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chi teme di cascare; le precauzioni non sono mai troppe. Difatti, vedete qua: si era a mezza strada, come diceva lui; quando si fu alle porte coi sassi, venne una lettera di Fulvia, che con accorti giri e rigiri di frase, in aria di consigliarsi col babbo, indicava come padrino probabile il conte Sferralancia.

Gli Sferralancia avevano cooperato alla felicità di Fulvia, e meritavano certamente un riguardo. Il signor Momino, in una recente sua lettera, si era quasi offerto per quell’ufficio, sempre costoso, sempre noioso. Che cosa ne pensava il babbo, ch’era uomo di buon consiglio? Quanto a lei, non sapeva risolversi; e il suo Tili neanche. Certo, se il nuovo rampollo era un maschio, ella non contava di chiamarlo Momino. Al nome, del resto, si poteva provvedere con un ritorno alle vecchie usanze di famiglia. C'era nella casata Spilamberti il costume di alternare i nomi di Lamberto e di Guido; altra prova indiretta delle origini imperiali, poichè Guido di Spoleto era stato il padre di Lamberto. Nella generazione presente il nome di Guido non appariva, ma solamente per un caso disgraziato. Si chiamava Guido per l’appunto il fratello maggiore di Tili; ma quel Guido era morto in assai giovane età, pochi anni dopo la nascita di Attilio. Non era il caso di ristabilire la tradizione, chiamando Guido il suo secondogenito? Vedesse lui, del resto, giudicasse lui; alla decisione del babbo venerato si sarebbero attenuti Fuli e Tili, come al responso di un oracolo.

L’oracolo diede il responso in una brevissima epistola, degna d’essere tramandata alla posterità come saggio di quello stile conciso, tra il commerciale e il familiare, che contraddistingueva l’arte letteraria del personaggio.

 «Amatisima figlia,

«Rispondendo a grata tua del 12 andante, godo delle buone notizie che mi dài della tua preziosa salute, e faccio voti per il felice esito a