La figlia del re (Barrili)/VI
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VI.
Chi era costui? che cosa faceva a Mercurano? contava di restarci a lungo? Virginio Lorini volle saperlo, saperlo ad ogni costo; e fu vile, nell’artifizio delle sue indagini, e non si vergognò punto di esser tale. Che vergogna, del resto? Sarebbe bisognato vergognarsi prima. Non aveva egli incominciato ad esser vile, spiando gli atti di Fulvia? riconoscendosi maligno e cattivo, senza pentirsene, senza averne il rossore alle guance? Oramai non era più tempo di scacciare i mali pensieri, l’acuto desiderio di andare in fondo delle cose. E trovò la via meno bella, ma più pronta e più sicura, facendo cantare i servi di casa Sferralancia, domestiche spie così facili a cantare; solleticò la vanità della cameriera, la semplicità del valletto e l’umor dispettoso del cuoco; ebbe l’arte di ascoltare, interrogando breve, quanto bastasse ad avviare per un verso o per un altro le confidenze di tutti quegli avventori mattutini del Bottegone; e seppe finalmente ogni cosa, seppe assai più che non gli premesse sapere.
Anzi tutto ebbe il riverito nome di quello dei guanti. Era il conte Attilio Spilamberti di San Cesario; gran nome sonoro e di antica nobiltà. Quel conte era modenese, come i Paganuzzi, donde nasceva donna Fulvia; ma viveva molta parte dell’anno a Bologna, dove anche gli Sferralancia passavano l’inverno, nell’antico palazzo del signor Momino, ultimo e fiacco rampollo della nobil casata. Il conte Spilamberti era dunque per gli Sferralancia una doppia conoscenza di Bologna e di Modena. Ricco? Sì e no; come tante famiglie nobili dei vecchi staterelli italiani, che dopo avere avuto i loro bei giorni sotto i piccoli governi e all’ombra delle piccole corti, sfiorivano qua e là, più o meno lentamente, secondo gli umori e i costumi dei loro ultimi rappresentanti, nella gran vita italiana; quali rimpiangendo gli antichi padroni ed aspettandone il ritorno dagli errori del partito nazionale o dai miracoli della provvidenza, sperata senza ragione ed invocata senza rischio, loro vendicatrice, ai danni della patria; quali adattandosi ai nuovi ordini, ma non uscendo dall’ozio antico, se non forse per gareggiare nelle costose passioni delle cacce e delle corse con le grosse fortune dell’aurea borghesia moderna. Si diceva che il conte Attilio avesse avuto anni prima una fiera passione per donna Fulvia, e donna Fulvia per lui. Se la cosa era vera, di quel fuoco non eran rimaste che ceneri. In casa Sferralancia, del resto, il conte Attilio seguitava a bazzicare come prima, senza smettere un punto dell'antica dimestichezza, senza prender ombra del dolce Possidonio Zocchi, un giovane avvocato tanto carino, che faceva allora le sue prime prove nel mondo. Il conte Spilamberti poteva avere un trent’anni, o poco meno: l’avvocato Zecchi ne aveva venticinque: donna Fulvia ne accusava trentasette, ma certo non aspettava più i quaranta. Cose queste da tenere in gran conto, non vi pare? I cuori, invecchiando, diventano sempre più teneri.
Che cosa ne pensava Momino? Momino, per verità non ne pensava nulla: pensava già così poco, il brav’uomo, che non gliene sarebbe rimasto, a volerlo, quanto sarebbe stato necessario a queste miserie della vita; le quali non debbono poi esser prese tanto sul serio; specie dagli uomini di dottrina. Momino era un dotto: in gioventù, veramente, s’era piuttosto occupato di cantanti e di ballerine, dando le sue cure intelligenti alle commissioni teatrali; ma in processo di tempo aveva smesso, volgendo a più alte cose la mira; e questo sia detto ad onor suo, molto prima che facesse le grinze la sua pelle bianca e rosata, e che si diradasse, sbiancando un pochino, la sua zazzeretta rossigna, ancora e sempre ravviata ed inanellata sulle tempia, per modo da ricoprire mezzo il padiglione degli orecchi. Così grinzoso e ricciuto, restava ancora un giovanotto, anzi un adolescente; tanto che si diceva sempre Momino, come ai bei tempi della sua puerizia, quando un grand’uomo, il Giordani, gli aveva paternamente accarezzata la guancia; donde gli era venuto il desiderio onesto dell’illustrarsi nelle lettere, e donde forse gli era piovuta a suo tempo la fama di corretto ed elegante scrittore, insieme col diritto di mutare la commissione teatrale della città natìa nella regia deputazione sopra gli studi di storia patria. Non è bene che le grandi famiglie si occupino delle grandi cose? e che col crescer degli anni crescano ancora le malleverie, nobilitandosi lo spirito nella scala ascendente dei pubblici uffizi?
Momino Sferralancia era giunto oramai all’apice delle grandezze: non gli restava che di mettere il suggello alla sua gloria. E ci lavorava, badate, ci lavorava a tutt’uomo; specie nei mesi di villeggiatura, che erano per lui i veri mesi del forte e proficuo lavoro. Da tre anni, per dirvi tutto, da tre anni spendeva le sue cure di erudito intorno ad un codice manoscritto, contenente i sermoni del padre Giovan Battista da Modena, un gran personaggio, che prima d'essere cappuccino era stato Alfonso III d'Este, e da Isabella di Savoia sua moglie aveva avuta la bellezza di quattordici figliuoli. Non erano tanti i sermoni del codice; ma al conte Momino parevano bastanti a stabilire la fama di Alfonso III come sacro oratore, e ad ogni modo la sua come scopritore fortunato e annotatore erudito del prezioso manoscritto; il quale, vedete capriccio di fortuna, era sfuggito all’attenzione del Muratori, del Tiraboschi, del Bacchini, dello Zaccaria, del Granelli. La immortalità era per tal modo assicurata a Momino: perchè avrebbe dovuto egli occuparsi di piccole cose? e come avrebbe potuto, volendolo?
Non era orgoglioso, alla maniera di tanti dotti, che si credono arche di scienza, e vogliono far sentire il loro peso ai profani. No, povero Momino; era tanto affabile, cortese, abbondante di buone parole con tutti, e quando gliene offrivate il destro, prontissimo a render servizio. Non di quattrini, intendiamoci: in punto quattrini era piuttosto taccagno, sebbene per una buona ragione, volendo egli con le sue rendite non troppo vistose bastare ai doveri di una larga ospitalità, che donna Fulvia sua moglie esercitava con tanta sapienza e con altrettanto buon gusto. Ma di consigli, ma di intercessioni, ma di buoni uffizi d’ogni genere, Momino era prodigo, come di gentilezze era liberale sua moglie.
Il grinzoso ricciutello non si era ancora lasciato vedere al Bottegone e neppure per le vie di Mercurano, dove ogni giorno usavano girandolare i suoi ospiti. La cosa non doveva parer poi straordinaria; non ci si poteva vedere una mancanza di cortesia verso il buon popolo di Mercurano in genere, nè verso la famiglia Bertòla in numero e caso. Momino Sferralancia era un dotto, dunque uno studioso; e gli studiosi non vanno giudicati alla stregua di tutti gli scioperati della civil compagnia. Momino era venuto quell’anno a Mercurano due settimane prima del solito, per gran desiderio e necessità di lavorare, premendogli di finire una buona volta la recensione del suo codice, che gli avrebbe assicurata la immortalità del nome, aggiungendo una nuova fronda di lauro alla gloria della stirpe.
Ma tutti i tempi vengono, chi abbia modo di aspettarli. E venne anche il tempo che il signor Momino capitasse in paese. Non crederemo già che il dotto gentiluomo avesse condotto a termine il suo immane lavoro; penseremo piuttosto che il soverchio dell’erudita fatica domandasse l'intervallo di un giorno di riposo e d’una boccata di aria libera. Comunque fosse di ciò, il dotto gentiluomo grinzoso e ricciutello fece la sua apparizione in paese, camminando a passettini corti e frettolosi, colla persona piegata graziosamente in due, come se fosse sempre in un salotto ed incurvasse il busto per dire una parolina amabile a qualche bracciuolo di sofà, oppure a qualche spalliera di poltrona.
— Ah! ch'io veda questo portento di figlioccia! — diss’egli al signor Demetrio Bertòla, dopo i convenevoli d’uso. — Come marito della madrina, posso dirmi padrino anch’io, non vi pare? Cara bambina, come vi siete fatta grande e bella! Sapete, sono già molti anni passati, che io non ho il piacere di vedervi.
— Ha ben ragione, signor conte; — entrò a dire il signor Demetrio. — È stata sette anni in collegio.
— Lo so, lo so, — riprese Momino, — dalle Dame Inglesi di Lodi. Un collegio riputatissimo. C’era anche la figliuola d’un mio mezzo parente e buon amico, il marchese Savignani.
— La mia Irene! — disse Fulvia, osando finalmente parlare, e infiammandosi tutta al ricordo. — Tanto cara e tanto savia! La migliore di tutte; sempre la prima in tutti gli studi.
— Ah sì? ho piacere, ho piacere; ne farò le mie congratulazioni al suo babbo, non senza ricordare la fonte delle mie informazioni. Accennare le fonti è un dovere. Anche voi, carina, sarete stata delle buone. Mi avete l’aria di saper molto.
— Italiano, francese, inglese, tedesco.... — enumerò il signor Demetrio, enfiando un pochettino la bocca ad ogni vocabolo che veniva aggiungendo. — Pianoforte, storia, geografia....
— Sì, so bene, e dell’altro ancora; — interruppe Momino, temperando l’atto con un amabil sorriso. — Queste care bambine oramai ne sanno più di noi, mio buon signor Demetrio. Ai nostri tempi, questa ricchezza, questa varietà d’insegnamenti non c’era. Basta, sarà per quando ritorneremo a nascere. Frattanto, bambina mia bella, ricevetemi qui come ambasciatore di casa Sferralancia e della sua graziosa padrona; in nome della quale ho a presentarvi scuse e rimostranze, profonde le prime, e le seconde non lievi. Incomincierò dalle scuse. Donna Fulvia è dolente di non esser passata più a salutare la sua cara figlioccia: ma in verità la colpa non è stata sua, bensì di un certo incomodo che l’ha tenuta parecchi giorni a letto.
— Ah! — gridò la figlioccia, che in verità non poteva fare a meno, ad un simile annunzio.
— Rassicuratevi, non è stato un gran male; — fu pronto a ripigliare il signor Momino. — Anzi, vedete, si son pregati gli amici che abbiamo al castello di non andarsene, come volevano fare per eccesso di cortesia. Nervi, che volete? i maledetti nervi. Siamo così fatti noi, povera stirpe di Adamo. Lo ha detto anche Giobbe: «ossibus et nervis compegisti me». È poi Giobbe che lo ha detto? Farò le opportune ricerche. Ed ora vengo alle rimostranze non lievi. Sapete, bambina bella, che la vostra madrina è in collera con voi, ma più col signor Demetrio suo compare, nella cui potestà vivete e che porta sicuramente la malleveria delle vostre opere ed omissioni? Questo caro babbo non vi ha ancora condotta al castello, alla bicocca degli Sferralancia, dove eravate e siete ancora desiderata; e ne siamo scontenti, ed abbiamo ragione di esserne scontenti, donna Fulvia ed io, non vi pare? —
Qui il signor Demetrio ebbe modo di sgonfiarsi, di far la ruota come un tacchino.
— Grazie, signor conte! un tale onore!... Ma per dir le cose come stanno, noi non si sapeva bene.... non ci pareva di ricordare che donna Fulvia ci avesse detto....
— S’intendeva, perbacco; — replicò il signor Momino. — La cosa andava da sè. Una figlioccia tanto carina.... il suo posto era là, accanto alla madrina, che ne è rimasta incantata, e non fa che parlare di lei! Vi si aspettava ogni giorno, vedete? Si diceva ogni giorno: sarà per quest’oggi; sicuramente li avremo a pranzo quest'oggi.
— Oh, questo, poi, sarebbe stato un abusare; — disse il signor Demetrio, muovendo per tutti i versi le spalle. — Ma anche per una visitina, che vuole? non si osava.... ecco, non si osava....
— Non osavate! Che discorsi son questi, signor Demetrio mio bello? Casa Sferralancia è forse un covo di fiere, da averne tanta paura? C’è un orso, veramente; — soggiungeva qui il signor Momino, col più amabile dei suoi sorrisetti e con un’altra piegatura data dalla sua smilza personcina; — ma voi converrete che per orso è abbastanza ben pettinato. —
Così dicendo il signor Momino fece ballare i ricciolini della sua zazzeretta, perplessa ancora tra il bianchiccio e il rossigno.
— Che dice ella mai? — balbettò il signor Demetrio. — Onorati... onoratissimi.... Verremo, poichè non Le dispiace.... Verremo, certamente, anche per congratularci con donna Fulvia del suo ristabilimento in salute.
— Bene, siamo dunque intesi. Vi annunzio per domani.
— Ma....
— Non c’è ma che tenga; per domani.
— Se almeno sapessimo a che ora riceve....
— In campagna, caro mio, a tutte l’ore. Ma sia come volete, e fissiamo anche l’ora. Dalle dieci alle undici del mattino, se ci onorate per tutta la giornata. La colazione, per vostra norma, si fa a mezzogiorno. Dalle due alle tre, se non potete darci che mezza giornata. In ogni modo, badate, vi vogliamo fino a sera. La mia Fulvia ha tanto desiderio di ragionare a lungo con la vostra! Quanto a noi, caro signor Demetrio, discorreremo di cose gravi, di commercio, di economia politica, di agricoltura. Avete molta terra al sole anche voi, e in agronomia dovete esser forte. Io pur troppo, non ne ho che una tintura.
— Ed io, signor conte! ed io neppur quella. Ma si farà quel che si potrà.
— Domani dunque: dalle dieci alle undici?
— No, se permette, dalle due alle tre. La mattina è sempre così piena d’affari!
— E vanno bene, non è vero? vanno a gonfie vele? Beato voi, signor Demetrio, che avete indovinata la strada. Fatevi ricco, fatevi ricco; la ricchezza dei privati è ricchezza del pubblico, è prosperità dello Stato. E sia dunque per le due, come vorrete. Non mi fate aspettar troppo; vi verrò incontro, fino al cancello, per onorarvi come meritate.... e come merita questa bella figlioccia.
— Sì, sì, parli di lei, signor conte. Quanto a me, sarò sempre un assai povero personaggio. E in che arnese, poi!
— Che, che! Venite come siete ora, vi prego. In campagna, perbacco! C’è da stare sulle cerimonie, tra amici? Quanti anni son già che ci conosciamo, signor Demetrio! Ci vediamo di rado, ecco il guaio; ma le vecchie amicizie sono incrollabili, e non le distrugge che la morte. Dalla quale Iddio ci tenga lontani ancora cent’anni.
— «Amen!» — conchiuse il signor Demetrio, messo in confidenza da tanta bontà chiacchierina del conte.
Così prese congedo il signor Momino Sferralancia, non senza altre carezzevoli parole alla signorina Fulvia che era rimasta come inebriata dalla gran gentilezza del suo quasi padrino.
E Virginio frattanto? Virgimo udiva, ed era rimasto male. Dunque, ciò ch’egli aveva tanto temuto dentro, non osando neppure di confessarlo a sè stesso, avveniva? Fulvia al castello! Sì, ancora ventiquattr’ore di attesa, e il fatto si sarebbe compiuto. Ma perchè temeva tanto, e di che? Il conte Spilamberti, quello dei guanti, quello delle lunghe fermate sulla piazza, era ospite in casa Sferralancia. Ebbene, che c’era egli da tremare? Non era quel conte un adoratore di donna Fulvia? Che pericolo c’era che quel nobil signore s’invaghisse davvero dell’altra Fulvia, di una borghesuccia modesta, e sotto gli occhi della gran dama? Al più, ci sarebbe stato un poco di galanteria; ma assai probabilmente neppure quel poco. Quegli occhi onniveggenti delle donne gelose, anche quando le donne vi han dato un successore nell’imperio del loro cuore, quegli occhi non vedono volentieri che si faccia la corte ad altre. In casa sua l'antica bella è donna e madonna; non soffre incensi ad altre divinità; non tollera ad altri indirizzi la ripetizione di un culto di cui ella ha avuto o creduto di avere le primizie. Queste cose Virginio le pensava più per averle lette, che non per averne esperienza: diciamo anzi che di esperienza non ne aveva affatto; ma appunto per questo temeva, appunto per questo tremava.
Passarono ventiquattr’ore, come passano tutte, le tristi e le liete, le cattive e le buone. Quelle di Virginio erano state ore d’agonia; eppure tanto brevi! Con infinita mestizia vide allontanarsi la dolce Fulvia, in compagnia del glorioso suo babbo tutto vestito a festa. Anche lei si vedeva contenta; ma certo, all’ultim’ora, un tantino impacciata. Era quello il suo primo ingresso nel mondo, e non si poteva pretendere una grande disinvoltura da lei; piuttosto bisognava perdonarle se più dell’usato si guardasse allo specchio, al grande specchio di quell’armadio di magógano, che abbelliva tanto la sua camera, e per gentile pensiero di Virginio Lorini. Simili novità non sarebbero passate mai per la testa del signor Demetrio Bertòla.
Che giornataccia fu quella, pel povero segretario del Bottegone! Andava e veniva di continuo, passeggiava da una stanza all’altra, nervoso, irrequieto, guardando ad ogni tanto l’orologio.
— Dove sarà ora? In giardino, ad ammirare i fiori e la piante rare; nel parco, a godersi l'ombra dei grandi alberi secolari. Ed ora? Sotto l’atrio, sui sedili di ferro colorato, o sui piccoli divani di maiolica con le pitture pompeiane dipinte sotto lo smalto. —
Virginio conosceva benissimo i luoghi, per esserci stato altre volte, durante l’assenza dei padroni, da povero visitatore curioso.
— Ed ora? A tavola, sicuramente; sono le sette ormai; non possono essere che a tavola. Dove l'avranno collocata? tra chi? Da una parte avrà il signor Momino, senza dubbio, il padrone di casa: ma dall’altra? —
Ah, il povero Virginio non poteva star fermo; andava di qua e di là, e si sentiva da per tutto sulle spine.
— Finalmente avrà avuto termine, questo pranzo maledetto. Ed ora? Un’altra passeggiata; c’è da scommettere. Lei sarà a fianco della sua madrina, vorrei ben dire. Ma che idea.... che idea, quella del signor Demetrio di far tener la sua bambina a battesimo dalla contessa Sferralancia! È così bello, nella vita, star tutti al nostro posto e contentarcene! Non è solamente bello; è anche nobile, conforme alla dignità del carattere, che tutti dobbiamo aver cara. Ma che pensieri son questi? Non giudico io ora il signor Demetrio, come se egli abbia commesso una debolezza, una viltà? Maledetto soffrire! E adesso, dove sarà? Nel salotto, al pianoforte. Figurarsi se non la voglion sentire, una così brava pianista! Come brillerà!... come l’applaudiranno!... Ma che? non la finiscono mai? Son già le nove; almeno ci manca poco, una ventina di minuti... e non pensano a ritornare? Pazienza: anche questa passerà. Anche questa! ma se è la prima, a farlo apposta! Ecco qua, son le nove; le nove e un quarto; le nove e mezzo, e niente ancora. Che vogliano trattenerli a dormire laggiù? Ma almeno dovrebbero mandare ad avvertire la gente. La gente! che importa la gente.... di servizio? Son due appena, i padroni di casa; tranquilli loro, non c’è da prendersi cura per gli altri. Ed ecco le dieci; ma che cos’è che non si fanno ancor vivi? Ah, i miei nobili signori, con le loro graziette, coi loro complimenti, con le loro istanze garbate, tanto garbate!... —
Ah, lode al cielo, un rumore dalla piazza. Ma erano anche già suonate le undici, all’orologio di San Zenone, le undici! Era stata lunga, la festa; ed era festoso il rumore della piazza, come di una numerosa comitiva che avesse ancor molto da dire prima di sciogliersi. Certo, il signor Demetrio, di cui si distingueva la voce in tutto quel cinguettìo, era stato accompagnato a casa da molti, amici nuovi, tenerissimi amici, che i suoi begli occhi gli avevano procacciati. Brav’uomo, cuor d’oro, il signor Demetrio; ma troppo semplice, troppo facile a credere, a sorbirsi ogni cosa. Pigliasse pure per buona moneta tutti quei fogli della banca dei complimenti; casa Sferralancia ne aveva da spacciare a migliaia. E non la finivano ancora; la fermata in piazza voleva durar dunque fino a mezzanotte? Virginio non ci poteva più reggere. Aveva mandata la gente di servizio ad aprir l’uscio di strada; il suo dovere era fatto; si ritirò al secondo piano, nella sua cameretta, a friggere nel suo guscio, come le chiocciole al fuoco.
Poco stante udì dalle scale la voce del signor Demetrio, voce allegra e perciò più rumorosa del solito.
— Dov’è Virginio? dove sei andato a rintanarti, bel mobile? Ohè, Virginio, dico a te; non ti si potrà dare la buona notte, prima di andare alla cuccia? —
Virginio fece di necessità virtù; lasciò la sua cameretta, per ritornare al primo piano, in salotto. Il signor Demetrio era là, con gli occhi lustri e le guance affocate. Ubbriaco? Non di vino, se mai: qualche bicchierino di più lo aveva certamente sorbito; ma non era quello il colpevole. Il signor Demetrio era ubbriaco di gioia, di felicità, di grandezze.
— Che cara gente! — diceva. — Come sono alla mano i signori, i veri signori! Amico mio, se torno a nascere, come dice il conte Momino, voglio fare il signore. Non ti puoi immaginare che bel mestiere sia quello; un mestiere da re, te l'assicuro io, un mestiere da papi. Si può esser ricchi, molto ricchi, non aver bisogno di pensare al domani nè al poi, e non si è ancora signori; ne ho fatto l’esperimento oggi, e posso già tener cattedra, come il più vecchio dei professori. A tavola, per esempio, si conosce il signore. Se tu sapessi come anche la tavola ti diventa piacevole, ragionando di certe cose, una più sciocca dell’altra! Noi parliamo d’affari, a tavola, tiriamo avanti le noie della nostra giornata, e ne facciamo il sale e il pepe, il condimento delle nostre pietanze. Abbiamo un gran torto; gli affari sono gli affari, e devono avere la loro ora, ma non più di quell’ora. Là, invece, fuorchè di affari, si parla di tutto; ed anche e soprattutto di niente; stringi stringi, e di quel che si è detto non ti resta tanto così nelle mani, o, per dire più esattamente, nell’anima. Ah, Virginio mio, e la serata? che serata magnifica! Fulvia è stata splendida, al pianoforte. Splendida capisci? Così almeno dicevano tutti, ed io non faccio che ripetere. Splendida! è anche una bella parola, e ti dice ogni cosa; pare che oggi serva anche per significare la valentìa di chi suona al pianoforte. Me la rammenterai, questa parola, non è vero? non vorrei dimenticarmene: è proprio nuova di zecca. —
Fulvia appariva tranquilla, sorridendo placidamente alle chiacchiere pazze del babbo. Si poteva credere che fosse molto felice; ma bisognava anche dire che sostenesse meglio di lui la felicità di quella grande giornata, e che sapesse contenerla con grazia, in quella guisa che un buon vaso di porcellana autentica, sottile come un tessuto di mussolina, custodisce il liquore senza che ne trapeli una goccia.
Il giorno seguente capitò ancora il sigmor Momino a salutare gli amici. Passava di là; buona occasione per fare una fermatina e chieder notizie. Il secondo giorno si fermò davanti al Bottegone una carrozza con tanto di livrea; ne scese donna Fulvia e fece anche lei la sua visita, ma molto più interessata che non fosse quella del signor Momino, e con più notevoli effetti; poichè la nobile signora, ottenuto il consenso del signor Demetrio, onorato, onoratissimo di tanta degnazione, si portò via la figlioccia e se la tenne parecchie ore al castello. D’allora in poi si seguirono i rapimenti con una regolarità che onorava molto il signor Demetrio, maravigliando il buon popolo di Mercurano, e facendo sospirare il povero Virginio, che da tutte quelle cortesie non si riprometteva niente di buono.
Oramai la fanciulla non era più di casa sua. Venivano a gran galoppo o al trotto allungato, e la portavano via, o per molto o per poco, o per pranzo al castello, o per una scarrozzata nei dintorni; sempre via, sempre via. Il signor Demetrio, onorato, onorassimo alle prime, incominciava a brontolare un pochino: ma era facile intendere che il brav’uomo facesse così per parere, e che dentro di sè gongolasse.
— Ecco qua, me la rubano sempre; — diceva; — Non possono stare senza la signorina Bertòla. Mi capirci, Virginio? La signorina Bertòla! se avessi avuto una sorella, ai miei tempi, si sarebbe detto la figlia di Zenone, la figlia del pizzicagnolo, nè più nè meno. Che cos’è mai la gloria della signoria, d’un po’ di terra al sole, e di rendita all’ombra! È vero che l’educazione della mia figliuola c’entra anche per la sua parte. Sa tante cose, quella diavola! e non isfigura certamente al paragone della sua nobilissima madrina. Ma io me l’ero allevata, me l’ero tirata su, educata, istruita per me, la mia figliuola, per consolazione della mia vecchiaia, e non per vedermela strappare da casa tutti i giorni che fa Dio. La signorina Bertòla di qua, la signorina Bertòla di là, e noi ci possiamo far de’ crocioni. Consoliamoci intanto, dicendo la signorina Bertòla; empie la bocca, se non ristora lo stomaco. —
Virginio si struggeva, senza darne segno di fuori. Uomo di molte parole non era mai stato; poteva dunque tacere, senza che il signor Demetrio facesse attenzione. E meno male che la società dei signori Sferralancia si era scemata di parecchi ospiti, nel corso di due settimane. C’era l’avvocatino, che andava e tornava, essendo più là che a Bologna: ma quello si capiva, era di servizio, e non doveva dar ombra a Virginio. Quello dei guanti, lode al cielo, non si vedeva più; partito una volta, non era più ritornato. Si poteva dunque credere che fosse stato un falso allarme? Forse; e Virginio, quantunque seccato da tutti quei rapimenti quotidiani di Fulvia, incominciava a ricogliere il fiato.
Ma una sera che babbo e figliuola erano ritornati dal castello, e la signorina Fulvia si era già ritirata nella sua camera, il signor Demetrio aveva invitato il suo segretario a scendere nel salottino del Bottegone; per dare un’occhiata ai libri, diceva lui, e per fare un po’ d’abbaco.
Quella era una novità inaudita: a quell’ora, poi, Virginio si sarebbe aspettato tutt’altro, magari che cascasse il mondo. Nondimeno, si adattò allo strano capriccio del suo principale; scese con lui, anzi prima di lui al pianterreno, e fu pronto ad accender la lampada.
— Ripassiamo i conti; — diss’egli. — Da dove volete cominciare?
— Lascia correre; — rispose il signor Demetrio, facendo una spallucciata; — ho detto così per dire. Volevo restare da solo a solo con te, in un luogo che nessuno ci potesse sentire, per parlarti d’una cosa che mi sta molto a cuore. Sai pure che non faccio niente senza di te. —
Il preludio era solenne. Virginio fece un gesto d’obbedienza, e stette muto, aspettando che quell'altro volesse entrare in materia.
— Vuoi sapere una gran novità? — incominciò il signor Demetrio. — Ma grande, sai, grandissima, portentosa. Te la dò da indovinare alle dieci; ma tu, bada, ci devi mettere tutta la tua inventiva.
— Voi sapete bene che non è il mio forte; — rispose umilmente Virginio, che incominciava a sudar freddo.
— S’ha da credere? — ribattè il signor Demetrio, mettendosi sul tono scherzoso che doveva dissimulare la commozione delle sue viscere paterne. — Ebbene, non ti chiederò d’indovinare, ti dirò io tutto in quattro parole. Sappi.... sappi che mi si domanda la mano di Fulvia. —
Era quello che Virginio temeva da un pezzo. Di giorno in giorno, come il condannato a morte, s’aspettava la fatale notizia. Perciò non battè palpebra, non fece un gesto che tradisse lo stato dell’animo suo.
— Ebbene? — diss’egli, dopo un istante di pausa.
— Ebbene, — ripigliò il signor Demetrio, — non ti fa senso?
— No, non può farmelo, non deve, farmelo. Era tanto naturale che un giorno o l'altro vi dovessero fare un discorso simile! E dite, per chi la domandano?
— Qui ti voglio, ragazzo mio. Ma già, tu non hai inventiva. Me la domandano per un pezzo grosso, se devo dirtelo io, per un pezzo grosso. Così è, si vuol fare della signorina Bertòla una contessa.
— Contessa! — ripetè macchinalmente Virginio.
— Già, e con due cognomi per giunta. O grosse o niente, non è vero? Contessa Spilamberti di San Cesario, che bella cosa! A me pare una stravaganza. E tu, che cosa ne pensi?
Virginio era rimasto sbalordito. Si riebbe, dovendo rispondere.
— Io? penso che la signorina Fulvia merita questo, e più ancora.
— Ah! così la vedi tu?
— Come dovrei vederla altrimenti?
— Io, per tua norma, preso lì sui due piedi, non ho detto nè di sì nè di no. Ti confesso che quella proposta mi è venuta un poco a traverso. Non ho la mia parola impegnata con te? —
Virginio si sforzò di sorridere; ma il sorriso gli finì in un lungo sospiro.
— Con me, signor Demetrio? Con me non siete impegnato a nulla. Io sono il vostro servo, ricordatelo in ogni occasione. Del resto, io non ero il destinato.
— Lo sai? — gridò il signor Demetrio. — Come lo sai?
— Lo immagino, pensando sempre al poco che sono.
— E non hai parlato?
— No; potevate voi credere che io lo osassi mai?
— Osa adesso, che diamine! Siamo alle porte coi sassi.
— Adesso meno che mai; — riprese Virginio. — Ma sul serio, vi pare che io possa parlare? io? ed ora, per l’appunto, dopo tutta la sequela di visite al castello? Vi confesserò una cosa: non credevo che ci pensaste più, ad un certo discorso; credevo che aveste esplorato voi; pensavo che il vostro silenzio, dopo il termine che mi avevate assegnato, fosse conseguenza delle vostre esplorazioni, e che la mia sentenza fosse stata pronunziata.
— Che sentenza! che sentenza! — borbottò il signor Demetrio, facendo un’altra delle sue spallucciate.
— Ma sì; voi tacevate....
— Aspettando, ragazzo mio. Aspettavo sempre. Certo, dovevo capire che tu eri sempre lo stesso bietolone di prima. Scusami, sai, ma tu faresti perder la pazienza ad un santo. Ed ora — soggiunse il signor Demetrio, piantandosi davanti al suo segretario e guardandolo nel bianco degli occhi, — ed ora, che pesci si pigliano? Bisognerà bene che io dia una risposta al signor Momino.
— Siete il padre della signorina Fulvia....
— Sì, e diciamo pure della signorina Bertòla.
— Dovete dunque parlare a lei, sentire se questo partito le piace; dato che piaccia prima a voi, si capisce.
— A me.... — brontolò il signor Demetrio. — Vuoi che ti dica che cosa piace a me? Farla finita e andarmene a letto. —
Virginio fece un gesto di assenso, stringendosi nelle spalle e aprendo la bocca per non dir nulla.
Al signor Demetrio parve certamente di essere stato un po’ duro nella sua chiusa.
— Caro mio, — ripigliò, — non si può star sempre così sulla corda. È una tegola, capirai, è una tegola che mi casca addosso. Seriamente, non sono impegnato con te? E sia, ti ringrazio; ma senza intenzione di abusare della tua condiscendenza. Parlerò, parlerò, come si conviene in un caso simile, che credo non sia mai capitato il peggiore ad un babbo. Non mi dir altro; so il mio dovere, ed ho poi tutta la prudenza necessaria. Del resto, ho la notte davanti a me per pensarci bene; la notte porta consiglio. Buona notte anche a te. —