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malinconica dell’aspetto, lo tradiva il sorriso, che in lui non era mai sincera espressione d’allegrezza; più doveva tradirlo il dolore di quei giorni malaugurati.
Non temeva pel vecchio, oramai; quel vecchio aveva forte la fibra, e una sottrazione di sangue era venuta a sollevarlo in buon punto. Temeva per lei, che sapeva rovinata, senza intendere com’ella potesse più rilevarsi dal colpo inatteso. Che cosa avrebbe pensato Fulvia di quell’uomo, cui si era legata per sempre? Con quali sentimenti avrebbe più potuto vederselo dinanzi, conoscendo (e il fatto non doveva indugiar molto) che sulle sostanze di lui non era da fare assegnamento, per rimediare ai danni della dote sfumata? Una rovina chiamava l’altra, e ambedue s’illuminavano a vicenda, riflettendo la loro sinistra luce sull’aspetto morale del conte Spilamberti, del giuocator temerario, che non aveva dubitato di giuocare sopra una carta parecchi anni di riposata esistenza. Quell’uomo, sicuramente, già rovinato negli averi, si era rivolto a lei come ad un estremo partito; aveva veduto in lei, non l’amore, non la speranza, la fede di tutta la sua vita, ma solamente il mezzo di tentare la sorte, di riconquistar la ricchezza, di ritornare all’ozio fastoso che il suo titolo gli faceva apparire come una condizione necessaria, e che la dote di casa Bertòla non sarebbe certamente bastata ad assicurargli. Gran che, la dote di casa Bertòla! Il conte Attilio Spilamberti l’aveva presa, come si prende ad imprestito un’ultima moneta d’oro, per gittarla sul tappeto verde, a tentar la fortuna. Fallato il conto, si pensa egli a restituir la moneta? E a lui, giuocatore sfortunato, che solo aveva sposata quella donna per amore del giuoco, doveva premer molto di lei? di lei, che dopo avergli recate le duecentomila lire di dote, perchè potesse giuocarle, non gli serviva, neanche più per ottenere quelle misere cinquantamila, ancor necessarie a colmar la voragine?
Virginio era rimasto pensoso. Che fare, in tanta distretta? Le parole del vecchio gli stavano sem-