La figlia del re (Barrili)/V
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V.
Assai prima che si facessero tutti quei discorsi tra il signor Demetrio Bertòla e quello stintignoso del suo segretario, la signorina Fulvia aveva incominciato ad offrire argomento di chiacchiere molte, di induzioni e di congetture, di disegni e d’almanacchi alle famiglie del paese. Già il suo arrivo aveva destata la curiosità di Mercurano, maschile e femminile; tutti si erano procurato il piacere di vederla, di studiarla, di spicciolarne le bellezze, le virtù, le doti naturali dell'ingegno, le cognizioni acquistate. Gli uomini la decantavano come l'ottava maraviglia; le donne non andavano fin là con le ammirazioni, ma concedevano pur molto, e sottosopra confermavano il giudizio degli uomini. Come bellezza non era una dea, da mandare in visibilio; ma certo era tanto carina. Virtuosa e buona doveva essere, come figliuola di ottima gente, e senza dubbio avrebbe fatto onore alla memoria della signora Giuditta. Quanto all’ingegno, chi poteva starne mallevadore, a Mercurano? Piuttosto, a giudicarne così grossamente, si sarebbe potuto argomentare che dalla madre sua, una buona posta di donna, e dal suo babbo, un buon diavolaccio, non fosse potuta nascere un’aquila. Tutto ciò che quella ragazza sapeva, tutto ciò che si diceva delle sue cognizioni, era certamente il frutto degli studi fatti con gran diligenza e assiduità in sette anni di conservatorio. In sette anni s’imparano molte cose, quando si ha voglia, quando maestri e maestre sian sempre lì a battere il chiodo. Perciò, senza arrischiare il giudizio circa l’ingegno, si ammetteva volentieri un buon frutto degli studi; e ce n’era sempre abbastanza per collocare la signorina Bertòla in alto, molto in alto, nella pubblica estimazione.
Ed ora che dal collegio era tornata a casa, che fine avrebbe fatto? Una ragazza non può starsene mica a spulciare il gatto; specie quando è piacente, ricca, virtuosa, di buona famiglia, e fornita di un’ottima educazione, che certamente non guasta mai. Bisognava dunque trovarle un marito; ma dove? In paese, a passar tutti i giovinotti in rassegna, non se ne trovava uno che pubblica voce potesse assegnare a quel fior di ragazza.
A Mercurano, come avviene in tutti i piccoli paesi e qualche volta anche nei grandi, era la pubblica voce quella che faceva e disfaceva i matrimonii, prima che li avessero a fare e a disfare le persone direttamente interessate nel negozio. Quella ragazza andrebbe bene al tal giovanotto; dunque la cosa si può fare, si farà, sarà fatta. Quel giovanotto sarebbe la man di Dio per quella famiglia, che scarseggia d’uomini, e il cui capo non ha testa da farla prosperare: dunque sia lui il prescelto; fuori di lui non c’è via di salute.
Ma per quella ragazza così ricca e tanto signorilmente educata, non c’era lì per lì il giovanotto da mettere in mostra, il partito adatto che la pubblica voce potesse favorire. Neanche il figlio del sindaco era fatto per lei, quantunque si sapesse che quanto a beni stabili il signor sindaco poteva rivaleggiare col signor Demetrio Bertòla; il quale, dopo tutto, non era neanche consigliere comunale. A farlo a posta, quel benedetto ragazzo, con trecento e più mila lire che poteva ereditare dal babbo, non aveva mai voluto studiare. Avviato al ginnasio, e perciò mantenuto parecchi anni a Parma, non era riuscito a passare dalla terza alla quarta; sicchè dopo tre prove infelici il signor sindaco si era dovuto rassegnare a ripigliarsi il figliuolo, così ignorante come lo aveva mandato, lasciando che facesse a Mercurano la bell’arte di Michelaccio, andando a caccia ogni mattina, e passando ogni giorno parecchie ore sulla piazza Vittorio Emanuele a giuocare al pallone di guttaperca; occupazione gradevolissima per lui, nella quale era passato maestro; tanto è vero che ogni uomo nasce con le sue disposizioni naturali, e tutto sta nel saperle trovare, per coltivarle e promuoverle. Per altro, l'essere un gran giuocatore di pallone non era una raccomandazione sufficiente per aspirare alla mano della signorina Bertòla. E di questo era persuaso anche il nostro giovinotto; lo sapeva anzi così bene, che non gli avveniva mai di voltarsi ad occhi alzati dalla parte del Bottegone, quando stava alla battuta per fare le sue maravigliose volate, nè di guardar mai ad una certa finestra, fra la statua di Dante e quella di Michelangelo, quando tornava dinoccolato e noncurante in atto, alla guisa di tutti i trionfatori, dall’estremo confine della rimessa.
Non c’era dunque nessun partito da regalare alla signorina Bertòla; e i buoni ma curiosi, impazienti ed infelici abitanti di Mercurano, stavano almanaccando inutilmente, aspettando ancor essi la manna dal cielo. Alla possibilità che la sposasse il segretario del Bottegone non ci pensava nessuno, nè uomo nè donna: il che potrà parere straordinario, sapendosi che le donne, in queste faccende, sogliono vedere più oltre, tanto da intendere che una bella presenza può valere in certi casi ricchezza e condizione sociale. Ora per le donne di Mercurano, più usate degli uomini a bazzicare nel Bottegone, il signor Virginio era un bel giovinotto, e garbato e intelligente a quel dio. Pure, a lui non avevano pensato, non immaginando che il signor Demetrio potesse mai accogliere in mente il disegno di dare la sua figlia unica, sicura erede di un grosso patrimonio, al suo segretario, al suo primo commesso, ch’egli aveva un giorno accettato per grazia come suo galoppino. Certo, quel galoppino aveva fatto molta strada e in breve spazio di tempo: ma la distanza tra lui e il suo principale era ancor troppa; nè mai, per rispetto alle sostanze, si sarebbe potuto accorciarla. E finalmente, bel guadagno sarebbe stato quello per il signor Demetrio! A qual pro’ avrebbe egli fatto dare alla sua unica erede una così fiorita educazione?
— Vedrete, vedrete; — diceva qualche donna più accorta; — verrà un giorno o l’altro il bel forestiero che se la porterà via quando meno ci penseremo. Il signor Demetrio ha tanti corrispondenti, per ragione di tutti i generi del sua commercio! Qualche figlio di mercante, o da Milano o da Genova, verrà a visitare l’amico, il corrispondente del padre, e allora si potrà dire affar fatto. —
Quasi per dar ragione all’accorta ragionatrice, ne era capitato uno sui principii della primavera; un giovinottone, balioso, ardito, elegante, che pareva proprio l’uomo per la quale. Ma si era fermato a mala pena due giorni, e non era più ritornato, e non si era più sentito parlare di lui. Bisognò, dopo un par di mesi, rinunziare a quello ed aspettarne un altro. Ma quell’altro non compariva, e l’estate era sopraggiunta, senza l’ombra di un candidato.
L’estate portava bensì i villeggianti, allegra turba di scioperanti. Ma quelli non entravano in relazione col signor Demetrio, che al Bottegone non istava quasi mai; e qualche compera fatta là dentro non poteva dare appiglio a congetture ragionevoli. Tra tutti quei villeggianti erano venuti anche, secondo il solito, i conti di Sferralancia; e donna Fulvia, l’altiera dama, ancor bella e pomposa nel rigoglio delle sue trentasette primavere (quelle che voleva accusare, s’intende) uscita una domenica dalla chiesa di San Zenone, dove aveva ascoltata la messa grande, era andata a dare una capatina al Bottegone, fermandosi là una ventina di minuti.
Donna Fulvia era la madrina della fanciulla di casa Bertòla, e ciò poteva spiegare il fatto di quella visita. Ma nessuno aveva mai veduto, per anni ed anni, la contessa Sferralancia metter piede là dentro. Certo, quella era stata una gran degnazione, di andare a veder la figlioccia; ma era anche facile di trovarne una ragione più naturale nella curiosità della contessa, che, per essere una gran dama, non tralasciava d’essere una figlia d’Eva. Anche a lei le persone di servizio avevano parlato sicuramente di quella ottava maraviglia che era tornata a casa Bertòla dal collegio di Lodi; e donna Fulvia, che in altri tempi s’era dimenticata perfino d’aver tenuta quella ragazza a battesimo, derogava una volta tanto alle sue consuetudini nobilesche, andando a vedere anch’essa il «fenomeno vivente» del Bottegone.
Quella visita fatta di domenica, nel cospetto dei popoli, aveva dato il tema a molte e svariate conversazioni. Si capiva che per una buona parte c’entrasse la curiosità di donna Fulvia, dopo aver sentito ragionar tanto della signorina Bertòla, così carina e nobilmente educata, fin troppo nobilmente, nel collegio di Lodi. Si pensava che la sostanza, molto rotonda oramai, del signor Demetrio suo padre, rendesse più umana e maneggevole la contessa Sferralancia. Chi non le intende, queste cose? Non si ha bisogno del denaro di nessuno; ma ai ricchi ci si accosta volentieri, o con meno diffidenza, che negli effetti è tutt’uno. Si è sicuri, infatti, di non aversi a sentir domandare un migliaio di lire in imprestito, nè una firma di favore, nè una sicurtà, nè altro servizio consimile. Quando siete ricchi, tutti vi cercano, tutti vi fanno cera, vi aprono l’uscio di casa a due battenti.
Ma no, adagio coll’uscio aperto, nel caso particolare dei signori Sferralancia. Si era osservato benissimo che sulla soglia della cartoleria, dove la signorina Bertòla era venuta ad accompagnare donna Fulvia, questa aveva baciata la fanciulla su tutt’e due le guance; altra degnazione di gran dama, e singolarissima, notata prontamente nei fasti del paese. Ma era egli da correr le poste, immaginando che la signorina Bertòla sarebbe stata invitata al castello?
— Quel bacio non significa nulla; — avevano sentenziato le signorine Cometti, le due antiche vestali, sacerdotesse e giudichesse del paese. — Che altro doveva fare donna Fulvia, congedandosi? Quella ragazza è sua figlioccia; non lo dimentichiamo noi, poichè la contessa Sferralancia ha voluto ricordarsene, a vent'anni dal fatto.
— Vent'anni! Non sono già tanti; — notava un’amica. — Dovrebbero essere diciassette appena.
— Eh via! mettiamoci pure quelli del baliatico e delle scarpettine rosse; — ribattè la signorina Arpalice, la maggiore delle Cometti. — La questione, del resto, non è qui. Dicevate che la Bertòla sarà invitata al castello. Castello o bicocca che sia, o solamente palazzo di campagna, io non credo che donna Fulvia sia per derogare fino a questo punto. Una Sferralancia, pensateci, una Sferralancia! Sì, capisco quel che mi volete dire; — soggiungeva la terribile zitellona, rispondendo ad una obiezione che non le era stata fatta, e neanche accennata col gesto; — so bene che donna Fulvia si dovrebbe ricordare di non discendere neppur lei da Carlo Quinto. Era una Paganuzzi di Ferrara, e sua madre era stata in sua gioventù non rammento più bene se ballerina o cantante. —
Così la signorina Arpalice Cometti, da vecchia maestra nell’arte, dava un colpo al cerchio e l’altro alla botte. Ma, pur facendo ridere le amiche sue alle spalle dei Bertòla e degli Sferralancia ad un tempo, non veniva a capo di trasfondere in tutti gli animi la sua certezza intorno a ciò che donna Fulvia avrebbe fatto o non fatto. E ne era poi così certa ella stessa? Donna Fulvia poteva aver benissimo perduta la testa, e derogare in quel caso come in tanti e tanti altri della sua fortunata e fortunosa esistenza.
A buon conto le signorine Cometti e le amiche loro, nè queste soltanto, ma tutte le curiose maggiorenti di Mercurano che avevano veduta la Sferralancia al Bottegone, o ne avevaao sentito raccontare, ordinarono un assiduo e diligente servizio di polizia intorno al Castello, com’era chiamato il soggiorno estivo dei signori Sferralancia, non senza noia della signorina Arpalice Cometti, che non voleva vederci niente più d’un palazzo di campagna. Si voleva sapere se la signorina Bertòla ci andasse; e quando e come ci fosse accolta; e come e quanto ci si fosse trattenuta, se a pranzo, o solo per visita di mattina, o per passarci la serata, e magari l’intiera giornata. Inutile fatica: passò una settimana, senza che la signorina Bertòla andasse al castello; e ne passò un’altra, senza dare maggior resultato alle osservazioni, agli appostamenti, alle indagini. Ma perchè diremo noi inutile fatica? Era stata anche utilissima, poichè aveva messo in chiaro il carattere puramente superficiale d’una visita, o piuttosto d’una fermata di donna Fulvia al Bottegone. Qui si pareva il senno, qui trionfava la perspicacia delle signorine Cometti. Discendesse o non discendesse da Carlo Quinto, la Sferralancia era una gran dama, e non derogava in quel punto alle nobili costumanze del casato. Poteva salutare passando una borghesuccia che aveva tenuta a battesimo; ma non era il caso che andasse più in là. Invitare la signorina in casa sua! Altro ci voleva, ben altro.
Qui poi le signorine Cometti, sia detto con loro buona pace, tiravano sassi in colombaia. Se non era ammessa la signorina Bertòla in casa Sferralancia, c’erano forse ammesse loro vecchie vestali, sacerdotesse e giudichesse di Mercurano?
Ma lasciamo stare le signorine Cometti, e non ci occupiamo più oltre dei loro discorsi agrodolci. Non era stata invitata la signorina Bertòla al castello Sferralancia; non si era più veduta capitare al Bottegone, dopo quella prima ed unica visita, la contessa Fulvia, gran dama e madrina: tanto peggio, o tanto meglio, secondo i gusti e gli umori. Per contro, si affollavano in piazza Vittorio Emanuele, aliavano e ronzavano intorno al Bottegone, i villeggianti del sesso maschile, calabroni, farfalloni, e cavalocchi di tutti i dintorni a due o tre miglia di giro. Gli uomini, si sa, son cacciatori; anche quando discendono da Carlo Quinto, o giù di lì, non partecipano a tante fisime delle loro nobilissime madri, mogli, sorelle e via discorrendo. Una bella ragazza è una bella ragazza agli occhi di Carlo Quinto, come a quelli dell’ultimo fra i borghesi di Gand; e Fulvia Bertòla era un fior di ragazza, uno splendore, un occhio di sole, per tutti i vagheggini, nativi e residenti, stabili e temporanei, di Mercurano e del suo mandamento.
La domenica, quando la fanciulla andava ia chiesa e ne usciva, attraversando sempre la piazza Vittorio Emanuele così lunga com’era, si formavano sempre due ali d’onore sul passaggio di lei. E si può dire, sempre col debito rispetto alla religione di quei popoli, che dopo il ritorno di Fulvia Bertòla dal collegio di Lodi, la divozione a Mercurano fosse notabilmente cresciuta, vedendosi in chiesa, alla messa cantata e a qualcheduna delle messe piane, ai vespri, alle benedizioni, un maggior numero di persone del sesso maschile, specie di giovani, che san Zenone non aveva prima d’allora mai visti nè conosciuti. Figuratevi che ne calavano perfino dai monti e dai poggi, come nei tre giorni della gran fiera, di luglio. Ed erano villeggianti autentici, nel maggior numero, cittadini e non terrazzani di quelle parti, riconoscibili dalla cravatta all’ultima moda, dai colletti insaldati, dai ciondoli dell’orologio, che facevano spicco sul pannolano della giacca, o sul fustagno della cacciatora, che molti indossavano per vezzo campagnuolo, ma facendo ben sentire in tutto l’altro la loro qualità signorile.
Le occhiate andavano a lei, sotto la gran navata della chiesa, o lungo le due siepi di curiosi sulla piazza; andavano a lei, volendo essere occhiate assassine. Ma niente facevano, poichè ella non vedeva niente intorno a sè, tutta intenta com’era in chiesa al suo libriccino di preghiere, in istrada ai suoi passi con le lunghe ciglia calate sugli occhi, non rispondendo che monosillabi, sommessamente, ai rumorosi discorsi del babbo.
«Sì, da bravi, ammiratela» pareva dire il signor Demetrio alla gente; «questa è la perla, il diamante legato in oro della casa Bertòla.» Ma la fanciulla non secondava con gli atti quelle sparate del babbo. «Per carità, non badate» pareva dir lei a sua volta; «che cosa sono io per voi altri? una povera figliuola, molto modesta, che non vede l’ora d’essere a casa.»
E non guardava, e non pareva veder nessuno, mentre passava così,
sentendosi laudare,
Benignamente d’umiltà vestuta
come Dante Alighieri, nella sua età giovanile, stando a crocchio cogli amici suoi Guido Cavalcanti e Lapo Gianni, ebbe a vedere la bellissima Portinari, uscente dal tempio di Santa Reparata. Ma non abbondavano i poeti a Mercurano, nè i sottili intenditori; e quell’altra Beatrice doveva pareva a certuni superba, a certi altri timida, e chi sa? fors’anche ai più maligni un po’ vana, un po’ sciocca.
Ma tutti seguitavano a far siepe, ala d’onore sul passaggio di lei. E non mancavano gli audaci, per andare più in là. Cacciatori ostinati, vedendo fuggire a quel modo la selvaggina e burlarsi delle loro armi di precisione, andavano ad appostarla presso il suo covo. Si era presto scoperto che delle sette stanze in cui si scompartiva il Bottegone due erano più frequentemente onorate della presenza di lei, la stanza delle pannine e quell’altra della cartoleria. Nelle pannine non si offriva agli uomini così facilmente un buon pretesto di entrare: nella cartoleria le occasioni abbondavano. E là, indovinata l’ora, con una ragione o con l’altra, si andava, sicuri di trovarla, o di vederla almeno alla sfuggita, dal vano del passaggio interno che metteva nel salottino attiguo.
Che noia per Virginio Lorini, quando gli venivano a quel modo sull’orma di Fulvia! E come ne indovinava gli accorgimenti, quando, serviti a puntino e con molta precisione da lui, tiravano le cose in lungo a bella posta, dell’una non mostrandosi contenti e dell’altra nemmeno, facendosi venir esempre nuovi desiderii, manifestando sempre nuove curiosità, pur di restare in attesa dell’apparizione di Fulvia!
— Son qua i cacciatori! — diceva egli fra sè. — Aspettate, sì, aspettate; verrà.... anche troppo presto verrà. —
Era felice quando Fulvia indugiava a discendere; felicissimo quando non scendeva affatto, e i suoi aspettatori dovevano appiccar la voglia all’arpione. Virginio si scopriva allora delle brutte pieghe nel fondo dell’anima, delle malignità nascoste, delle cattiverie ignorate. E se ne crucciava allora, e domandava a sè stesso se quello fosse proprio il modo di fare.
— Infine, — pensava egli, — che cos’è questo temer sempre, questo soffrire di tutto, questo torturarsi il cuore per la sciocchezza di questi vagheggini? Fulvia non vede e non cura; che cosa ne può lei, se sono tanto noiosi? E se sono tali, perchè sarò io tanto maligno e cattivo da godere delle loro disgrazie? Che guadagno ci faccio, alla stretta dei conti? —
Due di quei cacciatori molesti erano stati più fortunati degli altri, la mattina di un lunedì. E la cosa si capiva facilmente, perchè uno di essi aveva già un po’ d’entratura essendo egli un Paganuzzi di Modena; cugino di donna Fulvia, la quale era appunto accompagnata con lui quando aveva fatta al Bottegone la sua unica e breve fermata per salutare la figlioccia. E questa non se n’era andata, vedendo comparire i due avventori, uno dei quali le era noto oramai; rispondendo al suo saluto era rimasta a discorrere con lui, mentre l’altro, fatto per consenso l’inchino di prammatica, si accostava al banco per chiedere un taccuino.
Era un giovine alto e ben formato, dall’aspetto signorile, disinvolto nei modi, padrone di sè, con una propensione manifesta a credersi padrone degli altri, come e fin dove gli altri fossero disposti a concedere. Il volto aveva certamente bellissimo, se non al tutto simpatico, potendo forse spiacere a prima vista la mobilità luminosa, troppo luminosa, di due grandi occhi neri, che prendevano maggior risalto dalla carnagione bianchissima, come questa da due baffettini morbidi e lunghi che ripiegandosi arditamente in su verso le guance nereggiavano con riflessi quasi turchini su due labbri rosati, non tumido l’inferiore, ma volentieri sporgente in atto abbastanza superbo, sottile il superiore e facile a contrarsi in espressione sarcastica. Così almeno si sarebbe potuto credere, osservando il suo sorriso: ma forse non era che un vezzo. Il giovanotto aveva bei denti, e sicuramente non gli dispiaceva mostrarli.
Udendo la figliuola discorrere con uno dei due avventori, il signor Demetrio si era levato dal suo canapè, per affacciarsi sulla soglia del salottino, donde aveva presto riconosciuto il marchese Paganuzzi. Erano marchesi, i Paganuzzi? Sì e no; certamente si lasciavano dare quel titolo. E il signor Demetrio non aveva tralasciato di affibbiarlo al cugino di donna Fulvia, nell’atto di avanzarsi per chieder notizie della nobilissima dama, sua bella ed illustre comare.
Quell’altro, frattanto, aveva già veduto una mezza dozzina di taccuini. Ma erano tutti rigati, ed egli non li voleva rigati. Virginio andò a rovistare in una scatola, e gliene trovò uno che parve contentarlo, quantunque fosse più semplice nella rilegatura, con la sua copertina di tela greggia, anzichè di marocchino filettato d’oro, come erano tutti gli altri già da lui osservati e rifiutati.
— Questo mi va; — diss’egli; — è suppergiù quello che cercavo, da prender note e da segnarci magari qualche contorno a matita. E carta da disegno, per caso, ne avrebbero?
— Sicuramente, — disse il signor Demetrio, che s’era fatto avanti per far conoscenza col compagno del marchese Paganuzzi. — Qua dentro abbiamo di tutto.
— Caspita! — mormorò l'avventore, inarcando le ciglia, e dando la sua crespa leggermente sarcastica al labbro superiore. — Mi congratulo con lei. Ma non sarà forse un dir troppo?
— Provi a domandare, signor mio; — replicò il signor Demetrio; — c’è di tutto.
— In materia di cartoleria, capisco; — disse l'altro, abbassando le ali e facendo un risolino di condiscendenza.
— E d’altro ancora; — ribattè il signor Demetrio. — Le ho detto di provare.
— Conte mio, — disse allora il Paganuzzi, tralasciando di parlare con la signorina Fulvia; — non essere uomo di poca fede, qui dentro. La fama del Bottegone è stabilita da un pezzo. C’è proprio di tutto, come a Parigi nei magazzini del Louvre. —
Quell’altro sorrise ancora, sempre più gentilmente, disposto a darsi per vinto al primo assalto, ma pur volendo tentare la prova per l’onore delle armi.
— Anche guanti? — rispose egli. — Ne sono per l’appunto sprovvisto. —
Il signor Demetrio si morse le labbra. Egli aveva forse abusato della sua frase favorita, buona sì per il popolo minuto di Mercurano, ma non per i signori che venivano dalle grandi città. Guanti! Sicuro, ci dovevano essere anche dei guanti, nel Bottegone; ce n’erano stati in altri tempi, e qualche paio ne doveva pur rimanere in certe scatole, non più toccate da un pezzo. Bisognava trovarle; e il signor Demetrio, così fuori d’esercizio com’era, non sapeva dove fossero andate a rintanarsi. Ma poi, se anche si fossero trovate, ci poteva essere roba da presentare al compagno del marchese Paganuzzi? ad un conte, come costui lo aveva chiamato poc’anzi! Pelli sfiorite, ahimè; gialle, incartapecorite, da mandarle in pezzi, solo a ficcarci le dita.
Mentre così pensava il signor Demetrio, maledicendo la sua lingua che era corsa un po’ troppo, Virginio era andato nella stanza vicina e ne ritornava con tre o quattro scatole di cartone, tenute alte fra le palme delle sue mani delicate e nervose.
— Veda un po’, signor mio, se qualche cosa le serve; — diss’egli, disponendo le scatole sul banco e aprendole l’una dopo l’altra sotto gli occhi del nobile avventore.
Il signor Demetrio allungò il muso per guardare a sua volta, e vide manipoli, fasci, cataste di guanti d’ogni colore, d’ogni sfumatura di colore, freschi, fiammanti, nuovi di zecca, com’egli avrebbe detto volentieri, anzi nuovi di fabbrica. Veduto quel tesoro, il signor Demetrio rialzò la fronte, e guardò con aria di trionfo l’avventore, quasi volesse dirgli: — Ebbene, signor mio, che gliene pare? C’è di tutto, nel Bottegone, ed io non parlo a caso. La prego di crederlo. —
Ma dentro di sè pensava di averla scampata bella.
— Questa è nuova, proprio nuova.... di zecca; — diss’egli a sè stesso. — Ma già, quel Virginio! quel Virginio è un ragazzo impagabile. Le pensa tutte, lui, le prevede tutte, non gliene sfugge nessuna. —
E ancora non aveva finito di meravigliarsi. C’era dell’altro, e non lo notava lui solamente, ma anche il nobile avventore, osservando che i guanti avevano le misure segnate a lettere alfabetiche e numeri progressivi, secondo il sistema Jouvin, il moderno e il più accetto sistema, che faceva impallidire tutti i sistemi anteriori, compreso il Copernicano e il Tolomaico. Il signor Demetrio notò con piacere che l’avventore aveva subito ritrovati i guanti adattati alla sua mano. «L, 14» che si fa celia? Come a dire sette e tre quarti; ma tutt’altra cosa, Dei immortali, tutt’altra cosa.
Anche la signorina Fulvia s’era avvicinata al banco, per dare una sbirciata alle scatole dei guanti. L’avventore non si lasciò sfuggir l’occasione di attaccar discorso con lei.
— Se la signorina volesse aiutarmi a calzarli.... — diss’egli a mezza voce e con un mezzo sorriso.
L’audacia era grande, e Virginio ne fu sdegnato, tanto che si pentì in cuor suo di aver dimostrato all’avventore che nel Bottegone c’era di tutto, anche dei guanti.
Ma non mostrò di sdegnarsi egualmente la signorina Fulvia, che molto probabilmente aveva indovinato il tono di celia e l’intenzione di entrare per quel modo in discorso con lei. Sorridendo a sua volta, la savia fanciulla placidamente rispose:
— Non saprei, signor mio; non ci ho pratica.
— Bisognerà che si contenti di me; — soggiunse Virginio, intromettendosi.
E presa la macchinetta dei fusi innestati a guisa di forbici, lavorò destramente a slargare l’un dopo l’altro i diti d’un guanto, poi la palma, e da ultimo ci scosse dentro il bossolo della polvere, che doveva rendere più scorrevole la pelle. Ma qui si fermò la sua collaborazione alla calzatura del guanto. L’avventore lo infilò prontamente da sè, rinunziando volentieri all’aiuto di Virginio Lorini.
— In verità, — diceva egli frattanto, volgendosi al suo compagno di passeggiata, — c’è di tutto in questo negozio, anzi diciamo in questo mondo; ed io faccio ammenda onorevole all’ottimo signor Bertòla. C’è proprio di tutto, e del meglio che si possa trovare. —
Il complimento non era così fine come la pelle dei guanti; ma non si poteva farne colpa all’avventore, che lo traeva per così dire dal nulla. Comunque fosse riuscito, era un omaggio; e come omaggio andava diritto, in compagnia d’una occhiata espressiva, alla signorina Fulvia, che non teneva più gli occhi tanto bassi, come faceva per via. Poteva guardare, di fatti, e sorridere per giunta, non solo al marchese Paganuzzi, che era il cugino della sua nobile madrina, ma ancora a quell’altro che chiamavano conte, ed era certamente un amico, un ospite dei signori Sferralancia.
Come ebbe fatte quelle piccole compre e pagato il suo conticino, il nobile avventore si dispose a partire coll’amico Paganuzzi, salutando la signorina Fulvia con un profondo inchino e con uno sguardo lungo, non isviato da lei se non quando gli fu necessario congedarsi dal signor Demetrio, a cui stese affabilmente la mano. Tutto felice e superbo di quel grande onore, il signor Demetrio accompagnò il nobile avventore sull’uscio del negozio, dove rimase a bocca aperta e con gli occhi raggianti, a guardarlo ancora un tratto in istrada.
Virginio era rimasto al suo posto, strette le labbra, gli occhi socchiusi, i pugni appoggiati al banco, dissimulando a fatica un senso di profonda amarezza. Aveva veduto lo sguardo del nobile avventore posarsi a lungo sulla signorina Fulvia, involgendola tutta quanta, non sapendo quasi spiccarsi da lei: aveva veduto la fanciulla restar lì, diritta ed immobile, punto confusa, in atto di restituirgli il saluto con una nobiltà di gesto che doveva essere naturalissima in lei, ma che egli notava allora per la prima volta, e che lo colpiva d’ingrata maraviglia, come fanno tutte le cose nuove, che non riusciamo tosto ad intendere: finalmente aveva veduto il signor Demetrio, uomo felice che non badava a nulla, che non andava al fondo di nulla, far tanta festa al nobile avventore, dopo aver quasi, in una stretta di mano, conchiuso un patto di tacita alleanza con lui. Tutte queste cose aveva veduto Virginio Lorini, nello spazio di pochi secondi, e una nube gli era passata sugli occhi; la solita nube che precorre ed annunzia le feroci tempeste.
— Molto garbato! — esclamò il signor Demetrio, ritornando finalmente dal suo osservatorio in bottega. — Dev’essere un pezzo grosso; e sono contento che gli abbiamo fatto vedere chi siamo. C’è di tutto, al Bottegone; c’è di tutto, come a Parigi. Confesso, per altro, di avere avuto una grossa paura. Non sapevo che avessimo ancora dei guanti presentabili; ed ecco, contro ogni mia aspettazione, li avevamo freschi, nuovi.... di fabbrica, e secondo l'ultimo sistema.
— Avete firmata voi l'ordinazione, signor Demetrio, e non più tardi di due mesi fa: — osservò modestamente Virginio.
— Ma tu l’avevi pensata: rendiamo giustizia a chi tocca: — rispose il signor Demetrio, battendogli amorevolmente la spalla con la mano gloriosa che aveva ricevuta poc’anzi la stretta dal nobile avventore. — Mi hai fatto fare una figuna stupenda, ragazzo mio; sono contento di te. —
Ahi, non era contento egualmente Virginio Lorini. E i giorni che seguirono ebbe modo di contentarsi anche meno. Il nobile avventore passava tutti i giorni, intorno a quell’ora, pel corso Garibaldi, o solo, o in compagnia d’altri signori. Virginio pensò che qualche volta fosse per entrare da capo, col pretesto di nuove compre; lo temette a dirittura il terzo giorno, poichè, mentre egli appariva dalla parte della piazza, la signorina Fulvia era discesa per l'appunto nel salottino. Lo aspettava, il molesto avventore, già lo sentiva venire: ma fu un falso allarme; il molesto avventore passò, con aria disinvolta, quasi non curante, guardando a mala pena, e probabilmente per caso, dalla parte del Bottegone.
Virginio incominciava già a respirare, quando il caso volle che egli facesse una dolorosa scoperta. Il figlio del sindaco, aiutando la bella stagione, seguitava le sue mirabili imprese col pallone di guttaperca: tutti i giorni, dalle tre dopo mezzogiorno fino alle cinque o alle sei, si giuocava disperatamente, sulla gran piazza Vittorio Emanuele, con un certo concorso di spettatori, più grande naturalmente nei giorni di festa, più piccolo, ma ancora notevole, nei giorni di lavoro. Virginio da un pezzo non si curava più di ciò che avveniva sulla piazza: l’età per lui era passata, di badare a giuochi e divertimenti di strada. Ma, un giorno, trovandosi a caso sulla soglia delle pannine, gli occhi suoi corsero al giuoco e alla fila degli spettatori. Il nobile avventore, quello dei guanti, era là, insieme con altri signori, intento alla partita e alle volate che andava facendo col suo pallone il figlio del sindaco.
Era la prima volta che quello dei guanti assisteva al giuoco? Virginio non poteva saperlo; ma bene indovinò che ne avesse il costume oramai, vedendolo là un altro giorno ed un altro ancora. Certamente era appassionato per il giuoco del pallone; un bel gioco, non c’è che dire, un nobile giuoco che ha ispirate alte e robuste canzoni a calorosi poeti, come il Chiabrera e il Leopardi. Il molesto personaggio aveva il suo posto prediletto, sempre a poca distanza dalla battuta. Pareva che restasse incantato ad ammirare la valentìa del battitore, qualunque si fosse, dell’avversario suo occupandosi poco, e niente del cordino, delle cacce, della guadagnata o del fallo.
Un sospetto passò per la mente di Virginio. Se gli occhi del personaggio guardavano sempre la battuta, non poteva darsi che ciò fosse per restar sempre rivolti alla facciata della casa Bertòla e pronti con un lieve batter di ciglia a sollevarsi d’una o due linee, fino all’altezza di una certa finestra, che si apriva tra le due statue di Dante e di Michelangelo?
Nato appena quel sospetto nell’anima sua, Virginio volle averne l’intiero. Si allontanò dalla invetriata, attraversò la stanza delle pannine e riuscito nell’andito salì prontamente la scala interna che metteva al primo piano della casa. L’uscio del quartierino era aperto, secondo il solito, non avendo i Bertòla nel loro stabile alcun pigionale. Entrò guardingo nell’anticamera e si affacciò all’ingresso del salotto buono, dove era il famoso pianoforte; ma non ebbe bisogno di entrare, poichè dalla breve apertura delle cortine di damasco gli venne veduta una gonna bianca nel vano della finestra vicina. Fulvia era là, accanto al davanzale: non occorreva ch’egli vedesse il busto e il capo della fanciulla per sincerarsene. E volle ritrarsi, così guardingo come si era avvicinato: ma lei aveva sentiti i passi nell’anticamera, e si muoveva per l’appunto a guardare verso l’uscio.
— Chi è? — domandò.
— Sono io, signorina Fulvia, non badi, ero venuto a cercare....
— Che cosa?
— Un mio portafoglio, che credevo di aver lasciato qui: ma ricordo ora di averlo deposto nella mia camera, nel cambiar la giacca. Vado a prenderlo: non voglia incomodarsi per me. —
Così dicendo, si avviò risoluto verso l’uscio. Ma lo sapeva bene, che la signorina Fulvia non si sarebbe incomodata per lui.
Quando fu di ritorno al pian terreno vide il nobile avventore che stava sempre al suo posto, di tanto in tanto lisciandosi i baffi, o torcendone le vette col sommo delle dita; gesto ben noto, che aiuta le guardate alte, senza riuscire a dissimularle del tutto.
Quel giorno il personaggio molesto era in compagnia del Paganuzzi; altre volte ci aveva qualchedun altro di giunta: ma, fossero due, o tre, o in maggior numero i nobili spettatori, il più molesto tra tutti usava sempre l’arte di trovarsi l’ultimo della fila, per aver occasione di discorrere stando voltato alla battuta, senza mai dar le spalle ai grand’uomini della casa Bertòla. Lisciandosi ed arricciandosi i baffi, guardava sempre lassù, a quella benedetta finestra. Il giuoco si capiva benissimo, perchè il giovanotto aveva gli occhi grandi e luminosi, e il bianco di quegli occhi, nel moto ascendente delle pupille, mandava sempre un lampo, come la superficie interna d’un guscio di madreperla, quando è messo di rincontro alla luce. Lampo magnetico doveva esser quello, e incatenare, inchiodare al davanzale la reduce aristocratica del collegio di Lodi.