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di cavargli poi qualche cosa di bocca. Ma il signor Demetrio seguitava a sbuffare; e quando parlava, a frasi rotte, a periodi slegati, usciva sempre dal tema, o lo affogava sotto un diluvio di esclamazioni. Non riuscendo a cavarne un costrutto, ma intendendo bene che di laggiù bussavano a denari, Virginio lasciò il signor Demetrio a smaltir la sua rabbia, scese le scale e corse fuori, sulle tracce del conte Sferralancia, che coi suoi passettini corti non doveva essere andato molto lontano. L’aria frizzante del dicembre giovava anche a Virginio, per rinfrescargli la testa, sconvolta e riscaldata dal timore di qualche grosso guaio, che l’incertezza doveva fargli parere anche più grosso, e forse irreparabile.
Con tutti i suoi passettini corti, il signor Momino aveva guadagnato terreno. Virginio non lo raggiunse che al cancello del parco. Entrò insieme con lui, scusandosi della sua curiosità. Ma pur troppo non era il momento di far cerimonie: il signor Demetrio gli pareva troppo turbato; ed egli, il suo segretario, il suo braccio destro, non poteva restare più a lungo nell’ignoranza di ciò che lo aveva fatto dare a quel modo nei lumi.
— Ma, che vuole, signor Lorini? — disse allora lo Sferralancia. — Quello è un benedetto uomo, che salta come un basilisco e non vuole intender ragione. Capisco ancor io che il colpo è un po’ forte; ma infine, ci vuol pazienza, e bisogna saperci adattare a ciò che non è dato cangiare. Lo sapeva pure, che il suo genero era ingolfato negli affari di banca. Gli affari non son tutti buoni, purtroppo; ce ne sono qualche volta dei pessimi, quando la sfortuna sopravviene e vi guasta tutte le previsioni più ragionevoli. Il conte Attilio ha perduto, e bisogna aiutarlo, perchè possa rialzarsi. Se non lo aiuta il suocero, chi deve aiutarlo? Io lo vorrei, ma non posso. È una somma troppo forte, quella che ci varrebbe per lui; ed io non ci arrivo neanche per la metà. Casa Sferralancia ha molti impegni, e vuol bastare a tutti, onoratamente, come ha fatto fin