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strada. Ma, un giorno, trovandosi a caso sulla soglia delle pannine, gli occhi suoi corsero al giuoco e alla fila degli spettatori. Il nobile avventore, quello dei guanti, era là, insieme con altri signori, intento alla partita e alle volate che andava facendo col suo pallone il figlio del sindaco.

Era la prima volta che quello dei guanti assisteva al giuoco? Virginio non poteva saperlo; ma bene indovinò che ne avesse il costume oramai, vedendolo là un altro giorno ed un altro ancora. Certamente era appassionato per il giuoco del pallone; un bel gioco, non c’è che dire, un nobile giuoco che ha ispirate alte e robuste canzoni a calorosi poeti, come il Chiabrera e il Leopardi. Il molesto personaggio aveva il suo posto prediletto, sempre a poca distanza dalla battuta. Pareva che restasse incantato ad ammirare la valentìa del battitore, qualunque si fosse, dell’avversario suo occupandosi poco, e niente del cordino, delle cacce, della guadagnata o del fallo.

Un sospetto passò per la mente di Virginio. Se gli occhi del personaggio guardavano sempre la battuta, non poteva darsi che ciò fosse per restar sempre rivolti alla facciata della casa Bertòla e pronti con un lieve batter di ciglia a sollevarsi d’una o due linee, fino all’altezza di una certa finestra, che si apriva tra le due statue di Dante e di Michelangelo?

Nato appena quel sospetto nell’anima sua, Virginio volle averne l’intiero. Si allontanò dalla invetriata, attraversò la stanza delle pannine e riuscito nell’andito salì prontamente la scala interna che metteva al primo piano della casa. L’uscio del quartierino era aperto, secondo il solito, non avendo i Bertòla nel loro stabile alcun pigionale. Entrò guardingo nell’anticamera e si affacciò all’ingresso del salotto buono, dove era il famoso pianoforte; ma non ebbe bisogno di entrare, poichè dalla breve apertura delle cortine di damasco gli venne veduta una gonna bianca nel vano della finestra vicina. Fulvia era là, accanto al davanzale: non occorreva ch’egli ve-