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pre fitte nell'anima. «Non ti resta più che di darle tu, quelle cinquantamila lire, del tuo; ne sei capace; tu sei capace di tutto.» Ah sì, veramente, capace di tutto; e il dare le cinquantamila lire era il meno, per lui. Ma non sapeva come. Egli era diventato così straniero per quella donna, che non vedeva il modo di riavvicinarsi a lei, di giustificare agli occhi di lei una offerta di servigi. La contessa non gli aveva mai scritto: doveva egli, povero diavolo, oscuro uomo, semplice impiegato di casa Bertòla, aver aria di conoscere certi segreti, e prenderne argomento ad offrire un aiuto, che poteva assumere il carattere di un’offesa? Doveva egli scrivere ad una donna come quella, fosse pure stata sua scolara e avesse pur ballato sulle sue ginocchia, che dopo il matrimonio, diventata contessa Spilamberti, non si era più ricordata di lui, non lo aveva più considerato come un essere vivente? Bene essa gli aveva mandato, al ritorno da Parigi, un ricordo; ma come a tutti gli altri impiegati di suo padre, servidorame e bassa forza del Bottegone. Poi, più nulla, neanche un accenno al nome di lui. Nelle lettere frequenti al padre, lettere che Virginio doveva leggere per obbedienza, Virginio non era mai ricordato, neanche per caso. Non se ne lagnava, no, certo; non se ne doleva neanche; meglio così, meglio il silenzio e l’oblìo, che un ricordo delle ultime righe, che un accenno in poscritto, per salvar le apparenze.
Così poteva egli credere d’esser dimenticato da lei; così poteva egli chiudere con dolorosa voluttà il suo segreto nel profondo dell’anima, essenza di rose che penetrava l’involucro e trapelava dal sembiante, dandogli quell’aspetto di morto vivo che conservano nelle loro arche di cristallo certi corpi di santi. Le carni, dove la vita si è spenta da secoli, appariscono fresche tuttavia, come di persona dormente, che sogna in pace il gran sogno di un’altra età, più dolorosa al certo, ma più gloriosa e più cara.
Quanti pensieri in quel raccoglimento silenzioso! Virginio non faceva che ordire e disfare