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avrà più munizioni, caricherà le sue colubrine coi sassi. —

Fatto questo ragionamento, e non avendo più altro da dire, il signor Demetrio Bertòla si raggomitolò nel suo angolo, e attaccò un pisolo che doveva accompagnarlo fino a Civitavecchia. Era il primo, ci s’intende, e ne lasciava sperare degli altri, per tutto il rimanente del suo lungo viaggio.

XII.

I tributi augurali alle acque di Roma avevano poca efficacia, o forse era da credere che dovessero operare a lungo termine. Per tutto quell’anno, a buon conto, il signor Demetrio non si mosse più dal suo Mercurano. Un assiduo carteggio lo teneva per altro in relazioni costanti con Roma. La sua Fulvia gli scriveva spessissimo, e le lettere di quella cara figliuola, oltre all’essere più ricche di notizie, erano più affettuose che mai. Era madre, la contessa Fulvia, e la maternità rende le donne espansive, tenere, immaginose, eloquenti. S’intende che tutte le notizie della contessa si aggiravano intorno ad un tema; non risguardavano che il suo Lamberto, un amore di bambino, che cresceva ogni giorno in bellezza, e mostrava poi un giudizio, un giudizio di gran lunga superiore all’età. — Sì, sì, — diceva il signor Demetrio, interrompendo la lettura, per far le sue chiose, — un giudizio da dar dei punti al suo babbo. —

Ma sì, fuori di celia, quel piccolo Lamberto sarebbe diventato un portento. A sei mesi d’età bisognava sentirlo: diceva già «ba ba, ma ma»; a otto spiccava già «bombo» e «nene», appropriando quelle due voci alle cose, secondo che volesse il bicchiere dello sciroppo rosato, o la poppa. Logico precoce, quando era sazio del