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una ragione o con l’altra, si andava, sicuri di trovarla, o di vederla almeno alla sfuggita, dal vano del passaggio interno che metteva nel salottino attiguo.
Che noia per Virginio Lorini, quando gli venivano a quel modo sull’orma di Fulvia! E come ne indovinava gli accorgimenti, quando, serviti a puntino e con molta precisione da lui, tiravano le cose in lungo a bella posta, dell’una non mostrandosi contenti e dell’altra nemmeno, facendosi venir esempre nuovi desiderii, manifestando sempre nuove curiosità, pur di restare in attesa dell’apparizione di Fulvia!
— Son qua i cacciatori! — diceva egli fra sè. — Aspettate, sì, aspettate; verrà.... anche troppo presto verrà. —
Era felice quando Fulvia indugiava a discendere; felicissimo quando non scendeva affatto, e i suoi aspettatori dovevano appiccar la voglia all’arpione. Virginio si scopriva allora delle brutte pieghe nel fondo dell’anima, delle malignità nascoste, delle cattiverie ignorate. E se ne crucciava allora, e domandava a sè stesso se quello fosse proprio il modo di fare.
— Infine, — pensava egli, — che cos’è questo temer sempre, questo soffrire di tutto, questo torturarsi il cuore per la sciocchezza di questi vagheggini? Fulvia non vede e non cura; che cosa ne può lei, se sono tanto noiosi? E se sono tali, perchè sarò io tanto maligno e cattivo da godere delle loro disgrazie? Che guadagno ci faccio, alla stretta dei conti? —
Due di quei cacciatori molesti erano stati più fortunati degli altri, la mattina di un lunedì. E la cosa si capiva facilmente, perchè uno di essi aveva già un po’ d’entratura essendo egli un Paganuzzi di Modena; cugino di donna Fulvia, la quale era appunto accompagnata con lui quando aveva fatta al Bottegone la sua unica e breve fermata per salutare la figlioccia. E questa non se n’era andata, vedendo comparire i due avventori, uno dei quali le era noto oramai; rispondendo al suo saluto era rimasta a discorrere