La figlia del re (Barrili)/IV
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IV.
La signorina Fulvia notò con piacere, quel giorno, che Virginio Lorini non era un garzone di bottega, nè un commesso di negozio come gli altri. Già lo sapeva da un pezzo; ma quel giorno se ne persuadeva meglio, fermando la mente sul fatto.
Virginio Lorini, era, a ben guardare, assai più d’un primo commesso e d’un segretario; era un ministro, era il braccio destro del babbo, l’occhio vigile, la mente direttrice della casa Bertòla; e degno di quel posto, e d’altri ancora, che fossero più alti di quello. Ciò s’intendeva facilmente, si sentiva ancor meglio che non s’intendesse, dall’aria di superiorità che traspariva involontariamente dalla sua stessa modestia, facendolo parer nato ad ogni cosa che volesse intraprendere.
Non era alto della persona, ma di giuste proporzioni: il bell’aspetto, reso sommamente simpatico dalla finezza dei lineamenti e più dalla espressione profonda dei grandi occhi azzurri, la grazia naturale degli atti, la sobria gentilezza dei modi, tutto era in lui, se così possiam dire, all’altezza d’ogni uffizio più nobile. Senza pretendere all’eleganza di uno zerbinotto, che in verità non ci pensava neanche, senza darsi una cura al mondo dei suoi baffi e dei suoi capelli biondi, non appariva punto trasandato: vestiva con garbo signorile, non discostandosi mai dalle tinte grigie, anglicamente severe, che prendevano risalto dal bianco irreprensibile dei colletti e dei polsini, insaldati senza troppi luccicori, e da un nodo di cravatta di mezzo colore. La carnagione era chiara, un po’ cerea, come era naturale in chi usava restare tutto il santo giorno lontano dal sole. Una sua grande bellezza erano le mani, morbide, sottili, bianchissime. Peccato che quelle mani, toccando di qua e di là nel Bottegone, dalla cartoleria alla pizzicheria, non isdegnasaero all’occorrenza di piantare il coltello in una forma di cacio parmigiano, o di staccare una striscia di lardo da una delle grandi mezzine pendenti alla parete. Ma questo, infine, doveva far più onore alla sua modestia, che onta alla sua eleganza: e del resto, non ci sono al mondo esseri perfetti.
Per la signorina Fulvia, a buon conto, non doveva essere perfetto neanche il suo babbo. La bella e aristocratica reduce del collegio di Lodi non intendeva quella mescolanza della pizzicheria e di tutti i suoi forti odori, con gli altri generi più serii, più eleganti, del paterno negozio. Ma bene la intendeva il signor Demetrio, e meglio la sapeva difendere, tanto che ci diventava perfino eloquente.
— Mio Dio, che cosa ci vuoi far tu, se da quella ho incominciato? Sai tu per che modo mi ritrovi io ad essere mercante di panni, gioielliere, cartolaio, e a ore avanzate anche un tantino banchiere? Perchè da principio sono stato pizzicagnolo. Possedevo quella botteguccia modesta, che aveva dato da vivere a me e a quella santa donna di tua madre. Avevo potuto aggiungerci l’appalto del sale e dei tabacchi, e senza il bisogno di allargarmi: in quello stanzone ci era posto per tutto, anche per una tavola con due panche, per uso di chi volesse mettere un bicchier di trebbiano o di lambrusco su due fette di salato o di spalla di San Secondo. Così si andava, così si tirava avanti, coll’aiuto di Dio. Ma c’era San Zenone che mi guastava le faccende. Quel santo, quel santo (non ne voglio dire troppo male, perchè è stato il santo di mio padre, e perchè dopo tutto mi ha mandato egli stesso una buona ispirazione), quel santo, dico, con la sua gran fiera di luglio, mi popolava la piazza di merciai ambulanti, che avevano il coraggio di piantare i loro banchi davanti al mio negozio. Loro a vendere, ed io a guardare, mi capisci? E vendevano perfino il formaggio e il salame, i birbanti! Era una cosa che gridava vendetta. Aggiungi che stando sull’uscio a masticar la mia rabbia, vedevo delle ladrerie senza esempio. Allora.... —
E qui il signor Demetrio assumeva un’aria tragica, levando il braccio sopra la testa, e trinciando l’aria davanti a sè con un fendente della sua mano poderosa.
— Allora, da galeotto a marinaio, ne pensai una e la mandai ad effetto, coll’aiuto di Dio. Voi fate tutti il ridosso a me? Ed io vo’ farne uno a tutti voi altri. Voi lavorate in formaggi e salati per farmi noia? Ed io lavorerò in pannine, in tessuti, in ogni cosa. Ah, la vedremo. E cominciai da quel giorno a disporre le cose mie per l’anno seguente; e tanto ci lavorai attorno, che alla nuova fiera facevo ancor io la mia mostra, e ricca quanto la loro, vendendo tagli di gonnelle e di calzoni, calze e rocchetti di refe, chiodi, stringhe, bollette, fettucce, e trombe, e zufoli, e zufoletti.... Scusami, sai, senza allusioni per te; — soggiungeva qui il signor Demetrio, interrompendosi, e volgendo insieme colla parola un gesto amorevole a Virginio Lorini.
— Dite pure, signor Demetrio; — rispondeva Virginio, sorridendo del suo placido sorriso. — È il nome che mi avete dato, prendendomi al vostro servizio; e m’ha portato fortuna.
— Come tu a me, ragazzo mio, e tutti pari. Dunque dicevamo.... dicevamo che gliel’ho fatta, a tutti quei ridossi del malanno. E incominciarono a gridar loro, come avevo gridato io, a strillare che li rovinavo colla mia concorrenza! Di che vi lagnate? Se ci fossero capitati qui, ad ogni fiera, otto o dieci, magari cento merciaiuoli di più, non sarebbe stata la medesima zuppa? Io, del resto, avevo qui il diritto del primo occupante; senza contare che, come proprietiario della bottega mia, e della casa annessa pagavo le mie brave tasse per tutto l’anno al governo e al comune. E ne acquistavo un’altra, delle botteghe, e un’altra ancora, con tutto quello che ci stava di sopra, fino a raggiungere le bellezze che vedete: tutto effetto del risparmio bene inteso, del buon mercato, della probità, della intelligenza, della assiduità, vendendo tutto l’anno, a prezzi da cristiani, quello ch’essi vendevano solamente per pochi giorni, a punti di luna, e a prezzi da ladri patentati. Così, viva San Zenone che si è degnato di aprirmi gli occhi, son falliti quasi tutti, e i generi della fiera li ho ereditati io, migliorandoli, accrescendoli, variandoli sempre più, per vantaggio del pubblico. La fiera mi rovinava; la fiera mi ha salvato, poichè la fiera di Mercurano, grazie al cielo, son io.
— Va benissimo, tutto questo; — disse Fulvia, dopo avere ascoltato attentamente il discorso del babbo, e mostrato d’intendere la forza della sua dimostrazione. — Ma appunto perchè ti sono tanto cresciute le occupazioni, potresti cedere la pizzicheria, che mi pare si colleghi un po’ male con gli altri generi, più serii, e, vorrai convenirne, più signorili. Quel lardo ha così brutto odore!
— Questione d’abitudine; quando ci avrai rifatto il naso, figliuola mia, non ci penserai più che tanto. Vedi il nostro Virginio, con tutta la sua eleganza, che pare un milorde; neanche lui se ne lagna.
— Io! — esclamò Virginio, chiamato così di schianto in soccorso. — Che c’entro io, signor Demetrio? Io sono al vostro servizio e non ho da lagnarmi di niente. Tutto ciò che voi fate è ben fatto, e tutto ciò che faccio io non è che una parte del mio dovere. Nondimeno, — soggiunse, come per rispondere qualche cosa alle argomentazioni della signorina Fulvia, — il disegno di cedere la pizzicheria lo aveva studiato ancor io. Ma ho pensato subito che quella cessione sarebbe stata mal veduta in paese. Mercurano è un grosso borgo, e di quei generi fa molto consumo. Tutti hanno oramai l’abitudine di servirsi al Bottegone, dove trovano ogni cosa. Capiterebbero ancora allo stesso luogo, ne convengo; ma non più con la stessa fiducia di prima. Un successore nel negozio darebbe la roba buona come prima, allo stesso buon mercato di prima? E se anche lo facesse, lo crederebbero loro, avvezzi com’erano, e grazie a Dio come sono, ad aver fede nella probità di casa Bertòla?
— Vedi, figliuola mia? — ripigliò con aria di trionfo il signor Demetrio. — Non d’è più niente da rispondere, a questi argomenti. La pizzicheria è stata validamente difesa. E mi fa piacere, perchè quella è la mia vecchia bandiera. Bandiera vecchia fa buon brodo, come diceva Arlecchino; ed io non mi vergogno dei miei umili principii.
— Mi giudichi male, babbo; — rispose Fulvia, arrossendo. — Non dicevo per la vergogna. So bene che il lavoro è il lavoro, ed onorevole in ogni caso. Dicevo piuttosto per la mescolanza dei generi.
— Cara, ci son tutti, e questo giustifica la loro varietà. Del resto, le botteghe sono unite, per i loro passaggi interni; ma sono ben distinti e separati i servizi. Non c’è che Virginio che vada un po’ dapertutto, ad invigilare, come facevo io una volta. Il garzone della pizzicheria, a buon conto, non passa mai la soglia della drogheria; al più farà capolino nell’appalto; generi affini, come tu vedi, poichè si tratta ancora di sale. Il lardo ha cattivo odore, tu dici? Aggiungi che l’hanno un po’ forte le acciughe e i formaggi. Ma i tabacchi, che vengon dopo, ti combattono un odore coll’altro; la drogheria, che vien terza, li corregge tutti; e l’odor del pepe non disdice alle pannine, come ti potranno insegnare tutte le buone massaie. Quanto agli ori, ai similori e all’altre carabattole, ai libri, alla carte e a tutto il rimanente, ti pare che possano aver noia sul corso Garibaldi, dalle cataste di formaggio e dalle mezzine di lardo, che stanno relegate dall’altra parte, nell’ultima bottega sulla piazza Vittorio Emanuele? —
Quello era stato veramente un grande trionfo d’eloquenza per il signor Demetrio Bertòla. La pizzicheria si sentì salda più che mai sulle antiche sue fondamenta, e la signorina Fulvia non ritornò più a darle l’assalto. La reduce aristocratica dì Lodi capì di non esser più a Lodi. Mercurano la ripigliava, Mercurano, grossa terra ma rustica e volgare, borgo grasso condannato a non uscir mai dalla sua modesta condizione di borgo. La popolazione era tutta di piccoli possidenti, fittaiuoli, agricoltori ed artieri. Ci calavano alla domenica i contadini a frotte, tutta gente operosa, abbastanza agiata, ma rozza. A primavera inoltrata ci capitavano i signorotti, che avevano poderi nei dintorni, e che solo per quattro o cinque mesi dell’anno facevano il sacrificio di vivere in città. Nell’estate e per una buona parte dell’autunno ci si alternavano ancora molte famiglie di villeggianti, distribuendosi nei castelli turriti dei poggi vicini o nei palazzi di campagna sparsi lungo le strade maestre, dietro cancelli di ferro e pilastri di mattoni, che in mezzo a terreni solo divisi da siepi basse di biancospini avevano l’aria di chiudere ai profani il piccolo parco di abeti e di tuie, formato intorno al monticello della ghiacciaia, o al fosso delle tinche decorato col nome di lago.
Era il bel tempo di Mercurano; e allora ci capitavano anche compagnie di saltimbanchi, che nelle tiepide sere tiravano gran gente sulla piazza maggiore, dando a quei terrazzani l’illusione d’un circo; e torme di zingari, e domatori di belve, e burattinai, lavoratori indefessi alla gran fabbrica dell’appetito, che avevano Mercurano per una piazza eccellente. Ma quello era il lusso di tutti i borghi, e fuori di lì Mercurano doveva rinunziare ad ogni altra ambizione. Anche il suo nome, che ricordava il più umile, il più borghese tra tutti gli dèi dell’Olimpo, non era fatto per rilevare gli spiriti alla contemplazione di più vasti orizzonti. La reduce di Lodi si adattò malinconicamente a ciò che non poteva mutare: ma si richiuse in sè stessa, al repentino contatto della brutta realtà, come la sensitiva al primo tocco di ruvide mani.
Per intanto, dopo la prima visita sommaria che aveva fatto al Bottegone, non si arrischiò più a metter piede in pizzicheria, e neanche nelle due stanze vicine dell’appalto e della drogheria. Sentirono la repugnanza di lei i garzoni di quella parte più modesta e più antica del Bottegone? Sì, certamente, la sentirono, ma come potevano sentirla spiriti umili, che non vedono ingiuria nella mancanza di onore a cui sanno di non avere diritto. Perchè mai la bella signorina sarebbe giunta sin là, col pericolo di tingersi il bell'abito di mussolina bianca, che le stava così bene?
Scendendo al pian terreno, ella giungeva pure allo stanzone delle pannine. Là dentro, almeno senza timore di macchiarsi, andava e veniva a suo bell’agio, facendo calare dagli scaffali or questa ed ora quell’altra pezza di stoffa, sciorinando e palpando, contentando sopratutto la sua artistica curiosità di figlia d’Eva, che in ogni morbidezza di tessuto, in ogni varietà di colore vede già col pensiero l’effetto di una nuova veste indossata. E là dentro si lasciava cogliere perfino da qualche avventore, in atto di osservare, di confrontare, di mettere in mostra sul banco, di ottenere bei partiti di pieghe; la qual cosa non era neanche senza utile del negozio, poichè più volte accadde di veder comperare senza tante esortazioni un taglio di stoffa, solo perchè l’aveva toccato e lodato la signorina Fulvia, la reduce aristocratica del collegio di Lodi; il primo d’Italia, come oramai dicevano a Mercurano, avendocene pochi degli spiccioli, e meno da spicciolare.
Anche là dentro la signorina si fermava poco, amando di restare tra la libreria e la cartoleria, dove era il salottino del Bottegone. Si chiamava con quel nome pomposo un camerino di passaggio, dov’era un piccolo canapè, sacro a qualche pisolo meridiano del signor Demetrio, e più in là, sotto la luce di una finestra dalla parte del cortile, la scrivanìa del signor Virginio con un alto leggìo, su cui si vedeva squadernato il libro maestro. Virginio Lorini aveva arredato quel sacrario della contabilità con una certa eleganza, che contentava l’occhio e rallegrava lo spirito. Nel vano delle grandi cortine di «crétonne», che ornavano l’ampia finestra, scendeva una bianca tendina dipinta a tempera, con la veduta d’un laghetto, sulle cui onde più azzurre del vero diguazzava un candidissimo cigno, in mezzo alla pompa di alcune piante esotiche, dalle foglie smeraldine e dai grappoli di fiori vermigli.
Quella tendina, moderando la luce, toglieva anche di vedere la brutta inferriata della finestra, che avrebbe dato aria d’una prigione a quel nido dei numeri. E pareva proprio d’essere in un salottino, vedendo sospeso alla parete un ritratto del signor Demetrio; ritratto a olio (e niente burro, soggiungeva facetamente l’originale) ritratto a olio, cavato da una fotografia del personaggio, mercè l’arte modesta e modestamente ricompensata d’un pittore girovago. In fotografia, non essendo più passati pittori da quelle parti, c’era il ritratto della signorina Fulvia: intorno al quale si rigirava ancor fresco un ramo d’ellera, non messo là certamente dal babbo.
Del resto, non erano fermate lunghissime quelle che la signorina Fulvia faceva al pianterreno. Salvo i casi straordinarii, ci scendeva due volte al giorno, per avvisare il babbo e il signor Virginio, quando era all’ordine il desinare o la cena. Mercurano serbava fede ai vecchi usi della regione: si desinava al tocco; si cenava alle sei, o alle sette, secondo le stagioni.
Le giornate della signorina erano tutte piene di gaio e svariato lavoro; continuazione delle sue giornate di collegio, ma più liberamente divise, poichè non c’erano più ore di scuola. Si alzava di buon mattino e rassettava lei la sua cameretta; buona usanza di collegio, che una donnina a modo non deve lasciar mai, qualunque sia la sua condizione sociale. Poi disegnava, o dipingeva; ordinariamente all’acquerello, e fiori, che erano la sua passione. Preso il suo caffè e latte, e fatto un giro in giardino, risaliva nelle sue stanze per mettersi a scrivere le sue lettere, per tenersi viva con le maestre e con le amiche di conservatorio. Scendeva all’ora della colazione, per avvisare il babbo e per lasciar giù le sue lettere, da mandare alla posta. Dopo la colazione alternava i suoi esercizi di ricamo e di cucito con la lettura e lo studio delle lingue. Al pianoforte non si sedeva che la sera, dopo cena: ed era quella una festa quotidiana per il buon popolo di Mercurano, che stava accalcato in istrada a sentire, ammirando lei e lodando il senno del babbo. Felice lui che aveva i quattrini, e viva la faccia sua per averli saputi spendere, facendo educare così bene la sua cara figliuola! E si pensava ancora con desiderio a quella santa donna della signora Giuditta. Se avesse potuto rialzare la testa, come si sarebbe ringalluzzita, la povera madre, sentendo suonare così bene quel prodigio di ragazza!
Sentivano loro, e nient’altro che le sue note al pianoforte. Che cosa avrebbero detto, udendo i discorsi della signorina, come poteva udirli ogni giorno, in fin di tavola, il signor Demetrio Bertòla, suo fortunatissimo babbo! Egli, dopo il ritorno della sua Fulvietta (scusate, bisognerà dire della sua Fulvia) non andava più tanto all’osteria, per giuocare a tarocchi. Stava in conversazione, in conversazione lui, che di conversazioni non aveva mai avuto la più lontana idea; e sentiva parlare di letteratura, di storia antica e moderna, perfino di belle arti, come se quello fosse stato il suo pane intellettuale di tutti i giorni dell’anno. S’intende che restava a bocca aperta, non mettendoci mai nulla di suo, il pover'uomo; ma purtroppo bisognerà confessare che non poteva, restando a bocca aperta, tenere egualmente gli occhi aperti. A una mezz’ora di tensione ci reggeva abbastanza; ma non andava più in là, e si appisolava regolarmente sul suo seggiolone.
— Tutti questi vostri grand’uomini, mi dànno il capogiro, — diceva egli a sua scusa. — Specie i poeti, con quel loro scrivere a righe corte, che non sono mai riuscito ad intendere il perchè.
— O babbo! — esclamava la signorina Fulvia. — Ci hai pur messo Dante, sulla facciata della tua casa, ed anche al posto d’onore.
— Sicuro, che ce l’ho messo. È un grand’uomo, e, da quel che pare, il più grande di tutti. Ma io non so più in là, e per cercarne altro è oramai troppo tardi. Lasciatemi dunque dormire, e contentatevi d’esser dotti voi altri. Anche quel Virginio.... chi l’avrebbe mai sospettato, che fosse uomo da tenerti bordone? O dove le pesca lui, tante cose difficili, lui che non ha studiato dalle Dame Inglesi? —
Chiudeva gli occhi, il signor Demetrio, e dormiva: dormendo lui, vegliava il suo cuore; e vegliando meditava. Son sempre amorose e buone le meditazioni del cuore; diversamente da quelle del cervello. Oh, il cervello! buono da friggere, se fosse almeno di bue. Ora il cuore del signor Demetrio ne aveva immaginata una; e molto naturalmente, badate; gliel’aveva fatta nascere il pensiero di quella ragazza così bene educata, che a Mercurano, tra tanti zoticoni suoi pari, non avrebbe saputo come allogarla.
— Ed ora che ne facciamo? — diss’egli un giorno di schianto a Virginio, trovandosi a quattr’occhi con lui.
— Che ne facciamo? — ripetè Virginio, stordito. — Di che?
— Di Fulvia, perbacco. Dove trovarglielo, a Mercurano, un marito? È un impiccio, ti dico, un impiccio.
— Perchè volete torturarvi il cervello? — chiese Virginio, dopo un istante di pausa, che non lo aveva aiutato a trovar niente di meglio, e neanche a vincere il suo turbamento.
— E non voglio, difatti, non voglio; — replicò il signor Demetrio. — Ho meditato abbastanza, e quel che ho pensato mi pare che basti. Senti, ragazzo mio, fatti più in qua; che cosa diresti, se te la dessi in moglie.... a te? —
Virginio sussultò, e quasi si sentì venir meno.
— Signor Demetrio, ci pensate? — diss’egli.
— Ci penso sicuro, ed è l’unica. Io, per tua norma, mi voglio ritirare dal commercio. A buon conto, non ci capisco più niente, dacchè tu ci hai messo tanto abbaco. Dico per celia, sai; non disprezzo l’aritmetica, che è l’anima degli affari. Ma non è giusto che io dia un premio a chi me li ha fatti prosperare? Tu fai tutto, qui dentro; e sai tutto; sii dunque tutto, prendendo dalle mie mani la mano di Fulvia. —
A Virginio si gonfiava il cuore dalla goia; e una nuvola bianca gli passava davanti agli occhi.
— No no, — diss’egli, con voce soffocata dalla commozione, e agitando il braccio davanti a sè, come se volesse scacciar quella nuvola. — Non son degno; pensateci bene, signor Demetrio; non son degno di tanto. —
E pensava, in mezzo alle frasi rotte che gli uscivano di bocca, pensava a quella grande novità, che gli faceva capitar la fortuna, come una tegola sul capo! Lui, lui, il marito di quella vezzosa fanciulla, che amava tanto, senza avere ardito mai di confessarlo a sè stesso? Non mentiva, non fingeva un sentimento di cerimoniosa modestia, dicendosi indegno di lei: esprimeva un sentimento vero e profondo, il sentimento della sua pochezza, della sua nullità, al paragone di quella stupenda creatura, tanto ricca per lui, poveraccio, e così nobilmente educata, che sapeva tante cose, che era tutto un tesoro di bellezze, di grazie, di eleganze, di cognizioni, che scriveva e parlava facilmente come la sua stessa lingua il tedesco, l’inglese, il francese. Questo, per verità, aveva incominciato ad insegnarglielo lui: ma nei primi elementi grammaticali, non avendo tempo nè modo di andare troppo oltre; ed oramai la scolara ne sapeva assai più del maestro.
Quel giorno medesimo, a farlo apposta, si era presentato all’uscio della cartoleria un povero artigiano francese, venuto a piedi dalla via dell’Appennino, chiedendo alla bontà della gente i mezzi di proseguire il suo viaggio fino alla più vicina città, dove potesse trovare un consolato della sua nazione. La signorina Fulvia era là per caso, e gli aveva parlato lei, con tanta padronanza della lingua francese, con tanta esattezza di termini ed eleganza di pronunzia, che il viaggiatore trasognato le aveva chiesto se fosse parigina, o se fosse vissuta lungamente a Parigi. Quel pover uomo era stato cortese, e lo stupore che gli si vedeva impresso nel volto dimostrava benissimo com’egli non avesse parlato a quel modo per mero complimento. E lui, allora, il signor Virginio, si era sentito tanto commosso dalle parole del viaggiatore, che gli aveva dato, scambio di dieci o venti soldi, a dirittura uno scudo; onde lo stupore di quell’altro ebbe ragione di crescere, davanti a una liberalità così grande. Certo, in cuor suo, il viaggiatore pensò che se la sua bella interlocutrice di Mercurano poteva essere creduta all’accento una parigina, il suo interlocutore e distributore di scudi doveva essere un russo, a giudicarlo dagli atti. Il russo, si sa, è in Francia il tipo della prodigalità, della munificenza, principesca e regale.
Povero principe russo di Mercurano! l’aveva a sposar lui, proprio lui, quella gentil parigina, quella stupenda creatura, uscita pur dianzi con tutte le grazie, con tutte le finitezze della gran dama, dal collegio di Lodi? Ah, in verità, non sentiva di meritarsela; e lo andava ripetendo a quel babbo che gliela offriva: — no, no, pensateci bene, signor Demetrio; non son degno di tanto.
— Che degno mi vai degnando tu ora? — gridò seccato quell’altro. — Per caso, non ti converrebbe il partito? Parla chiaro, sai? Non intendo d’imporre la mia volontà a nessuno: e la mia franca proposta merita bene una franca risposta.
— Signor Demetrio.... mio buon principale.... che cosa dite voi ora? — gridò Virginio, turbato, con le lagrime agli occhi. — Io mentire a voi? io non gradire il partito? Mi credete voi pazzo, o cattivo? Perchè dubito di me stesso, perchè non mi riconosco degno di tanta vostra bontà, potete voi immaginare che io miri a dissimulare un rifiuto? Se voi mi diceste: «Virginio, qui c’è la mano di mia figlia, e qui il trono del mondo,» io sì, allora, ve lo giuro per la memoria di mia madre, rifiuterei quel trono.
— Che sciocco! Io, nei tuoi panni, accetterei l’uno e l’altra; — rispose il signor Demetrio, ridendo. — Ragazzo mio, bada a te; chi non tira a tutto risica di non avere mai niente. Fortuna per te, che io non ho un trono da offrirti, ma solo la mano di una ragazza, che non è poi, sia detto senza falsa modestia.... che non è poi neanche il diavolo.
— La vostra figliuola è un angelo del paradiso, — replicò Virginio sospirando; — ed ecco perchè mi vedete così titubante. Infine, signor Pemetrio, se voi mi stimate tanto, per bontà vostra, e in un momento di affettuosa condiscendenza mi offrite una felicità che io non avevo mai osato, non che sperare, sognare, non è giusto che io approfitti con tanta prontezza della grazia vostra, e che vi prenda subito in parola. Vi son grato, riconoscente, devoto fino alla morte. Ma voi ci penserete, mio buon principale; non vi terrete impegnato con me, che sono il vostro servo, un arnese oramai della vostra casa. E c’è tempo a pensare, mi sembra: la signorina Fulvia ha appena diciassett’anni.
— E tu già ventisei, bietolone.
— Sì, capisco, per me sarebbe già tempo di pensarci, se io potessi mai pensare a queste cose, essendo in casa vostra e non avendo nessuna idea di lasciarla. Ma lei! una bambina, quasi. Ha ella ancora l’età di pensare al matrimonio? E quando ci penserà potrò mai sperare di esser io il preferito o solamente il ben venuto? Ecco una difficoltà, signor Demetrio, una grossa difficoltà che dovremo sormontare.
— Vorrei vedere anche questa. Sarebbe nuova... di zecca, che la mia figliuola avesse una volontà diversa dalla mia.
— In questo caso perchè no? Al cuore non si comanda. Ed io non mi perdonerei mai d’esser stato cagione, anche innocente, d’un dissidio tra la volontà d’un padre e quella di sua figlia. Pensiamoci, signor Demetrio, prima di fare un passo come questo. Abbiamo tempo, vi ho detto.
— E sia, pensiamoci; — rispose il signor Demetrio; — il che vorrà poi dire che dovrò pensarci io, grande stintignoso che sei. Ma tu, che non dovrai pensare a nulla, farai bene a cacciarti innanzi, a guadagnar terreno, capisci? Siete sempre lì a discorrere di poeti, voi due. Lascia un po’ dormire il tuo Dante e il tuo.... come si chiama quell’altro che hai sempre in bocca? E parla piuttosto di te; con bei modi, si capisce, come va fatto in simili circostanze. Quando io ho posto gli occhi addosso a quella santa donna di sua madre, sai come ho fatto a dirle il mio sentimento? Lasciamo stare che per istrada camminavo sempre sulle sue orme, che in chiesa mi piantavo sempre a cinque passi da lei e solo coi suoi occhi vedevo il prete all’altare. Queste son cose che s’intendono, oppure si sottintendono. Un giorno lei usciva per l’appunto di chiesa; ed io, facendo un cuor di leone, le venni rasente e le mormorai poche parole passando: «Ecco una ragazza che se mi dicesse un sì davanti all’altare di San Zenone benedetto, mi farebbe felice come un re e contento come un papa.» Lei si mise a ridere, facendosi rossa come una ciliegia. Allora, o per dire più esattamente, un giorno dopo, il signor Zenone Bertòla, mio degnissimo genitore, si levò il grembiule dai fianchi, si diede una risciacquata alle mani, mise il suo cappello sulle ventitrè ed uscì dal negozio, per andare in cerca del signor Gaudenzio Vercellone. Appena lo ebbe trovato, lo abbordò e gli disse senza tanti rigiri: «Sapete, compar Graudenzio? c’è il mio figliuolo che ha un’idea sulla vostra Giuditta. Che cosa ne pensate voi?» E l’altro gli rispose netto e tondo: «Che si potrebbe discorrerne stasera, per fare il contratto domani.» Capisci, ragazzo mio? Così si faceva ai tempi nostri, un quarto di secolo addietro. Ma ora, a quanto pare, il mondo è cambiato: e non in meglio, ti dico io, non in meglio. —
Virginio non potè trattenersi dal ridere, pensando al modo che aveva tenuto il signor Demetrio per conquistare la signora Giuditta. Era turbato, confuso, stordito; ma nella piena istessa della sua commozione si sentiva un altro uomo, intravvedendo per la prima volta l’immagine della felicità, e gli pareva che il mondo non fosse poi così brutto come se lo era immaginato. Per intanto, da quel giorno incominciò a far più bello il suo signor sè stesso. La mattina seguente, per la prima volta in sua vita, si colse in flagrante di prolungata contemplazione allo specchio.
— Io! io! — mormorava tra sè. — Ma non ha detto per celia? Fulvia.... la signorina Fulvia mia moglie? la moglie di Zuf.... —
E non finì la parola. Un’idea triste gli passò per la mente, e una fosca immagine davanti agli occhi.
— Eh via! — ripigliò tosto, sforzandosi di sorridere. — Cose vecchie, ragazzate, che io solo ricordo, per averne tanto sofferto. Fulvia era così bambina, allora! Ed io, quando son capitato a Mercurano, che cos’ero? Non lo meritavo, il soprannome di Zufoletto? È stato uno scherzo del signor Demetrio e dettato piuttosto da un sentimento di compassione affettuosa che dal pensiero di burlarsi dei fatti miei. L’ho accettato allegramente, quel titolo, e l’ho portato volentieri finchè al principale è piaciuto di lasciarmelo. Com’è andato in disuso? Non so; io che ricordo tante cose, non mi rammento di questo. Infine Zufoletto o Virginio, non sono stato inutile in questa casa; specie dopo la morte della signora Giuditta, che quel pover'uomo pareva averne perduta la testa. Non ho da vantarmi di nulla: ho pagato da buon figliuolo il gran servizio che il signor Bertòla mi ha reso, accogliendomi in casa sua. E se ho fatto prosperare i suoi affari, non ho fatto prosperare anche i miei, onestissimamente, senza chieder mai nulla, accettando con riconoscenza tutto ciò che gli è piaciuto di assegnarmi via via? Mi ha largamente ricompensato: non avrei avuto a far altro che desiderare, per vedermi contentato in ogni modo, in ogni misura: se volessi, mi metterebbe la casa sulle spalle. E meglio fa, oggi, senza che io gli abbia chiesto niente. Dio mio, che fortuna è mai questa? potevo io immaginarla? Povero signor Demetrio! Ma è giusto che io lo prenda così facilmente in parola, senza dargli tempo a considerare un po’ meglio l’offerta che mi fa? Quante cose non si dicono in un momento di effusione del cuore, che poi dispiace di averle dette? E questa poi è così grave! A buon conto egli mi offre un tesoro; ma lei, che cosa ne pensa? Non è da saper prima se lei vorrà confermare l’offerta di suo padre? Pensiamoci. Anch’io ho bisogna di avvezzarmi all’idea di una felicità così grande.... così grande, che ho paura di esserne soffocato. In verità non ho mai sentita come oggi la verità del detto comune, che la gioia può uccidere. —
Un uomo da soliloqui non è, generalmente parlando, un uomo da pronte risoluzioni. Virginio passò molti giorni in quelle sue meditazioni, facendo poco cammino, anzi non facendone punto; non osando di esplorar l’animo della signorina Fulvia, quasi temendo di ragionare con lei, e nelle sue brevi conversazioni tenendosi sui generali assai più che non avesse mai fatto prima.
Dopo un paio di settimane, il signor Demetrio gli chiese:
— Ebbene, ragazzo mio, come vanno le faccende?
— Male, signor Demetrio; — rispose Virginio. — Diciamo che non vanno affatto.
— Hai parlato?
— No davvero; mi credete voi capace di ciò?
— È vero, tu non sei capace di niente. Ah i miei tempi! i miei tempi, quando si andava all’arma bianca! Almeno avrai pensato?
— E penso ancora; — disse Virginio, umiliato. — Ma non so avvezzarmi all’idea di tanta fortuna. Del resto, ve l’ho già detto... è così giovane, quella cara fanciulla! non bisogna neanche correre, in queste faccende, come voi le chiamate.
— La va secondo i gusti, ragazzo mio; — conchiuse filosoficamente il signor Demetrio. — Tu sei uno stintignoso, te l'ho già detto, e saresti capace, come quel certo santo di cui non ricordo più il nome, di far tre passi sopra un mattone. Pensa, medita ancora, se così ti pare di avvantaggiarti: io ti accordo tre mesi. —
Tre mesi! un buon termine, un respiro sufficiente, una pregustazione d’eternità, come suol piacere da principio ad ogni debitore la scadenza d'una cambiale. E respirò Virginio, sentendosi accordare tre mesi di soliloquio. Ma da quell’ora le giornate incominciarono a farsi più brevi per lui, quantunque crescessero sul calendario, essendo già primavera inoltrata. Pensava, pensava sempre, più che non discorresse con Fulvia: perfino quando era a quattr’occhi con lei (le assenze del signor Demetrio erano diventate anche più frequenti, e quando non erano assenze le facevano passare per tali i sonnellini schiacciati sul canapè del salotto, o sulla poltrona della sala da pranzo) perfino quando era a quattr’occhi con lei, lasciava languire la conversazione, per andar dietro all'immagine della sua felicità, che gli pareva sempre più grande. Era un po’ matto, non vi pare? Ma chi gliel’avesse detto a lui, si sarebbe sentito rispondere che ognuno pensa e sente secondo l’indole sua, più o meno delicata e sensitiva. Lo assalivano cento dubbi al giorno, cento paure che lo facevano fremere. Una di quelle paure, diventata a grado a grado più forte di tutte, gli si mutò ben presto in terrore e spavento di cosa avvenuta. E gemeva, allora, si disperava, si sentiva morire.
Non era certamente una piccola cosa; ed egli, pensandola possibile, sentendola probabile, non si poteva dir matto. Se egli diceva di sì, naturalmente il signor Demetrio avrebbe parlato alla figliuola. Quanto al caso che parlasse Virginio, non c’era da pensarci neanche; non era il fatto suo; sarebbe morto di vergogna. Parlava adunque il babbo; e fin qui tutto bene. Ma se la fanciulla diceva di no? Se, non osando dire di no, avesse lasciato intendere al suo turbamento, alle sue lacrime, la ripugnanza che quelle nozze le ispiravano, quale sarebbe stata la condizione di Virginio Lorini nella casa dei Bertòla? Sgradito dalla signorina Fulvia, poteva egli restare un giorno, un’ora di più sotto il medesimo tetto con lei?
Il signor Demetrio non lo aveva preveduto, quel caso. Ma già, il signor Demetrio non era uomo da prevederlo; egli che aveva nelle cose sue potuto tenere altra via, andando all'arma bianca, come diceva. Se la signorina Giuditta ventidue o ventitrè anni addietro, all'uscire dalla chiesa di San Zenone, fosse passata diritta, dura, impettita davanti al signor Demetrio, scambio di ridere e di farsi rossa in volto come una ciliegia, che cosa sarebbe avvenuto? che lei sarebbe andata a casa Vercellone da un lato, e lui, il signor Demetrio, a casa Bertòla da un altro, e tutti pari! Ma lì, tra Fulvia e Virginio, il caso era molto diverso, e la soluzione non poteva essere la stessa, poichè la casa era una per tutt’e due. Ci poteva star lui, in casa Bertòla, dopo una dichiarazione male accolta?
Orribile idea! lui, poveraccio, lui cresciuto in quella casa, fino a diventarne la colonna centrale e la chiave maestra, lui costretto ad uscirne per sempre, ad andar chi sa dove, lontano da lei, senza speranza di vederla mai più! E non era meglio tacere, pigliar tempo, aspettare? Aspettare! che cosa? la manna che gli cascasse dal cielo, come agli Ebrei nel deserto? Non ne sapeva niente; ma un miracolo, forse un miracolo poteva anche accadere per lui. Tacendo, frattanto, non era costretto a temere, a tremare. Fulvia era tanto giovane ancora! I suoi libri, la sua musica, i suoi colori, erano tutto il suo mondo. Che idea di farla pensare al matrimonio! No, no, il signor Demetrio correva le poste; c’era tempo a studiare, a risolvere.
Così avvenne che il termine fissato dal signor Demetrio si avvicinasse, e sempre più rapidamente, senza che Virginio avesse presa una risoluzione. Venne la scadenza e passò, senza che il creditore mostrasse pure di ricordarsi della cambiale accettata dal suo segretario.
Era quello il miracolo che Virginio aspettava dal cielo? Ahimè! se egli da principio lo ebbe per tale, non gli parve poi di doversene rallegrare, dieci o quindici giorni più tardi. Infatti, era egli possibile che il signor Demetrio non si ricordasse più della sua concessione, lui che si era mostrato così saldo nel proposito, così ostinato ed incalzante nel volere una risposta dal suo giovane amico? E non era in quella vece da credere che in quei tre mesi avesse esplorato lui il pensiero della figliuola? Ciò posto, non era anche da immaginare che, avendola trovata repugnante, avesse deposta l’idea di quelle nozze vagheggiate?
Niente appariva di ciò, niente trapelava dal contegno di Fulvia. I discorsi della fanciulla non erano diventati più freddi, nè più impacciati i suoi modi in presenza di Virginio Lorini. Ma era questa una prova sufficiente che ella non sapesse nulla di nulla?