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banco, per dare una sbirciata alle scatole dei guanti. L’avventore non si lasciò sfuggir l’occasione di attaccar discorso con lei.

— Se la signorina volesse aiutarmi a calzarli.... — diss’egli a mezza voce e con un mezzo sorriso.

L’audacia era grande, e Virginio ne fu sdegnato, tanto che si pentì in cuor suo di aver dimostrato all’avventore che nel Bottegone c’era di tutto, anche dei guanti.

Ma non mostrò di sdegnarsi egualmente la signorina Fulvia, che molto probabilmente aveva indovinato il tono di celia e l’intenzione di entrare per quel modo in discorso con lei. Sorridendo a sua volta, la savia fanciulla placidamente rispose:

— Non saprei, signor mio; non ci ho pratica.

— Bisognerà che si contenti di me; — soggiunse Virginio, intromettendosi.

E presa la macchinetta dei fusi innestati a guisa di forbici, lavorò destramente a slargare l’un dopo l’altro i diti d’un guanto, poi la palma, e da ultimo ci scosse dentro il bossolo della polvere, che doveva rendere più scorrevole la pelle. Ma qui si fermò la sua collaborazione alla calzatura del guanto. L’avventore lo infilò prontamente da sè, rinunziando volentieri all’aiuto di Virginio Lorini.

— In verità, — diceva egli frattanto, volgendosi al suo compagno di passeggiata, — c’è di tutto in questo negozio, anzi diciamo in questo mondo; ed io faccio ammenda onorevole all’ottimo signor Bertòla. C’è proprio di tutto, e del meglio che si possa trovare. —

Il complimento non era così fine come la pelle dei guanti; ma non si poteva farne colpa all’avventore, che lo traeva per così dire dal nulla. Comunque fosse riuscito, era un omaggio; e come omaggio andava diritto, in compagnia d’una occhiata espressiva, alla signorina Fulvia, che non teneva più gli occhi tanto bassi, come faceva per via. Poteva guardare, di fatti, e sorridere per giunta, non solo al marchese Paganuzzi, che era il cugino della sua nobile madrina, ma