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ancora a quell’altro che chiamavano conte, ed era certamente un amico, un ospite dei signori Sferralancia.
Come ebbe fatte quelle piccole compre e pagato il suo conticino, il nobile avventore si dispose a partire coll’amico Paganuzzi, salutando la signorina Fulvia con un profondo inchino e con uno sguardo lungo, non isviato da lei se non quando gli fu necessario congedarsi dal signor Demetrio, a cui stese affabilmente la mano. Tutto felice e superbo di quel grande onore, il signor Demetrio accompagnò il nobile avventore sull’uscio del negozio, dove rimase a bocca aperta e con gli occhi raggianti, a guardarlo ancora un tratto in istrada.
Virginio era rimasto al suo posto, strette le labbra, gli occhi socchiusi, i pugni appoggiati al banco, dissimulando a fatica un senso di profonda amarezza. Aveva veduto lo sguardo del nobile avventore posarsi a lungo sulla signorina Fulvia, involgendola tutta quanta, non sapendo quasi spiccarsi da lei: aveva veduto la fanciulla restar lì, diritta ed immobile, punto confusa, in atto di restituirgli il saluto con una nobiltà di gesto che doveva essere naturalissima in lei, ma che egli notava allora per la prima volta, e che lo colpiva d’ingrata maraviglia, come fanno tutte le cose nuove, che non riusciamo tosto ad intendere: finalmente aveva veduto il signor Demetrio, uomo felice che non badava a nulla, che non andava al fondo di nulla, far tanta festa al nobile avventore, dopo aver quasi, in una stretta di mano, conchiuso un patto di tacita alleanza con lui. Tutte queste cose aveva veduto Virginio Lorini, nello spazio di pochi secondi, e una nube gli era passata sugli occhi; la solita nube che precorre ed annunzia le feroci tempeste.
— Molto garbato! — esclamò il signor Demetrio, ritornando finalmente dal suo osservatorio in bottega. — Dev’essere un pezzo grosso; e sono contento che gli abbiamo fatto vedere chi siamo. C’è di tutto, al Bottegone; c’è di tutto, co-