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Al signor Demetrio, si è detto, il matrimonio della figliuola col conte Spilamberti piaceva e non piaceva; qualche volta gli pareva una maraviglia, e qualche volta un marrone. Benedetto uomo, con la sua volubilità di giudizi e di umori! anche il suo soggiorno a Roma correva la sorte dei suoi cambiamenti continui. Tutte quelle grandezze, tutte quelle magnificenze tra cui era vissuto una quarantina di giorni, lo avevano sbalordito senza persuaderlo; le ricordava volentieri, e poi le giudicava sommariamente con un’alzata di spalle.

— Roma! Roma! — diceva lui — È molto bella; ma Mercurano ha più verde. Laggiù bisogna ammirar sempre, spalancare ad ogni momento la bocca; e si respira male a bocca spalancata. Qui niente vi mozza il fiato; ed anche ci vive della brava gente, che non prova l'eterno bisogno di veder sempre qualche cosa di nuovo, che si contenta del poco e sbarca il suo lunario egualmente. Laggiù c’è stato Enea? e qui c’è passato Annibale. I nostri buoi hanno le corna più corte? e lavorano meglio all’aratro, senza paura di dar del vomere in nessuna colonna miliare. La basilica di San Pietro è immensa; non lo nego, ma io mi trovo al largo anche nella parrocchiale di San Zenone. Non c’è un papa, qui; se ci fosse, sarebbe un antipapa, e chiamerebbe gente. Che bella cosa! anche il Bottegone ci avrebbe il suo tornaconto. Ma ci vorrebbe pazienza; si contenterebbe poi un antipapa di stare a Mercurano? Senza contare che tutti i comuni e comunelli d’Italia ne vorrebbero uno. Teniamoci dunque il nostro arciprete e baciamo basso; non c’è da allungare il collo, se Dio vuole, e nemmeno da fiaccarcelo. —

Quell’idea di fiaccarsi il collo faceva batter le [p. 149 modifica] labbra al signor Demetrio in modo significativo. Egli sicuramente andava più in là che non dicesse la frase. Ricordiamo che per lui, se non Roma tutta, una gran parte di Roma era ridotta al Macao, in un quartiere elegante, fin troppo elegante, al primo piano di una palazzina sontuosa, che lo aveva avuto per ospite, più stupefatto che lieto. Anche là il signor Demetrio si era ritrovato nelle grandezze, tra mobili di legno prezioso, vasi del Giappone, tappeti di Persia, cortine di raso e servi in livrea. Il conte Spilambarti non la guardava nel sottile, no davvero, e all’amor suo aveva fatto un nido da principi. La casa non era grandissima, non aveva file di salotti; ma era tutto un salotto, e luccicava come uno specchio. Di servitù non si vedeva che un valletto ed una cameriera; ma in cucina non mancava nè il cuoco nè il guattero; e al portone d’ingresso, quando si usciva per andare a passeggio, si vedeva una carrozza padronale, con un cocchiere monumentale a cassetta. Per la carrozza, non si trattava neanche di un modesto «coupé», come si era detto in principio: bensì d’un «landau» a due cavalli. I cavalli non erano di Meclemburgo, nè d’altra razza straniera e costosa; ma anche essendo friulani, o pugliesi, apparivano scelti dei meglio e facevano bella comparsa.

— Tutto ciò sarà bene; — aveva detto il signor Demetrio, arricciando il naso a quelle spacconate; — ma anche guadagnando largo, come si fa in questi affari di banca, mi pare che bisognerebbe pensare piuttosto a mettere da parte. Le fortune s’hanno a consolidare, prima di farne sfoggio, mi sembra. Ma basta; — aveva anche soggiunto il savio negoziante del Bottegone; — il mio signor genero è nato nell’abbondanza, tira avanti da par suo, ed io non ho da fargli i conti addosso. Fulvia poi è contenta, e questo è l’essenziale. —

Come andavano le azioni della «Nuova Esperia»? Prima di partire da Roma, il signor Demetrio s’era fatto coraggio a domandarne. Andavano benino; quotate alla Borsa, non facendo [p. 150 modifica] variazioni notevoli, piuttosto all’aumento che al ribasso, il che era buon segno, non essendo ancora avviato l’affare del porto di Taramello. Oh diavolo! ancora niente di combinato! e perchè? I soliti ritardi, le solite lentezze di tutti i grossi affari, che stentano, come le grandi corazzate, a prender l’abbrivo sullo scalo. Gli studi, del resto, erano compiuti da un pezzo; si aspettava un certo parere dei Lavori Pubblici; ancora uno o due mesi di noie, e tutto era all’ordine. Allora si sarebbero vedute le azioni della «Nuova Esperia» prendere anch’esse l’abbrivo.

— Ne ho piacere; — aveva esclamato il signor Demetrio, assentendo ripetutamente del capo. — Faccio voti per una pronta risoluzione di tante difficoltà. Si capisce, i grossi affari ne incontrano sempre. La burocrazia ò sempre la stessa. E nel consiglio di amministrazione ci sei, non è vero? —

No, non ancora. Il conte Attilio lo confessava, arrossendo unn pochino. Ma in verità, non ci sarebbe stato da arrossire; e le ragioni ch’egli adduceva del non essere ancora nel consiglio di amministrazione della «Nuova Esperia» avrebbero potuto meritargli i complimenti d’ogni savia persona. Le elezioni erano state fatte per l’appunto in dicembre; e prima che si tenesse l’assemblea, il principe Andolfi gli era entrato a discorrere di quella nomina. Ma per essere eletto occorreva possedere un certo numero di azioni, e a quel certo numero il conte Attilio non si sentiva di arrivare. I lavori del porto di Taramello erano in vista bensì, ma ancora lontani sull’orizzonte, e lontani per conseguenza i profitti della società, che dovevano far raddoppiare il valor delle azioni. Ora il conte Attilio non voleva impegnare il denaro in un titolo che non faceva ancora miracoli. Aspettiamo, aveva detto, sarà per un’altra volta; se l’impresa di Taramello si assume, avrete sempre modo di avvisarmene in tempo; ed anche senza essere tra gli amministratori potrò fare un buon colpo, comperando magari un migliaio di azioni.

Questo era stato il discorso del conte Attilio; [p. 151 modifica] per questo egli non aveva accettato di entrare nel consiglio di amministrazione della «Nuova Esperia». Si poteva fargliene un carico? No davvero; bisognava anzi lodare la sua prudenza. Il signor Demetrio, per verità, non intendeva che si rifiutasse l’occasione di piccoli guadagni, specie trattandosi d’un titolo che pareva tanto sicuro, appoggiato dal credito di amministratori come il principe Andolfi e il banchiere Spitzbolzen: ma egli, in fin dei conti, non capiva niente di banche, di assunzioni di lavori pubblici e di oscillazioni di titoli industriali: chinò la testa alle sottigliezze del suo nobilissimo genero, ed approvò tutto con due mani.

— Auguro bene; — conchiudeva egli; — auguro bene. Voi altri che siete nei grandi affari ne sapete più di me, povero negoziante al minuto. Ieri sera, per esempio, quel tuo principe, colla sua teoria del meccanismo del credito, mi ha gonfiata la testa, me l'ha fatta diventar grossa come un pallone. —

Il conte Attilio era sempre con banchieri e pezzi grossi; ed anche più ci stava, essendo a Roma il signor Demetrio, a cui bisognava lasciare il conforto di godersi la compagnia della sua cara figliuola. La contessa, s’indovina, dava al suo babbo tutte le ore libere della giornata; lo voleva con sè intorno alla culla del piccolo Lamberto, o accanto alla rustica Giunone di Lanuvio che gli dava la poppa, promettendo, col sodo rigoglio delle forme potenti, di farne un piccolo corazziere. Quando non aveva da badare al rampollo, Fulvia accompagnava il babbo a passeggio, facendogli far sempre qualche scarrozzata nei dintorni di Roma. Non amava portarlo in giro per le vie della città, dove bisognava stare in contegno come idoli antichi; lo conduceva fuori, a vedere illustri rovine e storici luoghi, che lo facevano restare a bocca aperta; non già per maraviglia, ma per non sapere di che cosa dovesse maravigliarsi. Egli non era un dotto; una rovina, per lui, non era che una rovina, e un luogo storico valeva spesso meno di un luogo senza [p. 152 modifica] storia. Dov’era il frumento? dov’era il grano turco? E i gelsi? e le viti? Roma, Roma! gran pascoli, e nient’altro che pascoli! Erano poi pascoli ricchi? I buoi ci avevano assai più sfoggio di corna, che lustro di pelame e abbondanza di quarti.

Ma infine, pazienza; egli finiva col non pensare più a tutte quelle miserie: stava accanto a sua figlia, ed era questo il suo divertimento maggiore, in mezzo a tante grandezze, delle quali non capiva un bel nulla. Amava sopra tutto sentirla parlare di cose antiche; ottima occasione per lui di pensare che le aveva fatto dare un’educazione coi fiocchi. Ah, quelle Dame Inglesi, gliel’avevano proprio istruita per bene. La sua Fulvia teneva la Storia Romana sulla punta delle dita. Sapeva tutto, lei, e metteva ogni notizia a suo posto; alla villa Adriana, al ponte Lucano, alle cascate di Tivoli, a Tuscolo, al lago d’Albano, al lago di Nemi, a Civita Lavinia (dov’erano andati un giorno, portando la balia in trionfo ai suoi concittadini) sapeva dire chi ci fosse nato, chi ci fosse morto, che cosa ci fosse avvenuto di notevole, in quei tempi lontani che al signor Demetrio confondevano la testa, più ancora che il meccanismo del credito.

Erano stati anche al Pincio una volta, e due a Villa Borghese; la prima volta per girarne i viali, la seconda per visitarne il museo; tutt’e due le volte ad ore quiete. Il Corso lo avevano fatto egualmente, ma senza dargli importanza. Che cosa è ormai il Corso, dopo l’apertura di tante strade nuove, e larghe il doppio di quello? Più spesso accadeva di doverlo attraversare, ora in un punto, ora in un altro, per andare a San Pietro, ai musei Vaticani, a Sant’Onofrio, a Villa Pamphili. Così avvenne che il signor Demetrio, avendo spesso occasione di vedere il Corso, e tanto da esserne stufo, non lo avesse veduto mai nell’ora solenne del passeggio pomeridiano. Sarebbe partito da Roma senza averne un’idea, se il caso non fosse intervenuto a farne qualcuna delle sue. [p. 153 modifica]

Sempre affaccendato con quella cara figliuola, il signor Demetrio non aveva ancora trovato il tempo di fare una visita, una visita di convenienza, al deputato del suo collegio. Andare a Roma senza vedere il papa è permesso, specie ora che il papa si è costituito prigioniero nei suoi palazzi e non ci lascia entrar carcerieri, nè amici di carcerieri; ma non è lecito andarsene da Roma senza aver visto il proprio deputato, specie quando si è avuto mano a stabilirlo in uffizio. Quante volte, capitando a Mercurano per voti o per pranzi, il legislatore non gli aveva detto: «Signor Bertòla, se mai ha occasione di venire a Roma, si rammenti che ci ha un servitore devoto; me l'avrei per male, badi, se non venisse a cercarmi!»

— E andiamo a cercarlo, povero diavolo! — aveva detto il signor Demetrio, ricordandosi del suo legislatore due giorni innanzi di ritornarsene al suo Bottegone. — Altrimenti se l’ha per male, e alla prima occasione, paffeta, mi ricusa i voti di Mercurano. Questi onorevoli son capaci di tutto. —

Così, volendo andare ad ogni costo ed al momento buono per ritrovare il suo uomo, aveva preso licenza dai suoi figliuoli all’ora di colazione. — Verrò stasera a pranzo, come dite voialtri, o a cena, come dico io; — aveva soggiunto. — Quantunque, ora che ci penso, potrebbe anche darsi che il nostro onorevole Spicchi volesse trattenermi, offrirmi da pranzo lui. Rifiuterò, s’intende: ma se poi il mio rifiuto dovesse farlo andare in collera, finirei con accettare; e in questo caso non ritornerei a casa tanto presto. Restiamo dunque intesi: se non sono qua per le sette, pranzate pure senza di me; io ritornerò dopo le nove. —

Andò a Montecitorio verso le tre, che già i deputati erano in seduta. Il guardaportone lo rimandò indietro, senza misericordia, quantunque egli proferisse il nome del personaggio che cercava. Ma quella era la consegna; di là non passavano che deputati in carica, deputati scaduti, [p. 154 modifica] impiegati della Camera, persone conosciute e aventi diritto per un motivo speciale o per l’altro. Egli era un visitatore di fuori via; andasse all’uscio da ciò, voltando il canto a destra, dov’era una sala d’aspetto, con uscieri per riceverlo e per annunziarlo. Il signor Demetrio capì che non aveva presa la strada buona, quantunque fosse la più larga; e andò tranquillamente più oltre, dove gl’indicava quell’Ercole infagottato, la cui mazza aveva il pomo decorato d’argento; girò il canto, ritrovò l’uscio dei visitatori, entrò nella sala d’aspetto, e stette là una mezz’ora buona ad attendere un usciere, che ricevesse la sua umil richiesta.

Si pigiavano là dentro da cinquanta a sessanta visitatori, che a contentarli tutti d’un deputato per uno, si sarebbe fatto il repulisti nell’aula; con qual danno per la patria legislazione immaginatelo voi. Finalmente giunse un usciere, e disse ad uno degli aspettanti, chiamandolo ad alta voce per nome, che il suo deputato non c’era. Ne giunse un secondo, e, vociando ugualmente, annunziò ad un altro che il suo c'era bensì, ma obbligato a prendere la parola. Quando uno degli uscieri sullodati trovò il tempo di volgersi al nuovo venuto, questi gli espose umilmente il suo desiderio, e obbedendo all’invito del cortese messaggero scrisse il suo nome e cognome in un foglietto di carta, da recapitare all’onorevole Spicchi.

Passarono venticinque minuti, rallegrati dai soliti episodi delle risposte ad alta voce e dei moccoli non meno altamente attaccati dai visitatori delusi. Il signor Demetrio ebbe tempo a pentirsi d’essersi andato a ficcare là dentro. Non ci sarebbe andato di certo, se avesse saputo che cos’era quella nuova forma di berlina; se ne sarebbe tornato indietro, se avesse trovato lì per lì il modo di svignarsela decentemente. Ma come fare? Se il deputato Spicchi fosse capitato e non lo avesse ritrovato ad attenderlo, sarebbe stata una villania; e di villanie il signor Demetrio non ne voleva commettere. [p. 155 modifica]

Finalmente, giungeva il messaggero aspettato; la berlina era al suo termine.

— Il signor Demetrio Bertòla! — gridò l'usciere con voce di tuono.

— Son io; — rispose egli, facendosi avanti.

— L’onorevole Spicchi è trattenuto in seduta; dolente di non poterla ricevere; favorisca passare un altro giorno, se crede.

— Grazie, obbligato! — rispose il signor Demetrio; — ma venticinque minuti d’anticamera si fanno una volta, non due. Favorirà lei di consegnargli questo. Per visita fatta; — soggiunse, facendo un cornicino al biglietto da visita, che aveva levato allora allora dal suo portafogli, donde apparivano biglietti rossi e gialli in buon dato.

E consegnato il biglietto, e rimesso in tasca il portafogli, fece un sapientissimo giro sui tacchi, che un vecchio soldato avrebbe potuto invidiargli.

— Caro! — borbottava egli, uscendo da quella gogna. — Ci verrai, a Mercurano, un giorno o l’altro, ci verrai. Se il presidente del consiglio ha due oncie di cervello, mi scioglie quest’anno la Camera; e allora ti voglio vedere, caro Spicchio del cuor mio; ti voglio vedere al Bottegone per voti. Abbia pazienza, onorevole Spicchi; il signor Bertòla è trattenuto a tavola, e non riceve; passi un altr'anno, se crede, onorevole Spicchi; e se non crede, s’impicchi. —

Intanto, perduta un’ora del suo tempo, non sapeva che fare del rimanente. Venuto da capo sulla piazza, girò intorno all’obelisco di Psammetico I, che fin allora non aveva avuta da lui la grazia di un diligente esame; ne osservò i geroglifici e bestemmiò quella maniera di scrivere, così incomoda per la posterità, che avevano inventata gli antichi Egiziani. Tutto ciò non era fatto per levargli dall’anima il maltalento contro l’onorevole Spicchi; ma infine, era anche quello uno sfogo. Maledetti a sua posta gli antichi Egiziani, scese verso la piazza Colonna, disposto oramai ad ammazzare il tempo, a bighellonare, a sdonzellarsela, come il più scioperato [p. 156 modifica] degli uomini. Si levava, diritta davanti agli occhi del signor Demetrio la colonna Antonina, e il signor Demetrio si fermò un pezzo a considerarla.

— Antonina! Antonina! — borbottava egli tra i denti. — Che cosa m’ha più detto Fulvia, che questa colonna è chiamata così per isbaglio? e che lo sbaglio l'ha commesso un papa? Vedete come sono infallibili! Ah, mi pare che abbia parlato di Marc’Aurelio; e quei bassirilievi devono rappresentare le guerre di Marc’Aurelio contro un popolo tedesco, che aveva un certo nome.... Che nome aveva? Ricordo, sì, ricordo che il nome di quei barbari illustrissimi cominciava come quello dell'imperatore Marco.... Marcaralli.... Marcogianni.... Insomma, che importa a me? si chiamino un po’ come vogliono, io me ne lavo le mani. Ah, ecco, Marcomani, Marcomani per l’appunto. Quando si dice che una cosa aiuta a rammentarne un’altra! Marcomani; anzi meglio, Marcomanni. Che bella cosa la storia! E come la sa a menadito, quella cara figliuola! È un portento. Non ricordo più che cosa m’abbia detto delle colonne di quel porticato. Sono state prese a Veio, e sono ioniche, mi pare; ma a che edifizio appartenevano, a Veio? Vattelapesca. So bene che mi farebbero comodo a Mercurano per decorare la fronte del Bottegone. Averle là, per riparar gli usci dalla neve e dalla pioggia, che bazza! E tutto un terrazzo di sopra, con dei vasi di fiori per l’estate! Mercurano non avrebbe più nulla da invidiare a Roma; o almeno potrebbe chiamarsi contento di quel poco. —

A grado a grado, oziando sulla piazza, osservando e facendo castelli in aria, il signor Demetrio si era calmato. Quando gli tornò alla mente il deputato Spicchi, l’onorò a modo suo d’una risata di compassione.

— Che sciocco! — esclamò! — Si crede radicato nel collegio. Te lo darò io, il collegio; ed anche le radici, caro; e condite coll’aceto forte. Ma intanto, signor Demetrio mio bello, anche voi facevate il conto senza l’oste; — proseguì, ridendo un tantino alle proprie spalle. — Se [p. 157 modifica] aveste avuto fame, e per levarvela non ci fosse stato che il pranzo dell’onorevole Spicchi, povero a voi! la facevate magra, quest’oggi. —

Così pensando, era giunto in fondo alla piazza, dov’essa si apre sul margine del Corso, e dove egli fu arrestato da una siepe di scioperati suoi pari, che stavano disposti capricciosamente, in file, in crocchi, in capannelli, a veder passare le carrozze padronali. Quello era il punto dove le Cibeli, le Giunoni, le Minerve e le Veneri di Roma moderna passavano più impettite sui sedili dei loro equipaggi, ben sapendo di essere esposte al fuoco di tutto un parco d’artiglieria; artiglieria di sguardi e di giudizi, di ammirazioni e di maldicenze. Sicuro, anche di maldicenze. Il guaio non è solo della Roma moderna; per mancar di rispetto alla divinità, non era meno audace e irriverente l’antica.

— Ah, ecco il famoso corso delle vetture; — disse il signor Demetrio tra sè. — Diamogli un’occhiata anche noi, usando degli ozi che ci lascia per sua bontà l’onorevole Spicchi. —

Non cercò il suo posto; prese quello che il caso gli offriva, mettendosi tra due crocchi, e un po’ indietro. Per veder le signore in carrozza non era necessario trovarsi in prima fila. Il posto era ottimo: a destra aveva cinque o sei giovanotti, disposti ad ammirare la bellezza, senza vederci il baco; a sinistra due soli personaggi, ma che facevano per dieci, conoscendo vita e miracoli di tutte le dee, notando ogni cosa, brevemente, sommariamente, ma in quel guizzo di frusta levando anche la pelle.

— La Bernucchi; oh Dio, che svenevole! quando la finirà di far la bambina? Ah, ecco la Marinelli, il meglio conservato dei monumenti di Roma. E colla Chiericozzi! Hanno dunque fatta la pace? Ben venga la Polidori; sempre con un occhio al marciapiede, e l’altro.... a Massaua. Già, «unum facere et alterum non omittere». Oh, ecco il duca, colla figliuola; quando pensa di maritarla, quella lucertola? Ahimè! si discende dai re Albani, ma Tor di Vento è passata ai [p. 158 modifica] mercanti di campagna, e gli orti di Rapizza son seminati d’ipoteche. —

Mentre i suoi due vicini di sinistra trinciavano a quel modo, il signor Demetrio guardava con la coda dell'occhio verso destra, per vedere quello o quelli che avevano da passare sotto la forbice. In quel punto gli venne veduta la sua figliuola, in carrozza scoperta, tutta gloriosa al fianco del suo maritino. Tremò involontariamente a quella vista, e sentì il desiderio di non esser là, vicino a quelle due lingue tabane. Ma il suo desiderio era vano; per andarsene di là non era più in tempo.

— Oh, guarda la Spilamberti! Da quanti giorni non si vedeva! Sempre bella a quel dio! Eccone una a cui la maternità ha fatto bene.

— Di dove? — chiedeva uno dei due al compagno.

— Lombarda; e ci si vede; — rispondeva l’altro; — la batte da Leonardo al Luino.

— Ma che Lombarda! — fu ad un pelo d’esclamare il signor Demetrio, che già aveva cominciato a respirare, non sentendo dir male di Fulvia. — È di Mercurano, signori miei belli, di Mercurano, in provincia di Parma, Emiliana, si direbbe oggi, con vostra licenza, Emiliana. —

Fu ad un pelo, ho detto, ma si trattenne. Del resto, quel Leonardo e quel Luino, due nomi che non conosceva, lo facevano restare sospeso. Frattanto i suoi vicini continuavano il dialogo.

— Quanto a lui, è di Modena. È ancora in auge, e la sciala. Ma il mese passato, alla Borsa, Dio, che scottata! Se tira avanti così, vuol lasciarci la pelle. —

Il discorso era istruttivo in sommo grado: ma non poteva durare su quel tema, poichè altre carrozze passavano, ed altra gente veniva sotto le forbici. Il signor Demetrio, profondamente colpito da quell’accenno alla scottatura, avrebbe voluto accostarsi, esser terzo fra cotanto senno, e domandare altri ragguagli. Scusino, signori; io sono il babbo di quella signora che loro hanno detto, e giustamente, bella a quel dio. [p. 159 modifica] Capiranno, il sangue non è acqua, e se mi volessero dire qualcosa di più sulle operazioni di Borsa del mio signor genero....

Questa, su per giù, l’idea che era venuta al signor Demetrio; e forse era la buona. Ma non era altrimenti facile mandarla ad effetto. Passato il primo bollore, il signor Demetrio capì che certe cose si possono pensare, ma non si fanno, e che non è lecito entrare così di schianto, senza presentazione, nei discorsi della gente che non si ha l'onore di conoscere.

Intanto i suoi due vicini di destra, che avevano l'onore di conoscere tutta Roma, continuavano allegramente la loro rassegna. Passava in quel punto un vistoso equipaggio in grande livrea, cocchiere e valletto vestiti di panno caffè e latte, con grossi bottoni dorati; cavalli rovani dalle teste erette e dai movimenti aggraziati, che parevano due ballerini; nella vettura due signore, una vecchia e una giovane; la vecchia semplicemente vestita di grigio, coll’aria modesta e severa d'una dama di compagnia, la giovane superba e fresca nella sua abbigliatura a due tinte, di azzurro e di bianco d’avorio, donde si ergeva la testa piccina e finissima di contorni, bianco rosato il volto, con un bocchino minuscolo e vermiglio, un piccolo naso sottile e delicato, gli occhi luminosi sotto due ciglia nerissime, la fronte mezzo nascosta sotto un’onda di capelli d’oro. Strano contrasto, quei capelli d’oro con le ciglie nere! Ma era una bellezza, quel contrasto, come l'altro della carnagione bianco rosata con quelle labbra così vivamente vermiglie; e se nel complesso poteva parere una bellezza da puppattola, era tale per contro da destare una più viva curiosità, una più profonda attenzione.

I cinque o sei vicini di destra facevano la ruota; uno di essi salutò, imitato per consenso dagli altri, e tutti ebbero in ricambio un cenno di gran degnazione dalla bionda signora.

— Questa è di certo una principessa; — mormorò fra i denti il signor Demetrio, ammirando istintivamente la bella apparizione. [p. 160 modifica]

E porse l’orecchio ai due di sinistra. Ah, non c’era da dubitarne; i suoi due vicini di sinistra ne avevano anche per quella.

— Otto molle, e una nuova livrea! — diceva uno dei due. — La «Nuova Esperia» è in aumento.

— Sì, per lei, ma non per gli azionisti: — notava il compagno. — Ne avessero almeno la parte loro, quei poveri merli!

— Si contentino di saper felice il principe, e di vedersi così bene rappresentati; — ripigliava il primo dei due. — Il duca è già liquidato: ora ci passa il principe. Poi verrà il giro del conte.

— Che salto! Lo vorrà fare?

— Per forza, quando sarà liquidato anche il principe. Il conte, del resto, è in attesa, e seguita a mandar mazzi di fiori.

— Che sciocco! Con una moglie come quella!...

— Eh, caro mio, questa è la storia. Si va di bene in meglio, o di male in peggio, secondo i gusti. E i gusti cambiano, cambiano, come i consigli dei saggi.

— È un’infamia, per altro.

— Lascia correre. A noi della platea questi spettacoli sono molto istruttivi, e ci fanno anche sperar bene del futuro. Capirai, queste donne ci vogliono, in una società come la nostra. Se non fossero loro, come si ristabilirebbe l’equilibrio delle fortune? C’è troppa sperequazione, mio caro. Ma ci sono quei vezzosi bocchini, se Dio vuole; ci sono quei graziosi dentini, che vanno sgretolando bravamente ogni cosa. Due, tre anni di sgretolamento, e un nababbo è finito; a disfare i minori non occorre che un anno. Così torna l’equilibrio sociale, nella rovina di tutti. —

Il signor Demetrio ascoltava e fremeva.

Che lingue! Dio di misericordia, che lingue di vipera! L’equilibrio sociale ristabilito; e come, e da chi! Questa è nuova.... cioè, niente nuova di zecca; è vecchia, piuttosto, vecchia come la barba di Aronne. Qui, per altro, si lavora più in fretta. In due anni un nababbo! in un anno una mezza fortuna! Che roba! che roba! E questa è Roma, che deve dare al mondo [p. 161 modifica] l’esempio di una nuova civiltà? Alla larga, e rifacciamoci a Mercurano. —

Ma che cos’era quell’accenno alla «Nuova Esperia»? Perchè doveva egli sentirne parlare, a proposito di quella bionda puppattola, che sgretolava principi e duchi? Quel principe, a buon conto, era sicuramente l'Andolfi, il cugino e il protettore del conte Attilio Spilamberti. E quel conte, che stava in attesa d’essere sgretolato a sua volta? quel conte che aveva una così bella moglie, sarebbe mai stato.... Per tutti i diavoli! il sospetto si affacciò alla mente del signor Demetrio Bertòla. Ma il buon senso fu pronto a discaccisarlo. Che follìa! Avrebbe il conte Attilio osato vogare sul remo al suo illustre cugino? E poi, non c’erano altri conti a Roma, e decorati di una bella moglie quanto il suo signor genero? Era proprio necessario di ricorrere a lui? Senza contare che sarebbe stata in verità troppo grossa, al second’anno di matrimonio. Per farle così grosse, di solito, ne occorrono cinque. Così almeno il signor Demetrio aveva sentito dire dai pratici.

Quel giorno il povero signor Demetrio capitò a casa inaspettato per l'ora del pranzo.

- Oh bravo! — gli gridò il conte Attilio. — E l’onorevole Spicchi?

— Non c’era; — rispose il signor Demetrio, per farla finita con quell’argomento antipatico.

— Sempre così, i nostri deputati! — esclamò il conte Attilio. — Vengono a Roma quando li chiama il telegrafo, e poi via! Ma a giorni ci dev’essere una votazione importante; lo aspetterete, non è vero?

— Sì, babbo, ecco una bella idea, di cui sono molto riconoscente a Tili; — entrò a dire la contessa, battendo le palme.

— No, cari, abbiate pazienza; non posso più aspettare, non posso più rimandare; la mia presenza è necessaria a Mercurano. Gli affari prima di tutto.

— E vanno a gonfie vele; non è così? — disse il conte. [p. 162 modifica]

— Sì, grazie a Dio, non mi lagno.

— Beato voi, caro suocero! Di quanto avete già passato il milione?

— Non so; debbo vedere per l’appunto i miei conti. Speriamo non abbiano a diventarmi marchesi. —

Con questa burletta il signor Demetrio Bertòla troncava il discorso del suo milione. Gli dava noia quel volergli fare i conti addosso; specie dopo certe antifone al Corso! Ah, se avesse potuto rispondere al suo riveritissimo genero: «non ci contare, sul mio milione: sono a due dita dalla rovina» gli sarebbe parso d’essere a nozze. Ma istintivamente pensò che con un discorso simile avrebbe fatta calar di prezzo la sua parentela, e chi n’avrebbe sofferto sarebbe stata la sua cara figliuola.

Rimasto quella sera a quattr’occhi con lei, volle interrogarla, sincerarsi a modo suo d’ogni cosa.

— Parto domani; — diss’egli; — ma posso almeno star sicuro di lasciarti contenta?

— Sì, babbo, salvo il dispiacere che mi dài colla tua risoluzione, contentissima.

— Attilio ti ama?

— Sì, sempre; perchè questa domanda?

— Per saperlo, che diamine! Scuserai la mia curiosità; ma essa è legittima in un padre.

— Non aver dubbi; — riprese Fulvia ridendo. — Tili è per me come il primo giorno del nostro matrimonio.

— Mi consoli; — replicò il signor Demetrio.

— E dimmi ancora; come vanno gli affari di tuo marito? Nella «Nuova Esperia» non è entrato, e forse è bene. Ma in Borsa, che fa? ci perde?

— Chi ti ha detto ciò?

— Nessuno; sai bene che non conosco nessuno e che non ho da parlar con nessuno. Domando semplicemente; non è lecito domandare? So che va in Borsa; e so pure che in Borsa ci si va con due sacchi, uno per prendere e l’altro.... per lasciare.

— Tili non ci ha ancora lasciato nulla; — [p. 163 modifica] rispose Fulvia, ridendo ancora intorno ai due sacchi del babbo; — ci ha guadagnato, finora.

— Quanto, nel mese scorso?

— Ecco, nel mese scorso n’avrebbe piuttosto perduto che guadagnato.

— Ah vedi!

— Sì, un diecimila lire; ma siccome ne aveva guadagnate trentamila nel mese antecedente, non possiamo dire che abbia perduto.

— No davvero; — ripigliò il signor Demetrio; — ci ha ancora ventimila lire di benefizio. Ed è vero, questo?

— Verissimo; Tili mi racconta tutto quello che fa.

— Tutto? proprio tutto?

— Tuttissimo.

— Ebbene, tu mi consoli, figliuola; e Dio voglia che andiate sempre di questo passo. Io me ne partirò dunque col cuore tranquillo. —

Ma che bugiardi, quei novellieri del Corso! che lingue tabàne! Il signor Demetrio non intendeva che gusto ci trovassero ad inventarle così grosse. Per altro, se sua figlia lo avesse ingannato?... Se fosse stata ella stessa ingannata da quel bell’arnese di suo marito!...

Con questi dubbi nell’anima partiva il signor Demetrio da Roma. La sera prima della partenza, la sua Fulvia lo aveva condotto a passeggio per le vie interne della città, scendendo da piazza Barberini fino al Corso. In piazza di Trevi lo aveva fatto fermare davanti alla fontana; un luogo dove egli si trovava male, non potendo resistere all’incessante frastuono delle acque zampillanti. Ed anche lo aveva fatto scendere fino al margine della gran vasca, per costringerlo a gettare una moneta di due soldi nell’acqua.

— C’è la ninfa di Trevi, là dentro; — diceva ella. — Chi le paga il tributo è sicuro di ritornare.

— Che superstizioni! — esclamava il signor Demetrio.

— Superstizioni fin che vorrai; qui ci credono; — rispose Fulvia. — Chi vive a Roma, e vuol [p. 164 modifica] vederci ritoraare i suoi cari, ci crede. C'è anche l’uso di gettare una moneta al padre Tevere, quando si passa col treno sul ponte di ferro. Spero bene che lo farai domani anche tu. —

Il buon signor Demetrio, nemico delle superstizioni, non voleva buttare altri due soldi in acqua. Ma il giorno appresso, quando fu al ponte di ferro, su cui il treno rallentò la sua corsa fino al passo di lumaca, aveva macchinalmente infilato l'indice e il pollice nel taschino della sottoveste. Il treno andava così adagio, che pareva fermo, quasi per invitarlo a pagare il pedaggio. Il signor Demetrio stette un poco tra il sì ed il no; frattanto guardava il palancone, che senza sforzo gli era uscito alla luce del giorno.

— Che pazzerella! — esclamò, mettendo la mano fuori del finestrino.

La moneta di rame gli sguizzò dalle dita, andando a rimbalzare sulle travature di ferro, per mezzo alle quali si vedeva scorrere là in fondo, tra due ripe terrose, la gran massa bianchiccia del Tevere.

— Per contentarla; — soggiunse egli, mentre seguitava con gli occhi il capitombolo della moneta. — Oggi questa alla tua divinità, o biondo Tevere, come ieri quell’altra alla divinità di Trevi. Santissime acque di Roma! Vorrei che vi contentaste dei pochi che v’ho dato. Pochi! pochi! — borbottò il signor Demetrio, mettendo la glossa a fianco del testo. — Diciamo due palanconi.... e duecentomila lire; tutta grazia di Dio che si liquida; e bisognerebbe fermarsi qui. Il mio signor genero è uomo da liquidare ben altro; magari il Bottegone. —

Non era un po’ troppo? Sì, certo, e il signor Demetrio si pentì di essere andato tant’oltre.

— Perchè credo io a tutte le ciarle degli sfaccendati di piazza? — mormorò egli tra i denti. — Ha perduto, sì, ma aveva anche guadagnato. E del resto, non ci ho da pensar io. Il mio dovere l'ho fatto, ed assai più del mio dovere. Quanto a lui, ci avrà sempre il fatto suo, da camparci su. La ròcca di San Cesario, quando non [p. 165 modifica] avrà più munizioni, caricherà le sue colubrine coi sassi. —

Fatto questo ragionamento, e non avendo più altro da dire, il signor Demetrio Bertòla si raggomitolò nel suo angolo, e attaccò un pisolo che doveva accompagnarlo fino a Civitavecchia. Era il primo, ci s’intende, e ne lasciava sperare degli altri, per tutto il rimanente del suo lungo viaggio.