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ticolare dei signori Sferralancia. Si era osservato benissimo che sulla soglia della cartoleria, dove la signorina Bertòla era venuta ad accompagnare donna Fulvia, questa aveva baciata la fanciulla su tutt’e due le guance; altra degnazione di gran dama, e singolarissima, notata prontamente nei fasti del paese. Ma era egli da correr le poste, immaginando che la signorina Bertòla sarebbe stata invitata al castello?

— Quel bacio non significa nulla; — avevano sentenziato le signorine Cometti, le due antiche vestali, sacerdotesse e giudichesse del paese. — Che altro doveva fare donna Fulvia, congedandosi? Quella ragazza è sua figlioccia; non lo dimentichiamo noi, poichè la contessa Sferralancia ha voluto ricordarsene, a vent'anni dal fatto.

— Vent'anni! Non sono già tanti; — notava un’amica. — Dovrebbero essere diciassette appena.

— Eh via! mettiamoci pure quelli del baliatico e delle scarpettine rosse; — ribattè la signorina Arpalice, la maggiore delle Cometti. — La questione, del resto, non è qui. Dicevate che la Bertòla sarà invitata al castello. Castello o bicocca che sia, o solamente palazzo di campagna, io non credo che donna Fulvia sia per derogare fino a questo punto. Una Sferralancia, pensateci, una Sferralancia! Sì, capisco quel che mi volete dire; — soggiungeva la terribile zitellona, rispondendo ad una obiezione che non le era stata fatta, e neanche accennata col gesto; — so bene che donna Fulvia si dovrebbe ricordare di non discendere neppur lei da Carlo Quinto. Era una Paganuzzi di Ferrara, e sua madre era stata in sua gioventù non rammento più bene se ballerina o cantante. —

Così la signorina Arpalice Cometti, da vecchia maestra nell’arte, dava un colpo al cerchio e l’altro alla botte. Ma, pur facendo ridere le amiche sue alle spalle dei Bertòla e degli Sferralancia ad un tempo, non veniva a capo di trasfondere in tutti gli animi la sua certezza intorno a ciò che donna Fulvia avrebbe fatto o non fatto. E ne era poi così certa ella stessa? Donna Ful-