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duta capitare al Bottegone, dopo quella prima ed unica visita, la contessa Fulvia, gran dama e madrina: tanto peggio, o tanto meglio, secondo i gusti e gli umori. Per contro, si affollavano in piazza Vittorio Emanuele, aliavano e ronzavano intorno al Bottegone, i villeggianti del sesso maschile, calabroni, farfalloni, e cavalocchi di tutti i dintorni a due o tre miglia di giro. Gli uomini, si sa, son cacciatori; anche quando discendono da Carlo Quinto, o giù di lì, non partecipano a tante fisime delle loro nobilissime madri, mogli, sorelle e via discorrendo. Una bella ragazza è una bella ragazza agli occhi di Carlo Quinto, come a quelli dell’ultimo fra i borghesi di Gand; e Fulvia Bertòla era un fior di ragazza, uno splendore, un occhio di sole, per tutti i vagheggini, nativi e residenti, stabili e temporanei, di Mercurano e del suo mandamento.

La domenica, quando la fanciulla andava ia chiesa e ne usciva, attraversando sempre la piazza Vittorio Emanuele così lunga com’era, si formavano sempre due ali d’onore sul passaggio di lei. E si può dire, sempre col debito rispetto alla religione di quei popoli, che dopo il ritorno di Fulvia Bertòla dal collegio di Lodi, la divozione a Mercurano fosse notabilmente cresciuta, vedendosi in chiesa, alla messa cantata e a qualcheduna delle messe piane, ai vespri, alle benedizioni, un maggior numero di persone del sesso maschile, specie di giovani, che san Zenone non aveva prima d’allora mai visti nè conosciuti. Figuratevi che ne calavano perfino dai monti e dai poggi, come nei tre giorni della gran fiera, di luglio. Ed erano villeggianti autentici, nel maggior numero, cittadini e non terrazzani di quelle parti, riconoscibili dalla cravatta all’ultima moda, dai colletti insaldati, dai ciondoli dell’orologio, che facevano spicco sul pannolano della giacca, o sul fustagno della cacciatora, che molti indossavano per vezzo campagnuolo, ma facendo ben sentire in tutto l’altro la loro qualità signorile.

Le occhiate andavano a lei, sotto la gran na-