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sette primavere (quelle che voleva accusare, s’intende) uscita una domenica dalla chiesa di San Zenone, dove aveva ascoltata la messa grande, era andata a dare una capatina al Bottegone, fermandosi là una ventina di minuti.

Donna Fulvia era la madrina della fanciulla di casa Bertòla, e ciò poteva spiegare il fatto di quella visita. Ma nessuno aveva mai veduto, per anni ed anni, la contessa Sferralancia metter piede là dentro. Certo, quella era stata una gran degnazione, di andare a veder la figlioccia; ma era anche facile di trovarne una ragione più naturale nella curiosità della contessa, che, per essere una gran dama, non tralasciava d’essere una figlia d’Eva. Anche a lei le persone di servizio avevano parlato sicuramente di quella ottava maraviglia che era tornata a casa Bertòla dal collegio di Lodi; e donna Fulvia, che in altri tempi s’era dimenticata perfino d’aver tenuta quella ragazza a battesimo, derogava una volta tanto alle sue consuetudini nobilesche, andando a vedere anch’essa il «fenomeno vivente» del Bottegone.

Quella visita fatta di domenica, nel cospetto dei popoli, aveva dato il tema a molte e svariate conversazioni. Si capiva che per una buona parte c’entrasse la curiosità di donna Fulvia, dopo aver sentito ragionar tanto della signorina Bertòla, così carina e nobilmente educata, fin troppo nobilmente, nel collegio di Lodi. Si pensava che la sostanza, molto rotonda oramai, del signor Demetrio suo padre, rendesse più umana e maneggevole la contessa Sferralancia. Chi non le intende, queste cose? Non si ha bisogno del denaro di nessuno; ma ai ricchi ci si accosta volentieri, o con meno diffidenza, che negli effetti è tutt’uno. Si è sicuri, infatti, di non aversi a sentir domandare un migliaio di lire in imprestito, nè una firma di favore, nè una sicurtà, nè altro servizio consimile. Quando siete ricchi, tutti vi cercano, tutti vi fanno cera, vi aprono l’uscio di casa a due battenti.

Ma no, adagio coll’uscio aperto, nel caso par-