche volta a Mercurano e avendo conosciuto il signor Bertòla, che gli era parso il re dei galantuomini. In verità, gli sapeva male che lo avessero ingannato a quel modo. Per tutta Modena il matrimonio del conte Spilamberti aveva fatto senso; anche là, senza aspettare la confessione del signor Bertòla, si era detto che il padre della ragazza gittava duecentomila lire nel pozzo di San Patrizio, il più famoso dei pozzi senza fondo. Nessuno riusciva ad intendere come il signor Bertòla, un negoziante, e perciò in fama di uomo avveduto, si fosse adattato a snocciolare i contanti, non restringendosi a passarne i frutti, magari all’interesse del cinque e del sei.
Qui Virginio obbiettava: si erano dati i contanti, ma contro buona garanzia, prendendo ipoteca sugli stabili del conte Attilio. Ah sì, l’ipoteca! e sugli stabili del conte! Bisognava sapere a buon conto che stabili fossero. Una bicocca, che domandava mille lire all’anno per rappezzarne i merli e racconciare i tetti alle torri; un palazzo in città, che fruttava seicento lire di pigioni, compreso il pian nobile: quanto alla terra, che era la parte buona del patrimonio, e si trovava sul territorio di Nonàntola, valeva certamente la sua riputazione, ma a conti fatti non più di centomila lire; e sulla terra, finalmente, come sul palazzo di città, come sulla bicocca di campagna, c’era un’ipoteca anteriore al contratto dotale.
Anteriore! di quanto? Di tre mesi almeno: così pareva al notaio di ricordare; ma si sarebbe potuto veder meglio. Del resto, che fosse anteriore, o di molto o di poco, non cascava alcun dubbio; tanto glien’era rimasta viva la memoria, per le gran ciarle che ne avevano fatte a Modena, giunto appena l’annunzio delle nozze di Mercurano.
Fu quello per Virginio un colpo di fulmine. Ma come? Nessuno aveva dunque veduto lo stato ipotecario del conte Spilamberti, prima di venire alla tradizione della dote? Come poteva esser ciò?
— Caro mio, — gli rispondeva il notaio, — è quel che si fa.... da certuni. Uno stato ipotecario, perchè serva davvero al bisogno, dovrebbe esser sempre del giorno stesso in cui il contratto si stringe. So di gente a modo, che ha un notaio o un procuratore sul posto, e prima di metter penna in carta si fa battere il telegrafo, per esser certa che laggiù, dal conservatore delle ipoteche, non c’è stato nessuno. Si san già veduti tanti casi! e se ne vedranno ancor tanti!
— Mi fate fremere! — disse Virginio. — E si può dare tanta birboneria a questo mondo?
— Il mondo è vario e ci si trova di tutto un po’.
— Ma il conte Spilamberti....
— Il conte Spilamberti, per vostra norma, affogava, e fece come tutti quelli che affogano, battè di qua e di là, colle mani e coi piedi. Aveva più debiti che la lepre; li radunò, contraendo un mutuo colla Banca agraria di Modena. Si capisce che la Banca prese ipoteca sui beni del conte. È garantita, con ciò, garantita del tutto? C’è chi dice di sì, c’è chi dice di no. Se si mandassero all’asta i beni del conte Spilamberti, si potrebbero ricavarne le cento cinquantamila lire a cui ascende il mutuo colla Banca? Io ne dubito.
— Come? Anche questo? Non avete voi detto che la terra può valere essa sola....
— Centomila lire, sicuro, e troverei io chi la comprerebbe a quel prezzo. Ma intondiamoci bene, detraendone i frutti di sei anni. Infatti, il signor conte riveritissimo nostro, prima di prender moglie, anche prima di contrarre l'imprestito colla Banca, aveva preso dal suo fittaiuolo una anticipazione di sei annate d’affitto. Quanto alla bicocca, non ne parliamo; bisognerebbe trovare il matto, e i matti scarseggiano al giorno d’oggi tra noi; c’è Reggio che ne raccoglie quanti più le vien fatto. Il palazzo di Modena ha il suo valore; frutta seicento lire, vi ho detto. Capitalizzate questa somma al tre, netto di spese; farete molto a raggiungere il valore di ventimila lire. —
Virginio non sapeva più che rispondere. Quelle notizie del notaio di Modena lo avevano proprio atterrato. Per dargli il buon peso, l’amico lo condusse all’ufficio delle ipoteche, dove gli fece vedere e toccar con mano che l'iscrizione della Banca agraria precedeva di tre mesi, anzi di tre mesi e sei giorni, il contratto dotale di Fulvia Bertòla.
Ma allora, e lo Zocchi, il dolce e dotto Possidonio Zocchi, uno dei primi avvocati di Bologna, che aveva vedute lui tutte le carte?...
— Adagio, collo Zocchi; — rispondeva il savio notaio. — Prima di tutto, lo Zocchi non è uno dei primi avvocati di Bologna, e chi ve lo ha assicurato dovrebbe farsela prima con altri cinquanta, tutti più vecchi e più riputati di lui. Per giunta, è un penalista; almeno, si parla di lui come di un penalista che promette; ma non si sa che abbia mai vinta una causa importante al civile, e i suoi clienti credo si contino sulle dita. Ha ingegno, dicono; ma è giovane, e può darsi benissimo che in questo affare sia andato un pochino con la testa nel sacco.
— Oppure, — soggiunse Virginio, — avrà avute le sue buone ragioni per contentarsi d’uno stato ipotecario.... di quattro mesi addietro.
— Non voglio crederlo; sarebbe orribile; — rispose il notaio. — Dove si può accusare ignoranza, non bisogna andare a trovar mala fede.
— Speriamo che sia così; — disse Virginio. — Quantunque lo sperar ciò, — soggiunse egli sospirando, — non sia un gran guadagno per casa Bertòla.
— Almeno per la probità umana; — conchiuse il notaio, aggiustando le cose alla meglio, o alla meno peggio, che in troppi casi è tutt’uno.
Virginio non ispese altro tempo a Modena, e col primo treno che partiva quel giorno se ne ritornò a casa sua. Sceso alla stazione che serviva a quei di Mercurano, montò nell’unico calesse che fosse in attesa colà, più che bastante ai bisogni dei fedeli parrocchiani di San Zenone. Come fu a mezza strada vide spalancate le persiane del castello Sferralancia, e subito lo prese il desiderio di fare una visita al conte.
Il signor Momino, avendo qualche cosa da fare nella sua dimora estiva, non era anche partito. Egli non si rallegrò punto di vedersi capitare tra' piedi quell'altro, bene intendendo che ci avesse del nuovo da dirgli; e non piacevole, per giunta. Nondimeno gli fece buon viso; il buon viso delle persone seccate, quando si adattano alla noia che non hanno potuto evitare.
Virginio aveva la cera alterata, e la parola come la cera. Espose a frasi rotte quel che aveva saputo quella stessa mattina a Modena; battè molto sul debito colla Banca agraria, e sulla rispettiva iscrizione ipotecaria, anteriore di tanto al contratto dotale della signorina Bertòla. Possibile che di quanti avevano preparato quel contratto, nessuno sapesse niente delle condizioni finanziarie del conte Spilamberti?
A quell'attacco che per esser coperto non era meno diretto e violento, il signor Momino assunse l’aria del nume offeso.
— Caro mio; — rispose egli inalberandosi, — io vivo a Bologna, non a Modena. Dovevo saperle io, queste cose? I debiti che uno fa non si conoscono facilmente; colui che li fa ci ha il suo tornaconto a nasconderli. Quanto allo stato delle ipoteche, c’erano altri che dovevano vederne la data, non io.
— E non dico per lei; — rispose Virginio. — Ma l’avvocato Zocchi....
— Non me ne parli, per carità, non me ne parli, — gridò il signor Momino, mettendosi le mani alla testa.
— Come? — esclamò Virginio, stupito. — Un amico suo, signor conte!... uno dei primi avvocati di Bologna, che Lei, come ebbe a dirlo col signor Demetrio, gli confidava tutti i suoi interessi!...
— E non lo avessi fatto! non lo avessi mai fatto! — riprese il signor Momino con accento disperato. — Ha abusato vilmente della mia fiducia; ne ha infamemente abusato. Ora se Dio vuole, non mette più piede in casa mia. Non sa quello ch’io son venuto a conoscere? Quel tristo, quell’infame, tentava di levarmi l’onore. —
La sincerità di quello sfogo era tale da commuovere Virginio Lorini, che si pentì di aver toccato quel tasto.
— Signor conte, La prego; — diss’egli. — Non chiedo le sue confidenze.
— No, è bene che sappia; — ripigliò il signor Momino, sempre più esacerbato. — È bene che lo sappia Lei, che tutto il mondo lo sappia, per guardarsi da uomini tali, che colla faccia dell'arcangelo Gabriele s’introducono nelle famiglie, ottengono in veste d’amici la stima e l’affetto della gente, per poi farne ludibrio. Mi senta, mi senta, che è cosa edificante davvero. Non si è egli osato di asserire e di scrivere sui giornali che le prediche del padre Giovan Battista da Modena non erano autentiche? che il codice in cui si leggevano scritte, codice trovato da me, intorno al quale lavoro indefessamente da cinque anni, era una burletta, una falsificazione? E la prova di ciò? La prova volevano trovarla in questo, che nelle prediche del mio cappuccino d’Este fossero dei brani intieri di prediche del Segneri. Capirà; Alfonso III d’Este, il mio cappuccino, è nato nel 1591; è entrato in religione nel 1629; ed è morto nel 1644. Il padre Segneri è nato nel 1624 ed è morto nel 1694. Lo vede di qui il colpo che mi tiravano?
— Veramente.... — balbettò Virginio, che non intendeva più dove quell’altro andasse a parare.
— Ecco qua; se nelle prediche del mio codice si leggevano passi di quelle del Segneri, di un autore più tardo, il mio cappuccino evidentemente non era l’autore; il mio codice per conseguenza era una falsificazione. Per fortuna.... non siamo eruditi per niente.... per fortuna, ho potuto dimostrare, e vittoriosamente, che il codice è autentico, della prima metà del Seicento, sissignori, della prima metà, e che il padre Segneri ha copiato lui, lui, dal mio cappuccino d’Este. E la Deputazione di Storia Patria mi ha dato ragione. Sfido io, se non doveva darmela.
— Ma lo Zocchi, come c’entra?
— Lo Zocchi? Era lui, non ha inteso? era lui che aveva inventata la favola; lui che aveva ordita la congiura contro di me; lui che aveva letto il codice, che m’aveva perfino aiutato a trascriverne delle pagine, e l'unico che potesse aver cognizione dei passi somiglianti a quelli del Segneri.
— Una brutta azione! — esdamò Virginio. — Quell'uomo è dunque capace di tutto!
— Ecco, dice bene, capace di tutto. Per chiasso, diceva a sua scusa; aveva detto per chiasso, e il giornalista velenoso aveva raccolta una innocentissima chiacchiera da caffè. Ma si fanno queste chiacchiere infami, a caffè? contro un amico che aveva riposta in voi la sua fede? Ma gli ho fatta una partaccia; una di quelle partacce che so far io, quando esco dei gangheri. Mia moglie mi ha secondato degnamente; era perfino più inviperita di me. Quella è una donna!... Che donna impagabile! Creda a me, donne simili non se ne trovano a tutti i canti di strada. A Lei, signor Lorini, gliene auguro una compagna. —
Virginio Lorini, sempre tanto buono e cortese, non fu in quel momento pari a sè stesso; si dimenticò perfino di ringraziare il conte Sferralancia del suo amabilissimo augurio. Ma il conte Sferralancia non mostrò punto di aversene a male; troppo era felice di avere col suo sfogo letterario evitata la noia di ritornare sul tema dei suoi errori in materia di contratti dotali e di stati ipotecarii. Il degno gentiluomo ebbe per giunta la felicità maggiore, di veder andar via il suo visitatore importuno, che pochi minuti dopo si restituiva all'abitato di Mercurano e alle tristi consuetudini del Bottegone.
Doveva egli parlare al signor Demetrio di tutto ciò che aveva fatto a Modena, di tutto ciò che aveva saputo intorno alla condizione del conte Spilamberti? Lì per lì poteva essere una rivelazione pericolosa, visto e considerato il fiero turbamento del vecchio, il suo temperamento sanguigno e la poca forza di resistenza del suo grosso cervello. Certamente, facendo un atto di valore e uno sforzo eroico di borsa, il signor Bertòla avrebbe potuto dare le cinquantamila lire che occorrevano a quei di laggiù: le avrebbe potute metter fuori, senza impegnare per nulla i suoi stabili, e senza nuocer troppo alla contabilità del Bottegone. Ma poi? Non sarebbe presto bisognato dell’altro? E qui era il caso di pensarci due volte. Colle forze del Bottegone non bisognava neanche far troppo a fidanza. Ogni stagione si usava rinnovar le provviste, aumentare i generi secondo i bisogni, essere pronti a cogliere tutte le buone occasioni, via via che si presentavano offerte. Per bastare a tutto, alle circostanze straordinarie come alle ordinarie, occorreva che il Bottegone avesse ben munita la cassa, e sempre sotto la mano quella che il signor Demetrio chiamava con appropriato vocabolo «la scorta».
Eppure, il bisogno era urgente, laggiù; se il signor Demetrio non voleva veder gemere la sua cara figliuola, se non voleva saperla infelice, doveva pur provvedere alla necessità che il discorso del signor Momino gli aveva rivelata. Questo era il punto essenziale; al resto si sarebbe pensato poi. Perciò, tralasciando le notizie dolorose di Modena, appena fu solo col suo principale, Virginio gli entrò a parlare di «quei di laggiù» come il signor Demetrio aveva preso a chiamarli.
— Avete da rispondere; — gli disse. — Non vi hanno scritto essi; ma ciò che vi ha detto per conto loro il signor Momino vi porta obbligo di una risposta a loro.
— Così pensavo ancor io; — rispose asciutto il signor Demetrio. — Perciò tu sfondi un uscio aperto. Ho risposto.
— Senza aspettarmi? — disse Virginio, maravigliato di quella novità.
— E che? C’era proprio bisogno del tuo riverito permesso?
— No, certamente; — rispose Virginio, mortificato; — ma voi, signor Demetrio, scusate, voi stesso mi avete forse un pochettino guastato, consigliandovi in ogni cosa con me.
— E mi sarei consigliato ancora questa volta. Ma tu non c’eri; ed io... Oh, finiamola; queste scuse mi seccano! diciamo piuttosto che ho volentieri approfittato della tua assenza, mio caro. Del resto, non rimandare a dosmani quello che puoi far oggi, è massima antica. Ed io ho scritto ieri, a mala pena tu te ne sei andato a Parma, per fare le tue spesucce, per farti misurare qualche abito nuovo, per ritirare qualche mezza dozzina di camicie all’ultima moda. —
Virginio accolse la bottata sarcastica con un sorriso malinconico.
— E che cosa avete risposto, se è lecito?...
— Ecco lì il copialettere; puoi approvare o disapprovare, come ti piacerà meglio. —
Virginio non istette a ribattere neanche quell’altra cattiveria del suo principale stizzito. Gli premeva di leggere; andò al copialettere, e lesse. Ma una nube gli passò sopra gli occhi, mentre leggeva; nube di mestizia e di sgomento, brutta nube, insomma, come son tutte le nubi morali, non mai pittoresche, sempre gravi ed uggiose.
In quella lettera il signor Demetrio, riferendosi alla commissione poco lieta del conte Sferralancia, rispondeva asciutto alla domanda del genero. Non si perdeva in condoglianze pei gravi danni che aveva patiti quell’altro; non dava buone parole, non lasciava sperar buoni fatti. «Mi rincresce dei vostri fastidii; ma io non ne sono la cagione, se non forse per troppa bontà di cuore, avendo dato in dote alla mia figliuola assai più che non permettessero le mie condizioni di fortuna. Fare dell’altro mi è ormai impossibile. Denari ad imprestito, sul poco che possiedo in terre, non ne prendo e non ne prenderò mai; gli eredi miei troveranno intatto ciò che io ho guadagnato col mio serio e continuato lavoro, assicurandolo dalle variazioni della sorte. Il mio negozio, poi, non mi permette di far sacrifizi, che per primo effetto avrebbero quello di togliergli il credito.» Questa la parte essenziale della lettera, a cui seguiva un «caramente salutandovi» che stava a mezz’aria tra la contraddizione e la canzonatura.
— Ebbene, che te ne pare? — brontolò il signor Demetrio, poichè vide il suo segretario deporre il copialettere sul leggìo. — C’era bisogno di aspettar te, per iscrivere un no più tondo e più convincente?
— Per tondo, avete ragione; — rispose Virginio sforzandosi di apparire tranquillo. — Che riesca poi a convincere la vostra figliuola, ne dubito.
— La mia figliuola! — gridò il signor Demetrio, dando senz’altro nei lumi. — La mia figliuola! Per tua norma e regola, la mia figliuola avrebbe fatto meglio a non lasciarsi entrare certe fisime in capo. L’ha avuto, il suo conte, che le piaceva tanto! L’ha avute le grandezze, per le quali era nata, delle quali non poteva far senza! Le duecentomila lire, ecco, sono sfumate. Va bene che la dote è assicurata; c’è una ròcca di San Cesario, da empirsene la bocca: c’è un palazzo a Modena; ci son terre a Nonàntola.... Ebbene, prevedo già quello che dovrà fare, l’ambiziosa contessa; darà il suo riverito consenso a qualche grosso taglio sul vivo di Nonàntola, di Modena, o di San Cesario. Lo dia, e non mi secchino più oltre.
— Non c’è taglio da fare; — scappò detto a Virginio, che oramai non ne poteva più; — E voi non la volete capire!...
— Che? come? che cosa hai detto? nessun taglio da fare? Per caso, sarebbe già fatto? Allora tanto meglio; — conchiuse il signor Demetrio; — rideremo di gusto. —
Era fatta, e non occorreva neanche rivoltarla: Virginio la scodellò. Del resto, non doveva essere un mal così grave, com’egli aveva temuto da principio. Non lo diceva lo stesso signor Demetrio, che avrebbe riso di gusto? Virginio gli diede materia da ridere per una settimana, spiattellandogli tutto, dall’a fino alla zeta.
— Ah ah! Che cosa mi racconti? E non sei andato a Parma, come mi avevi inventato con la tua faccia franca? Povero gocciolone! Eccolo lì, — gridava il signor Demetrio, seguitando a ridere, — eccolo lì; come don Desiderio, disperato per eccesso di buon cuore.... Un’opera buffa, ti sia detto fra parentesi, che si cantava ai miei tempi; peccato che non sia più alla moda! Povero gocciolone, ti ripeto e torno a dire. E tu ti pigli di queste gatte a pelare; vai di qua, vai di là, per vedere dove ci fosse da rimediare, da salvare, da rappezzare?.... ma sì, tu sei un portento d’uomo. Ti rubano la donna, e tu niente; si vuol darle cento, da gittare nel pozzo di San Patrizio, e tu duecento; vanno in malora, e tu mi diventi di pasta frolla, ci rimetti perfino di borsa in viaggi, per chiarire le cose, per venirmi a dare un consiglio da amico.... Non ti resta più che di darle tu, le cinquantamila lire, del tuo. Ne sei capace; tu sei capace di tutto; perfino d’imitare san Lorenzo, il quale, sentendosi arrostito da una parte, disse con molta grazia ai suoi rosticcieri: «Vi prego, signori belli, rivoltatemi dall’altra; che da questa, se Dio vuole, sono all’ordine.» Ah, ah! lasciami ridere; non ne posso più, parola d’onore, non ne posso più. —
Era diventato rosso, cremisi, pavonazzo, dal ridere. E seguitò a ridere tanto, che fu necessario metterlo a letto e mandar presto pel medico, che fece subito una cavata di sangue.