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scuse mi seccano! diciamo piuttosto che ho volentieri approfittato della tua assenza, mio caro. Del resto, non rimandare a dosmani quello che puoi far oggi, è massima antica. Ed io ho scritto ieri, a mala pena tu te ne sei andato a Parma, per fare le tue spesucce, per farti misurare qualche abito nuovo, per ritirare qualche mezza dozzina di camicie all’ultima moda. —

Virginio accolse la bottata sarcastica con un sorriso malinconico.

— E che cosa avete risposto, se è lecito?...

— Ecco lì il copialettere; puoi approvare o disapprovare, come ti piacerà meglio. —

Virginio non istette a ribattere neanche quell’altra cattiveria del suo principale stizzito. Gli premeva di leggere; andò al copialettere, e lesse. Ma una nube gli passò sopra gli occhi, mentre leggeva; nube di mestizia e di sgomento, brutta nube, insomma, come son tutte le nubi morali, non mai pittoresche, sempre gravi ed uggiose.

In quella lettera il signor Demetrio, riferendosi alla commissione poco lieta del conte Sferralancia, rispondeva asciutto alla domanda del genero. Non si perdeva in condoglianze pei gravi danni che aveva patiti quell’altro; non dava buone parole, non lasciava sperar buoni fatti. «Mi rincresce dei vostri fastidii; ma io non ne sono la cagione, se non forse per troppa bontà di cuore, avendo dato in dote alla mia figliuola assai più che non permettessero le mie condizioni di fortuna. Fare dell’altro mi è ormai impossibile. Denari ad imprestito, sul poco che possiedo in terre, non ne prendo e non ne prenderò mai; gli eredi miei troveranno intatto ciò che io ho guadagnato col mio serio e continuato lavoro, assicurandolo dalle variazioni della sorte. Il mio negozio, poi, non mi permette di far sacrifizi, che per primo effetto avrebbero quello di togliergli il credito.» Questa la parte essenziale della lettera, a cui seguiva un «caramente salutandovi» che stava a mezz’aria tra la contraddizione e la canzonatura.

— Ebbene, che te ne pare? — brontolò il si-