La Veste d'Amianto/Parte prima/VI

VI

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VI.


Prima ancora che il campanello squillasse, Ugo aveva già capito dal rumore dell’automobile fermatasi giù, dinanzi alla porta dello steccato, che qualcuno veniva a disturbare il maestro.

A disturbare, certo....

Noris non cercava nessuno e non ambiva di vedere alcuno: se aveva chiuso la sua casa di Genova per rintanarsi in quel capanno fattosi costruire accanto all’hangar nel suo campo di aviazione fra Serravalle e Cassano Spinola, lo [p. 114 modifica]aveva fatto appunto per essere libero di lavorare, nel silenzio e nel segreto, intorno alla nuova macchina che doveva permettere alla sua audacia di compiere nuovi prodigi.

E anche in quell’eremo venivano a cercarlo.

Il giovinetto scendeva malcontento le scale per avvertire Noris che lavorava nell’officina e chiedergli istruzioni, quando una scampanellata impaziente e prepotente venne a sollecitarlo, seguita subito da una voce imperiosa:

— Presto, ohè! qui si gela. Abbiamo delle signore con noi!

— Questa — si disse Ugo — è la voce di Lorenzo Rolla. E avrà con sè anche quell’antipatica di sua moglie, scommetto.

Prese a scendere ancor più comodamente per fare dispetto alla signora che gli era antipatica, poi, prima d’entrare da Noris, s’affacciò a una piccola spia tagliata nello steccato che gli permetteva ai vedere senza essere veduto.

— Vediamola quella smorfiosa! — si disse.

Guardò: susurrò subito meravigliato:

— Eh, quanta gente! E non c’è la signora Rolla, non c’è. Capisco: la brigata fa sciopero.

D’un balzo stavolta fu nell’officina installata accanto all’hangar e dove Noris, in camiciotto da operaio, stava lavorando in compagnia di due meccanici.

— C’è gente, — annunziò.

— Ho sentito, — fece Noris senza interrompere il lavoro. — Chi è?

— Chi sono, vuol dire. C’è Rolla con tutta la compagnia.

— E cioè?

— Paolo Adelio, Folco Ardenza, Cino Coralli.

— Fai passare qui allora, — Ci sono anche delle signore.

— Ah! la moglie di Rolla?

— No. Delle donnine che non conosciamo.

Il plurale fece sorridere Noris.

— Allora — egli disse — fai passare di sopra e di’ a Tripoletta che prepari il caffè.

— Tripoletta — fece Ugo con solennità — [p. 115 modifica]fuggirà come una cerbiattola o come una gazzella del suo deserto non appena avrà veduto le signore.

— Dille che io desidero che rimanga e che prepari il caffè. Vengo subito.

Fuori, la comitiva s’impazientava. Lorenzo Rolla, che aveva una voce stentorea e al quale l’intima amicizia con Noris dava il diritto di essere prepotente, continuava a gridare come un ossesso. Folco Ardenza, salito sull’automobile, guardava oltre lo steccato se qualcuno apparisse sul campo mentre Paolo Adelio, arrampicatosi sulle spalle di Rolla tentava di dare la scalata al recinto. Ugo comparve.

— Sbrigati, — gli urlò Ardenza dalla carrozza. — Bella galanteria per le signore.

— Io — fece il giovinetto aprendo — non sono il padrone di casa.

S’inchinò alle tre signore invisibili e indecifrabili sotto il complicato viluppo dei veli e delle pellicce, e suggerì rivolto a Rolla:

— Di sopra.

— Noris è su?

— Viene subito.

— Bene. Sa che siamo qui noi?

— Sarebbe un po’ difficile che non lo avesse saputo con quel po’ di chiasso che hanno fatto.

— Senti che tono!

Una triplice risata delle signore accolse l’osservazione di Cino Coralli.

— Le signore ridono: va tutto bene! — proclamò Ugo.

Una squillante voce femminile uscì dal viluppo di pellicce e di veli che si appoggiava a Lorenzo Rolla:

— Ma è simpaticissimo questo bébé.

Ugo s’inchinò.

— Lei, se assomiglia alla sua voce, è deliziosa.

— Vuoi vedere, piccino?

— No, per carità, aspetti di sopra.

— Come ti chiami?

— Ugo. [p. 116 modifica]

— Curioso! E io, Ughetta!

— Dite un po’, — osservò Folco Ardenza rivolgendosi dall’alto della scala dove era giunto prima, — non potreste smetterla voialtri due?

— Io — disse Ugo — ho il dovere di rispondere alla signora.

— E tu — fece il viluppo di pellicce che aveva dichiarato di chiamarsi Ughetta, rivolto all’Ardenza — hai quello di non fare lo scemo.

— Ho capito: allora, accomodati.

Ughetta s’accomodò subito.

— Quanti anni hai? — domandò rivolta a Ugo.

— Diciassette, per servirla.

— Grazie. E.... sei orso come il tuo principale?

— Come Noris, vuol dire?

— Già.

— Un po’ meno.

— Senti questa canaglia! Ma sapete che ha dello spirito?

— Toh! bella scoperta! — fece Ugo con tono d’uomo offeso.

Adesso erano tutti sul pianerottolo, in capo alla scala. Ugo spalancò la porta che metteva nell’appartamento di Ettore Noris e s’inchinò a Ughetta invitando:

— S’accomodi.

— Grazie, caro. Oh! — proseguì subito, — che salotto curioso!

— Magnifico! — dichiarò la più alta e la più maestosa delle tre figure femminili.

Lorenzo Rolla si compiacque del giudizio come di un complimento rivolto a lui:

— Che vi dicevo io? Noris s’è costrutto un piccolo paradiso qui.

— Ma ho paura che noi, oggi, glielo mutiamo in un inferno.

— Credete? — domandò la terza delle donnine che ancora non aveva aperto bocca.

— Sono sicuro per lo meno che non ci è riconoscente.

— Ah! ma sarebbe enorme!

— Perchè? in fondo, io gli do ragione. Quando [p. 117 modifica]uno si secca a stare colla gente ha diritto d’andarsene a rifugiarsi dove vuole e ha anche il diritto di non venir disturbato nella sua solitudine.

— Allora, perchè siete venuto voi?

— O Dio, perchè in fondo, modestia a parte, io credo di essere fra tutti quello che disturberà meno il nostro amico; so tacere, so ascoltare, so guardare, so interessarmi anche alle cose delle quali non m’importa un cavolo e che invece stanno tanto a cuore a lui.... Poi, potrebbe esserci un’altra ragione: potrei essere qui perchè ci siete voi....

— Non dite sciocchezze. So benissimo che a voi non importa affatto di me. Mi piacete per questo.

— Grazie, divina Pallade Atena!

— Per carità! finitela con codesto stupido soprannome.

— Non ne vedo nessuno che vi si attagli così bene.

— Ma non potreste chiamarmi una volta col mio nome?

— È quasi la stessa cosa ed è più espressivo. Voi vi chiamate Minerva Fabbri: Minerva sta bene: è il nome ideale per il vostro viso di marmo, per la vostra spregiudicatezza saggia, per il vostro incedere olimpico. Ma Fabbri, no.

Fabbri, scusate, è troppo borghese per la vostra figura e per la vostra vita. E allora io l’ho soppresso e vi ho battezzata Pallade Atena. C’è tutto qua dentro: metà del vostro stato civile e tutto intero il vostro bizzarro cervello.

— Siete un bel tipo, sapete! In grazia vostra, ormai, mi chiamano tutti così.

— Benissimo. E quello che volevo. Eppoi, vi occorreva pure un pseudonimo per diventare aviatrice, e questo è magnifico: Pallade Atena! sentite come suona bene!

— Chi è che suona? — domandò Ughetta avvicinandosi.

Serio serio Paolo Adelio disse accennando la Fabbri:

— La signorina. [p. 118 modifica]

— Davvero? voi suonate anche? ma sapete dunque proprio tutto!

— Anche la tua parte, oca! — intervenne Folco Ardenza.

Adesso le tre donne si scioglievano dai veli e dalle pellicce mentre gli uomini interrogavano Ugo:

— Ma dov’è dunque questo Noris?

— Viene subito: un momento di pazienza.

— E un po’ di fuoco non c’è?

— E da bere?

Ugo non udiva più, intento adesso a contemplare le belle farfalle uscite dalla crisalide:

Ughetta sottile e non troppo alta ma deliziosa fra tutte col suo visetto color d’avorio divorato tutto dai grandi occhi verdognoli che una generosa ombreggiatura di kohl sapientemente distribuita faceva ancora più enormi, immensi e pieni di bagliori; Marinka alta e formosa, col largo viso sensuale incoronato da un elmo di capelli neri e crespi allentati un poco dietro il collo grasso bianco e nudo con un contrasto che Lorenzo Rolla doveva trovare irresistibile poichè non staccava un istante i suoi occhi dal viso della ragazza.

— Se ti vedesse tua moglie, te la dà lei la donna cannone! — pensò Ugo.

Non gli piaceva la Marinka. Invece, ’trovava deliziosa Ughetta, così sottile ed elegante nell’attillata veste di velluto viola bordata di pelliccia, sotto la linea breve del berretto di chinchilla. Anche Minerva Fabbri — snella, nervosa, altera, piccola testa dal profilo leggermente aquilino sempre eretta come una sfida — gli piaceva, ma a un altro modo, dove entrava più soggezione che suggestione, come per qualche cosa di troppo alto e di irraggiungibile.

Adesso, Minerva Fabbri osservava curiosamente certe pelli di leopardo e di pantera buttate con profusione sul pavimento come tappeti in una bizzarra confusione con altri magnifici tappeti autenticamente orientali dalle calde tinte inimitabili. [p. 119 modifica]

— Belle! — ella proclamava con ammirazione. — E vere, no?

— Certo.

Ugo intervenne.

— Le ha portate Noris dall’Africa.

— È stato in Africa, Noris?

— Non lo sapevate? — chiese stupito Paolo Adelio.

— Io no.

— Sicuro. Ha fatto parte della squadriglia d’aviatori che ha partecipato alla guerra. È anzi quello che si è spinto più lontano di tutti, sino al Fezzan, oltre il deserto.

— Questi sono, in tal caso, documenti di stato di servizio.

— Precisamente.

La rievocazione di quell’impresa, e la voce di Cino Coralli che ripeteva:

— Dunque, si può bere qualcosa, si o no? — fece sovvenire a Ugo l’ordine di Noris.

Bisognava dire a Tripoletta che preparasse il caffè.

Ma chissà dove s’era cacciata quella cerbiattola spaventata! La chiamò forte, senza speranza di essere udito:

— Tripoletta!

Invece, con sua grande meraviglia, prima ancora che Ughetta avesse esclamato in una risata:

— Che razza d’un nome! — un musetto olivastro contornato da una selva di capelli nerissimi, crespi, corti e ribelli, spuntò da dietro l’uscio socchiuso della stanza attigua.

— Dio! e chi è costei?

— Un altro documento dello stato di servizio di Noris, — spiegò Paolo Adelio.

La Marinka domandò:

— Una figlia avuta laggiù?

— Che! Noris? vi pare?

— Eppoi — fece Cino Coralli, — non vedi che è una ragazza di quindici anni almeno?

— No!

— Sicuro.

Ugo chiamò: [p. 120 modifica]

— Tripoletta, vieni qua!

— Tripoletta! che curiosi nomi dànno in quei paesi! — osservò un’altra volta Ughetta.

— Questo — spiegò Ugo — glielo ha imposto Noris. Il vero nome della ragazza è Haydée, ma era troppo africano e troppo difficile. Tripoletta è più bello, poi riassume tutta la sua storia.

— C’è una storia? — domandò Minerva Fabbri interessata.

— Sicuro.

— Sentiamola.

— Poi, — suggerì Paolo Adelio poichè la piccola africana compariva sulla porta.

Tutti gli occhi dei convenuti erano fissi adesso sulla fanciulla che teneva chini al suolo i suoi con una bizzarra espressione di corruccio, di selvatichezza e di sgomento insieme diffusa sul piccolo viso fierissimo che pareva scolpito nel bronzo.

Alta, sottile e dritta come il fusto delle palme del suo paese, Tripoletta pareva una creatura fatta esclusivamente di nervi, vibrante, guizzante, felina, ardente.

— Bella! — esclamò con convinzione e con entusiasmo Miuerva Fabbri, — bella creatura.

— Sì, — convenne mollemente la Marinka, — se fosse un po’ meno secca e se non avesse quel colore di cioccolattino.

La Fabbri le lanciò un’occhiata di compatimento sprezzante.

— Ma non vedete — esclamò — che pare una statuetta di bronzo?

Paolo Adelio susurrò piano:

— Che cosa volete capisca quella povera pagnotta imbottita?

— Falla venire qua, — pregava Ughetta rivolta a Ugo.

Ma Tripoletta era già scomparsa dopo aver levato sugli amici di Noris uno sguardo di piccola belva provocata.

Ugo dovette andarla a cercare nella stanza attigua per imporle di preparare il caffè e [p. 121 modifica]quando tornò narrò d’aver trovato la fanciulla accasciata per terra, raggomitolata come un gattino colla faccia nascosta nelle braccia incrociate sulle ginocchia.

— È gelosa come la morte, — concluse.

La Marinka e Ughetta scoppiarono in una risata.

— Gelosa? E di chi?

— Di voi, di noi, di tutti.

— Ma è l’amante di Noris? — tornò a chiedere la Marinka.

— Macchè!

— E allora?

— E allora è gelosa perchè lo adora.

— La storia — spiegò Rolla — è questa. Quando Noris era laggiù, si accorse un giorno d’essere sempre seguito da questa creatura. Anzi, non fu nemmeno lui ad accorgersene: lui vive sempre nelle nuvole. Fosti tu se non sbaglio.

— Sissignore, fui io. La ragazza era sempre accovacciata per terra fuori della nostra tenda. Io ve la trovavo al mattino, aprendola; di sera, quando facevo l’ultimo giro di ronda prima di chiuderla. E se Noris partiva colla macchina per i soliti giri di ricognizione, la ragazza era, col viso alzato verso il cielo a scrutare il suo ritorno. Un giorno l’ho interrogata.

— In arabo, — interruppe Folco Ardenza in tono ironico.

— Sissignore, in arabo, precisamente.

— Hai visto? — fece Ughetta rivolta all’amico con aria di ripicco.

Ugo continuò con importanza:

— Capii che anche quella s’era presa una cotta per il padrone.

— Anche? — domandò Minerva Fabbri incuriosita, — ve n’erano state altre, dunque?

Il giovinetto guardò la bella donnina con sorpresa. Da dove veniva dunque costei per non sapere?

— Anche, sissignora, — disse, — perchè era la solita storia che si ripeteva. Dappertutto dove Noris era passato, dappertutto dove passa, [p. 122 modifica]dappertutto, io ritengo, dove passerà, le donne non hanno avuto, non hanno e non avranno occhi e cuore se non per lui.

— Perbacco! A questo punto?

— A questo.

— E lui?

— Niente.

— Il pane tocca a chi non ha denti, — osservò melanconico Cino Coralli avvolgendo in una occhiata di desiderio la Fabbri che non se ne accorse.

Ma la sua osservazione provocava un’allusione scandolezzata della gigantesca Marinka:

— Come? Noris?...

— No! — protestarono in coro gli amici, — Coralli ha voluto dire: a chi non ha fame.

— Sì, ecco.

Minerva Fabbri e Ughetta erano impazienti di sentire il resto della storia.

— Dunque?

— Dunque, — riprese Ugo, — subito, io non ne parlai nemmeno a Noris, finchè un giorno, in seguito all’attentato di un beduino, scongiurato dalla vigilanza appassionata della fanciulla, gli narrai ogni cosa.

— E lui? — domandò Ughetta.

— Lui, fece chiamare Tripoletta e le diede un pugno di monete. La ragazza le lasciò cadere per terra, si inginocchiò e volle baciargli i piedi. Allora, Noris l’abbracciò e la baciò in fronte, poi con belle maniere le fece capire che era meglio che se ne tornasse a casa sua. Non ci fu verso. Quella riprese il suo posto fuori della tenda e non si mosse più. Fu la nostra sentinella fedele per tutto il tempo che noi si rimase laggiù, poi, a farla breve, quando partimmo, sei ore dopo che il vapore aveva levato l’àncora, ce la trovammo a bordo sorridente, fiera, felice. Da dove fosse uscita io non ho saputo mai. La vigilia della nostra partenza era scomparsa e io avevo immaginato che si fosse rifugiata chissà dove per nascondere il suo dolore. Invece era andata a bordo. [p. 123 modifica]

Minerva Fabbri domandò:

— E Noris, cosa fece quando se la vide comparire davanti?

— Sulle prime s’inquietò. La sgridò, le disse che l’avrebbe consegnata al comandante perchè dal primo porto di Sicilia la rimandasse al suo paese. Ma la fanciulla rispose che in tal caso si sarebbe buttata in mare. Son persuaso che l’avrebbe fatto. Parlava con una calma, una tranquillità, una serenità, che dimostravano la sua risoluzione ferma. Quando si accorse che Noris cominciava a tentennare, le si buttò ad piedi supplicandolo con certe frasi che commovevano anche.

— Che diceva? — chiese Ughetta che ascoltava palpitante.

— Cose sconnesse in un bizzarro linguaggio che comprendevamo per intuizione. Supplicava Noris di tenerla, protestava che lo avrebbe servito come una schiava, che avrebbe dormito fuori della sua porta, che gli avrebbe macinato il caffè e preparato il latte di palma. E Noris l’ha tenuta.

— Così — concluse Paolo Adelio — finisce il romanzo orientale di Noris.

Ma Minerva Fabbri protestò:

— Finisce? mi pare appena incominciato. Credete voi che quella piccina non finirà per farsi amare dal vostro amico?

— Tutto può essere, cara. Ma non lo credo.

Noris è invulnerabile come voi, e come voi inesorabile. Ma, ripeto, tutto è possibile. Anche, per esempio, che la fierissima Pallade Atena s’innamori di Ettore Noris.

— Tutto è possibile tranne questo, — disse tranquilla la fanciulla.

— Allora, mettiamo di Cino Coralli.

Stavolta la protesta fu soltanto una sonora risata.

— Davvero? — domandò Paolo Adelio, — così lo disdegnate?

— Così, caro.

— Povero Coralli, non merita, proprio non [p. 124 modifica]merita. Lui, ha una vera adorazione per voi. Guardate come ci osserva, vi prego.

— Siete matto.

Poichè Ughetta aveva ripreso a civettare con Ugo e Lorenzo Rolla appartato presso la finestra colla Marinka stringeva l’assedio nella speranza di ottenere almeno la promessa definitiva della capitolazione della fortezza, Ardenza annunziò:

— Io vado in cerca di Noris.

— Bravo — approvò Paolo Addio — e digli che è un’indecenza farci aspettare così.

Folco Ardenza non ebbe campo di fare l’ambasciata. Il rimprovero di Paolo Adelio giunse direttamente a Noris che proprio in quell’istante metteva piede sull’ultimo scalino.

— Perdonate, — egli si scusò entrando e stendendo le mani, — dovevo terminare un lavoro che non potevo lasciare a mezzo. Ho preso appena il tempo di lavarmi le mani.

— Ma voi lavorate anche il giorno di capodanno? — domandò Ughetta avanzando a salutarlo.

— È Capodanno, avete ragione, ma per me tutti i giorni sono uguali, e in questi posti da lupi, il lavoro è ancora il solo modo di riempire la giornata. Ma voialtri, — domandò mentre salutava tutti intorno: confidenzialmente la Marinka che conosceva da un pezzo, come Ughetta per le relazioni che le due donnine avevano coi suoi colleghi, e Rolla, e Cino Coralli: con una cordialità che non escludeva una più seria considerazione Folco Ardenza che all’aviazione s’era dato per passione e non coll’intento di trarne profitto, ricco com’era e giovane e solo e padrone della sua vita, e Paolo Adelio, il giornalista intelligente, correttissimo e buono sotto la vernice d’uno scetticismo che era soltanto il frutto di una troppo realistica visione della vita, — ma voialtri come mai siete qui?

— Toh! — fece Cino Coralli, — saremo venuti per ammirare il panorama!

— Ingrato: — soggiunse Rolla, — [p. 125 modifica]sacrifichiamo una giornata di festa solenne per venirti a trovare e tu ci domandi perchè siamo qui!

Noris si strinse nelle spalle e s’inchino.

— Io vi ringrazio. E sono commosso. Davvero sono commosso per tanta, cortesia. Mi spiace soltanto di non potervi offrire un’ospitalità degna: sopratutto per le signore mi dispiace.

— Oh, noi siamo in confidenza! — esclamò Ughetta.

Noris aveva fermato adesso lo sguardo sopra la Fabbri con aria interrogatrice.

Allora, Paolo Adelio presentò:

— La signorina Minerva Fabbri, altrimenti detta Pallade Atena.

— Da voi, — interruppe la ragazza.

Ettore s’era inchinato a mezzo non sapendo ancora raccapezzarsi di fronte a quella bizzarra presentazione alla rovescia. Ma Adelio proseguiva già:

— Tu, non è il caso di presentarti. La signorina ti conosce e sa che è tua ospite. Bisogna anzi che ti spieghi, — continuò mentre, intorno, gli altri, si accomodavano con libertà dietro l’invito di Noris: Rolla, sopra una pelle di tigre, ai piedi della Marinka che aveva occupato unica poltrona; Ughetta alle spalle di Folco Ardenza che adesso ella andava stuzzicando per far pace; Cino Coralli cavalcioni su uno sgabello in faccia a Minerva Fabbri che neppur si accorgeva di lui, intenta a Noris che ascoltava Adelio dirgli: — la spedizione di stamattina, è stata organizzata in onore della signorina che desiderava conoscerti.

— Per la ragione speciale — fu pronta a soggiungere la Fabbri — che anch’io voglio diventare aviatrice.

— Ah!

Stavolta, Noris guardò la fanciulla più attentamente, interessato da quella sua risoluzione.

— Già, — tornò a dire Paolo Adelio, — vuol farsi aviatrice la signorina.

— Ha già volato? [p. 126 modifica]

— Due volte, — fu pronta a rispondere la Fabbri, — a Londra., con Graham White la prima e la seconda col povero Level a Issy, pochi giorni prima della sua morte.

— Due maestri formidabili. Ed è stato volando che s’è scoperta la vocazione?

— No; no, veramente. Quando ho volato con Graham White, facevo il primo anno di medicina alla Sorbona. Contavo di diventare medichessa e abitavo a Parigi.

— Poi?

— Poi, niente. Ho fatto tre anni d’università e adesso non ho più voglia di proseguire. Vorrei farmi aviatrice: ho voglia di provare dei brividi. Null’altro.

Il tono col quale la fanciulla aveva espresso i suoi desideri bizzarri era così semplice, così in contrasto colle cose che diceva, che Noris la guardò interessato. Che strana creatura era quella? e dove mai l’aveva scovata Paolo Adelio?

Il giornalista parve indovinare le domande che Noris si rivolgeva perchè spiegò:

— È così, sai: come ti dice. Ed è superfluo cercare perchè sia così. Forse non lo sa neppure lei. Una creatura d’impressioni: null’altro. Ma un cervello saldo e un saldo cuore: se diventerà aviatrice, e lo diventerà, farà parlare di sè.

Noris tacque. Era un po’ scettico in fatto di donne aviatrici e non voleva esprimere il suo parere che avrebbe potuto sembrare una offesa alla signorina.

Ma Paolo Adelio gli rivolgeva adesso una frase che lo faceva scattare:

— Avrai una magnifica, allieva.

— Io?

— Sicuro. La signorina conta di imparare con te.

— Ma io non insegno.

— Non volete? — fece Minerva Fabbri corruscando la fronte, — sta bene: mi sceglierò un altro maestro.

Quella prontezza parve a Noris un segno di risentimento. [p. 127 modifica]

— Non è che io non voglia, — disse, — ma io non insegno.

— Prendete me per maestro, signorina, — propose Lorenzo Rolla.

Ma Coralli, pronto, ribattè:

— Ah no, poi. Se Noris rifiuta prendo io il suo posto.

— Lo prenderesti, vuoi dire....

— Dico: lo prendo.

— E il consenso dell’allieva?

— Ci sarà.

L’allieva, in realtà, si disinteressava di quel dibattito. Ella ascoltava Paolo Adelio intento a spiegare a Noris com’egli non potesse ricusare di accettare per allieva la signorina Fabbri.

— A me — egli diceva — non ricuserai questo favore. Pensa che mi sono impegnato per te.

— Ma in che modo?

— In modo formale. Ieri sera, a teatro, quando la signorina Fabbri, che aveva una poltrona accanto alla mia, m’ha espresso la sua intenzione di farsi aviatrice, io le no detto che ella non poteva avere che un solo maestro: te. Non ti conosceva se non di nome e io allora le ho promesso di accompagnartela qui stamane e ho garantito che tu l’avresti accettata a braccia aperte.

— Invece — osservò la Fabbri sorridendo — Il signor Noris non mi accoglie nemmeno a braccia chiuse.

— Vi accoglierà, — sentenziò un’altra volta Adelio, — anche per la buona ragione che io ho già annunziato nel giornale il vostro proposito e la sua accettazione.

— Hai fatto questo? — esclamò Noris sorpreso.

— Sicuro. La notizia era troppo interessante per privarne i lettori. Questa stessa notte, dopo il teatro, sono andato al giornale e ho dettato due righe in proposito che devono essere uscite stamane.

— Non fate questa faccia desolato, signor Noris, — sorse a dire la Fabbri, — se proprio non ne vorrete sapere, non ne faremo niente. [p. 128 modifica]

Ughetta intervenne:

— Accettatela, Noris. Non è pericolosa. Detesta gli uomini come voi detestate le donne. Andrete molto d’accordo insieme.

Una risata generale accolse queste parole che visibilmente seccavano Noris, ma anche la Fabbri si era unita al coro di risa e allora il giovane si rasserenò.

— Mi permettete una domanda, signor Noris? — domandava adesso la Fabbri immergendo negli occhi chiari di Noris lo sguardo acuto delle sue pupille.

— Prego.

— C’è una ragione assoluta per la quale non possiate accettarmi per allieva? Badate. Io non ho l’abitudine di pregare nessuno ma confesso che mi dorrebbe rinunciare a un maestro come voi. Non vi pregherò so mi confermerete che non volete saperne di me, ma prima di rinunziare a voi come maestro, vorrei vedere se proprio non c’è modo d’intenderci. Dunque?

— Guarda che splendore di testai — osservò Paolo Adelio a Noris indicandogli Minerva Fabbri che aveva levato la sua piccola testa a guardare il giovane con quel risoluto gesto di sfida che la rendeva irresistibile.

Noris corruscò la fronte e tacque. La fanciulla, che aveva udito, lanciò una fredda occhiata al giornalista e disse tranquilla:

— Siete uno sciocco, Adelio.

Si rivolse di nuovo a Noris coll’impressione che l’ osservazione disgraziata di Paolo Adelio avesse compromesso irreparabilmente ogni combinazione possibile.

— Dunque? — ripetè, — fuori le obbiezioni.

Perchè suppongo ne avrete parecchie.

— Due sole.

— La prima?

— La mia libertà alla quale tengo moltissimo e che temo di compromettere.

— Perchè? non crederete mica che io voglia invadere tutto il vostro tempo.

— No, ma io voglio essere padrone di [p. 129 modifica]andare, di restare, di ritornare senza essere vincolato da obbligo alcuno.

— Se non è che questo, c’intenderemo.

— In che modo?

— Voi mi darete lezione quando vi accomoderà: tutti i giorni quando vorrete, o una volta al mese quando vi garberà di non volare.

— Vi ringrazio. Sareste davvero l’allieva ideale, ma io non posso permettermi di trattenervi chissà quanto tempo in paesi da lupi come questi che sono intorno in attesa che a me accomodi di darvi delle lezioni.

— E chi vi dice che io mi stabilirò qui?

— Ah!

— Io starò a Genova, caro Noris, perchè sono una creatura di febbre e di rumore, perchè ho bisogno d’aver sempre una quantità di gente intorno a me, di dormire tutta una giornata se mi garba e di stare alzata tre notti di seguito ubbriacandomi di fumo e di spuma di champagne, come abbiamo fatto stanotte coi vostri amici. Ma tutto questo uon vi riguarda. Volevo soltanto togliervi ogni scrupolo riguardo a una mia eventuale permanenza qui. Io me ne starò a Genova, caro signor Noris, e verrò quassù soltanto quando a voi piacerà di ricevermi.

— E come lo saprete?

— Non avete il telefono, qui?

— No.

— Ah! questo è un guaio. Perchè non avete il telefono?

— Per essere seccato il meno possibile, — spiegò Ugo.

— Per questo?

— Forse, — confermò Noris sorridendo.

— Ma ci sarà pure un telefono in paese.

— In paese, sì.

— Benissimo. Allora, io vi telefonerei tutte le mattine alle dieci precise. Vi disturba troppo mandare a quell’ora uno dei vostri uomini in paese, coll’incarico di dirmi se voi potete ricevermi nel pomeriggio? [p. 130 modifica]

— Mi pare più semplice — intervenne Adelio — fissare i giorni delle lezioni salvo, da parte di Noris, la riserva di farvi avvertire ogni qualvolta non può o non vuole dare la lezione.

— Benissimo, — approvò la Fabbri, — se Noris accetta siamo a posto.

— Bisognerebbe, in tal caso, fissare un’ora tenendo conto dell’orario dei treni.

— No, caro signor Noris. Io verrò colla mia automobile: mi servirà di passeggiata.

— Abbiamo l’automobile, còcolo! — esclamò Ughetta con intenzione.

— Tanto meglio in questo caso.

— Dunque, — concluse la Fabbri lietamente, — la prima obbiezione sarebbe caduta. No?

Noris sorrise.

— Poichè voi siete tanto cortese!

— Benissimo. Fuori l’altra, adesso.

— L’altra è grave. Io non so di essere un maestro abile. Mi sono abituato a pilotare il mio apparecchio in un modo tutto mio. Un modo che non è certo quello consigliabile a un’allieva.

— E cioè?

— La prima cosa da raccomandare a una neofita è certo la prudenza, e io non ne ho.

— Benone. Siete il mio maestro ideale. Io, detesto la prudenza.

— Purtroppo! — entrò a dire la Marinka, — ne sappiamo qualche cosa. Stamattina, partendo da Genova, era lei al volante. Per poco, nello svolto della Lanterna non siamo andati a finire sotto il muraglione.

— L’abbiamo vista brutta davvero, — confermò Rolla.

Ughetta commentò:

— Sfido, io! andava come il fulmine! non si vedevano nemmeno le case: pareva di correre fra due muraglioni grigi.

Minerva Fabbri sorrideva:

— Ho dovuto cedere il posto ad Adelio, — ella disse, — altrimenti le signorine ricusavano di proseguire. [p. 131 modifica]

— Cara! non volevo mica lasciarci la pelle! — dichiarò la Marinka.

La Fabbri prosegui rivolta a Noris:

— Non abbiate dunque scrupolo, caro maestro. Se desidero imparare a volare con voi è appunto perchè voi non assomigliate agli altri maestri.

— Grazie! — fece Lorenzo Rolla senza offendersi affatto.

Stabilito l’accordo sulla cosa che più premeva alla Fabbri, la conversazione si generalizzò: Rolla e Coralli, dimentichi per un momento dei rispettivi amori, presero a interrogare Noris sui suoi progetti e sui preparativi che si diceva egli stesse facendo per una prova inimmaginata mai.

Ma Noris aveva poco da dire o non voleva dire allegando che i progetti erano ancora assai vaghi e appena abbozzati i preparativi.

— È vero — gli domandò Ughetta — che andrete in America in aereoplano?

La risposta alla domanda che solo la ragazza aveva osato fare interessava tutti.

— Forse!

Un sorriso enigmatico errava sulle labbra del giovane.

Minerva Fabbri osservò:

— In America? Attraverso l’Oceano?

— Forse! — ripetè Noris.

— In questo caso, vuol dire che avreste trovato un apparecchio nuovo, perchè coi mezzi attuali di cui l’aviazione dispone non è possibile varcare l’Oceano.

— Vedo con piacere che siete competente, — dichiarò Noris.

Il complimento non commosse la Fabbri ma la conferma che esso conteneva della sua supposizione, sì.

— Avete inventato un apparecchio nuovo? — ella chiese.

— No, finora no. Sto cercando.

— E trovate?

— Forse!

— Lasciategli il suo segreto, cara Pallade [p. 132 modifica]Atena, — consigliò Paolo Addio, — Noris ne è gelosissimo.

— Lo comprendo. Non ci farete nemmeno vedere la vostra officina, nevvero? — soggiunse rivolta a Noris.

Questi pregò infatti:

— No, oggi no, scusate. Ho due operai che lavorano e non vorrei distrarli.

— Contravvenzione alla legge sul riposo festivo, — osservò scherzando rado Adelio.

Ma Ugo fu pronto a ribattere in difesa del maestro:

— Noi siamo fuori della legge; siamo fuori anche della vita.

— Infatti, — osservò una delle ragazze, — vi siete confinati qui in un paese che davvero pare fuori del mondo.

— Tu non ti annoi mai, qui? — domandò Ughetta rivolta al giovinetto.

Ugo le si avvicinò, sospirò, disse piano:

— Adesso mi annoierò molto quando penserò a te.

— Non vieni mai a Genova?

— Qualche volta.

— Io canto alle «Variétés»: vieni a trovarmi. Un’onda di sangue colorì il volto del fanciullo.

— Verrò, — egli promise mentre Folco Ardenza che aveva udito il breve dialogo, si girava per raccomandargli:

— In questo caso fai presto perchè può darsi che posdomani la signorina non ti conosca più. Siamo di memoria labile.

Ughetta protestò:

— Non gli badare: è geloso.

— Sai, — ribattè l’Ardenza che si divertiva, a stuzzicare il ragazzo, — sai a quanti ha già detto da iersera a oggi di andarla a trovare?

— Sentilo!

— A Paolo Adelio, intanto.

— Oh, un giornalista! non conta!

— No, vero? — fece Paolo Adelio intervenendo. E volgendosi all’Ardenza: — Fin qui, scusa, [p. 133 modifica]ma la signorina ha ragione. Un giornalista, per lei, è l’aggettivo; quindi, rientra nel dovere professionale.

— Bella teoria! a questa stregua....

— Sicuro, — interruppe ancora l’Adelio, — a questa stregua non conti più nemmeno tu perchè tu sei l’ amico ricco, che paga, cioè, il mezzo per avere la pelliccia, i brillanti e le piume pleureuses e i costumi che fanno andare in visibilio il pubblico: cioè, ancora un’appendice del dovere professionale.

— O guarda!

Folco Ardenza era in fondo più seccato di quanto non volesse apparire.

— Allora? — egli disse.

— Allora — riprese implacabile Paolo Adelio — la conclusione è questa: che se Ughetta invita quel ragazzetto lì che forse non ha in tasca tonto da pagare l’auto....

— Prego! prego! — scattò Ugo. — chi lo dice? per chi mi piglia lei? Io ho da casa mia quanti quattrini voglio!

— Ah, pardon! non sapevo. Ughetta, sei avvertita. Il signore è un principe in incognito.

— No, sono appena il figlio di un medico e fra un anno sarei ingegnere se non adorassi l’aviazione.

— E Noris, — soggiunse Rolla.

— E Noris, — confermò Ugo.

Paolo Adelio sorrideva.

— Bene, bene. Prendo atto di tutto. Me ne spiace per Folco Ardenza che è minacciato seriamente nel cuore di Ughetta se Ughetta s’illude di poter attingere altrove. E anche per te, piccolo, mi dispiace. Perchè la ragazza aveva un capriccio per il tuo musetto bianco e ardito, mentre adesso il capriccio minaccia di naufragare in un gran rispetto pel tuo portafoglio.

Il battibecco durò ancora un poco fra Ughetta offesa e Folco Ardenza seccato e Ugo aggressivo e Paolo Adelio canzonatore, mentre intorno, gli altri, ridevano e Minerva Fabbri s’intratteneva a voce sommessa con Noris. [p. 134 modifica]

Il senso di noia che Ettore Noris aveva subìto non appena gli era stata offerta e quasi imposta quell’allieva, andava dissipandosi man mano egli scopriva nella conversazione le doti davvero singolari di equilibrio e di acutezza della fanciulla.

Dritta nel suo giudizio, recisa nelle sue affermazioni, salda nelle sue pronte risoluzioni, Minerva Fabbri aveva in tutte le sue manifestazioni ed in tutta la sua espressione qualcosa di virile che se ispirava l’ammirazione neutralizzava però qualsiasi senso di turbamento.

— Una creatura singolare, — pensava Noris ascoltandola. — Dove mai è andato Paolo Adelio a cavar fuori costei?

Dove fosse andato lo seppe più tardi quando, dopo aver sorbito il caffè preparato dalle mani di Tripoletta, le tre donne, in compagnia di Folco Ardenza, di Coralli e di Rolla, scesero sul prato bianco di neve, a fare alle palle, lasciando soli l’aviatore ed il giornalista.

— Mi dici che tipo è codesta Fabbri?

— Non hai veduto? una magnifica statua dotata d’intelligenza.

— Soltanto?

— Presso a poco. Sarebbe strano che una creatura così bizzarra dovesse avere un cuore.

— Italiana?

— Ah, uno stato civile complicatissimo, degno della complicatissima creatura che ne è stata la risultante: padre italiano. Sai, è figlia del famoso Fabbri esploratore morto assassinato nello Yemen.

— Ho capito: un bizzarro spirito anche quello.

— Sì, ma l’audacia personificato. Come sua figlia, vedrai. Io l’ho veduta cavalcare certi cavalli nuovi nelle scuderie di Lanza con un rischio da dare il brivido.

— Bene.

— La madre era russa: una medichessa e cospiratrice che una volta sposata col Fabbri si mise a vagabondare pel mondo con lui. La ragazza è nata in Grecia. Vedi che complicazione? [p. 135 modifica]Certo, è molto intelligente e coltissima anche. Parla sei lingue, ha fatto l’Università, s’intende di tutto, fa un po’ di tutto. È stata in aereoplano, in pallone libero e in dirigibile: ha salito il Cervino e il Monte Bianco: ha fatto a nuoto il lago di Garda per una scommessa: tira di fioretto come un maestro di scherma e punta alla rivoltella senza sbagliare un bersaglio. Un tipo, ti dico.

— Me ne accorgo. E capisco anche che sarebbe assai difficile pretendere di scoprire un’anima dentro un simile groviglio di stranezze.

— Chissà. Io ho preferito fermarmi alla superficie.

— Ah!

— No! non volevo dire quello. E non voglio che tu lo creda. Sarebbe una calunnia. La condotta di Pallade Atena è limpida come un cristallo.

Noris sorrise.

— Non ci credi?

— Non ho il diritto di non credere. Il tuo termine di confronto soltanto mi fa sorridere.

— Perchè?

— Perchè è un po’ eccessivo paragonare a un cristallo terso una fanciulla che va attorno in compagnia di canzonettiste e di giovanotti e che passa l’ultima notte dell’anno ad ubbriacarsi di champagne in un sbottino particolare d’un ridotto allegro.

— Hai ragione. Le apparenze sono tutte contro di lei, eppure io giurerei che nessun uomo ha mai nemmeno sfiorato le sue labbra.

Un’ombra passò fugace — come un turbamento improvviso — sul viso di Noris.

— Se tu fossi stato con noi, — proseguì Paolo Adelio, — non dubiteresti della mia convinzione. Il contegno della Fabbri, durante tutte le nostre follie è stato quello di una perfetta assente. Mica che inalberasse delle arie austere o disapprovatrici. Guardava anzi fare, ascoltava, sorrideva se qualche cosa meritava un sorriso, ma per sè non si è concessa mai nulla oltre l’ebbrezza di una sigaretta. [p. 136 modifica]

— Una volta, non conta.

— Io l’ho veduta non una, ma cento volte, e ho conosciuto tutti gli amici suoi. Il giudizio è stato unanime, sempre.

— Una sfinge.

— Appunto. Io la chiamo invece la saggezza marmorea.

— Ma la ragione della sua vita sbrigliata?

— Nessuna. Una gande curiosità di vedere tutte le cose, di conoscere tutto, di sapere tutto. Una ripugnanza istintiva a prendere parte alle commedie, alle farse, alle pochades alle quali fa da spettatrice.

— Vive sola?

— Sola. Ed è ricca. È appunto questa sua assoluta indipendenza che le dà la possibilità di condurre la vita che conduce. La vita di un uomo, ecco, d’un uomo che fosse liberissimo e castissimo insieme. Un tipo, — concluse Adelio, — vedrai. Ma son sicuro che, in fondo, mi sarai grato d’avertela fatta conoscere.


*


Così, Minerva Fabbri divenne l’allieva di Ettore Noris, un’allieva pronta ad apprendere, audace nel provare, docile alle correzioni, attenta alle spiegazioni, non sdegnosa di conoscere anche i particolari più umili del funzionamento della macchina, desiderosa di poter gareggiare anche coi meccanici in tutte le cure gelose dell’apparecchio.

Ettore Noris non ebbe ragione di pentirsi d’averla accolta. La Fabbri veniva regolarmente da Genova ogni due giorni accompagnata soltanto da un ragazzetto che le faceva da chauffeur e sedeva rannicchiato ai piedi della fanciulla mentre questa guidava la vettura con una velocità folle superata soltanto dalla grande sua abilità. Veniva, Minerva Fabbri, salutava [p. 137 modifica]affettuosamente Ugo che dapprima l’aveva guardata con sospetto e adesso man mano andava riconciliandosi con lei, più brevemente Noris, con la correttezza fredda d’un maschio verso un altro maschio, s’informava del procedimento dei suoi lavori per la gran prova e subito s’apprestava per la lezione.

Talvolta, prima di abbandonare l’hangar, ella saliva a salutare Tripoletta per la quale teneva sempre in fondo alle tasche del suo mantello di pelliccia un cartoccio di dolciumi, ma che non era ancora riuscita ad addomesticare per quanta arte ella impiegasse per cattivarsela.

Tripoletta non osava più respingere i dolci che la bella signora portava dacchè Ettore Noris che un giorno aveva veduto lo sgarbo l’aveva rimproverata fino a farla piangere: nemmeno ardiva rinchiudersi più nella ostilità che pareva irrigidirla tutta. Adesso si lasciava accarezzare passiva da Minerva Fabbri, tendeva la sua manina bruna e nervosa per rispondere al saluto della bella signora, schiudeva anche le labbra fresche e tumide sui dentini bianchi minuti e fitti per sussurrare una frase gentile, ma negli occhi serbava immutato il rancore e il dolore, immutata la fiamma d’odio che pareva sprigionarsi non appena la Fabbri era scomparsa per seguirla e avvolgerla tutta.

Non poteva dire a nessuno, Tripoletta, il male atroce che le facevano, dentro, le visite della bella signora elegante e profumata che sorrideva a Noris, alla quale Noris sorrideva e che egli si portava via, poi, per il campo sulla sua macchina prodigiosa. Nessuno vedeva la figuretta bruna ritta dietro lo schermo delle griglie socchiuse seguire tutte le fasi della lezione e tremare come una canna sotto il vento ogni volta che gli occhi di Minerva Fabbri cercavano quelli di Ettore Noris e vi si affissavano. Nessuno sapeva che partita la Fabbri, Tripoletta prendeva il cartoccio dei suoi dolci e correva a nasconderlo dentro un armadietto dove già si ammucchiavano tutti quelli che lo avevano preceduto, [p. 138 modifica]perchè per nessuna cosa al mondo ella avrebbe acconsentito a gustare uno di quei dolci....

Nemmeno Minerva Fabbri, che pure era convinta che Tripoletta amasse Noris con passione assoluta, sospettava quella gelosia atroce e quel rancore così doloroso. Qualunque idea di debolezza sentimentale era così lontana dal suo sogno che neppure la sfiorava il sospetto di essere temuta da alcuno come una nemica.

Certo, ella aveva concepito subito una viva simpatia per Noris che all’infuori della sua superiorità professionale assoluta le appariva diverso da tutti gli uomini avvicinati in Italia — chiuso, concentrato, austero — simile soltanto a qualche tipo d’apostolo incontrato fra i colleghi slavi d’università.

Ma nella sua simpatia non entrava alcun turbamento che potesse darle un allarme.

Adesso, dopo tre settimane che ella osservava il suo maestro, sentiva la curiosità di conoscerlo non meno viva della passione di emularne l’abilità.

I discorsi che le tenevano, a Genova, gli amici e i colleghi di Noris determinavano vieppiù questa curiosità.

Ella non poteva ormai imbattersi in Paolo Adelio, nell’Ardenza, in Lorenzo Rolla senza sentirsi chiedere:

— Ebbene, come va il cuore?

— A che punto siamo?

— Domato, il vincitore del Cervino?

— Caduto, l’invulnerabile?

Dapprincipio s’era inquietata. Adesso rideva. Sapeva che le insinuazioni non rispondevano a un preciso sospetto, che anzi, in fondo, tutti gli amici di Noris erano convinti della sua perfetta invulnerabilità.

Troppo convinti.

— L’Incombustibile, — lo aveva soprannominato Cino Coralli.

E Folco Ardenza, che nutriva una sincera simpatia fatta anche d’affettuosità per il Noris, le diceva convinto: [p. 139 modifica]

— In fondo, vedete, se poteste turbarlo un poco, fareste un’opera buona. Non fate quel volto stupito. So già. cosa mi volete dire: che bisognerebbe, prima, ch’egli turbasse voi. Lo so. E mi rincresce che ciò non avvenga, credete. Credo che Noris sarebbe più felice se potesse amare.

Infine, la sua invulnerabilità, mi fa quasi male.

— Ma perchè? — obbiettava la Fabbri.

Non capiva la smania di tutti quegli uomini di voler travolgere anche Noris nella vertigine che per essi riassumeva sola tutta la felicità della vita. Pareva che lo sprezzo sereno del giovane per tutte le debolezze sentimentali e per tutte le complicazioni galanti li offendesse come una ostentata superiorità. Perchè non potevano invece ammettere che egli ubbidisse semplicemente ad una sua istintiva frigidità che lo metteva al riparo da ogni insidia del cuore e dei sensi? Non avveniva lo stesso per lei?

Ecco, ella sì comprendeva Noris e perchè lo comprendeva lo approvava. Non aveva mai sentito il bisogno di specchiarsi in un’altra creatura per vivere e le ripugnava così l’idea di assorbire un’altra vita come quella di lasciar assorbire la sua. No. Ognuno doveva vivere per sè, orgogliosamente, alteramente, anche aridamente.

Aveva ragione Noris. I folli erano coloro che non riuscivano a comprenderlo, che ogni sforzo mettevano in una parvenza di conquista che appena realizzata diventava schiavitù e peso e diminuzione; coloro che lo stordimento confondevano con l’ebbrezza e l’ebbrezza colla felicità; coloro che chiamavano voluttà il prostituirsi alla ricerca d’un brivido del sangue che non aveva ripercussione nel profondo del cuore.

Ella comprendeva Noris e gli attribuiva le prerogative del suo spirito, gli atteggiamenti della sua personalità; il suo freddo orgoglio garanzia di dignità, la sua glaciale alterezza garanzia di castità.

Egli era, nel suo concetto, un solitario sentimentale perchè non provava il bisogno di amare e rimaneva, nella vita, l’incorruttibile perchè [p. 140 modifica]avrebbe considerato avvilimento il gesto d’amore non accompagnato dalla febbre del sentimento.

Era forse sola, era certo sola nel suo ambiente a comprendere Noris. Per tutti gli altri, l’indifferenza dell’aviatore a qualsiasi fascino femminile cominciava ad assumere proporzioni di leggenda. Gli si attribuivano sdegnose ripulse che egli non aveva mai avuto occasione di fare anche perchè la sua esistenza appartata metteva addirittura una barriera fra lui e il mondo e la società.

Era verissimo però che molti cervelli femminili sognavano di lui e lo rivestivano di idealità e foggiavano sull’immagine sua il sospirato e l’atteso.

Nel mondo della galanteria femminile era specialmente discussa e insidiata la sua indifferenza perchè quello era il campo dove i colleghi suoi in aviazione coglievano i loro maggiori allori, dove più cercavano la facile gioia che doveva far obliare la sempre vicina possibile morte e compensarla eventualmente.

«Carpe diem!» Il motto pagano del poeta latino pareva riassumere nella pratica della vita tutta la filosofia di quel manipolo di giovani votati sempre a una possibile tragica morte, sospesi sempre fra il sorriso fulgido della vittoria e il buio del sepolcro spalancato. Cogli l’ora! ruba l’ora! Prendi della vita tutti i sorrisi, dell’ebbrezza tutte le vertigini, della voluttà tutto le febbri perchè nessun rammarico turbi la tua agonia se mai avvenga che la Morte piombi su di te nello spazio azzurro e ti folgori insieme alla tua orgogliosa audacia! «Carpe diem!»

Quando giungeva felicemente sui campi di arrivo dopo una difficile prova, un viaggio avventuroso, una tappa di circuito, ognuno di quei giovani aveva, primo d’ogni altro, un identico pensiero: la sua donna!

Intorno, i commissari, i giornalisti, gli appassionati, i curiosi lo circondavano, lo acclamavano, lo esaltavano: circolavano i calici di [p. 141 modifica]champagne, gli obbiettivi fotografici scattavano, le macchine cinematografiche facevano sentire il loro ticchettìo misterioso sottile come il ronzare d’un’ape e il clamore frenetico d’una folla ignorata, esaltata, stupita, dominava alto su tutte le cose: il giovane aveva solo una domanda:

— Il telegrafo?

E s’avviava, e sotto gli occhi di cento curiosi dei quali fin l’indiscrezione gli era indifferente, tracciava il rigo che doveva portar la notizia della vittoria nuova a un piccolo cuore caro e soltanto a una cara bocca.

Anche Ettore Noris domandava arrivando dove fosse il telegrafo: ma con minore impazienza e non per calmare la trepidazione e l’ansia d’un piccolo cuore, non per dare un palpito nuovo d’orgoglio a un bianco seno dove egli avrebbe posato il capo, tornando, per cogliere dall’amore il premio del valore.

Noris telegrafava alle sue Case. Non volava più che per conto proprio, ormai, ma usava sempre a Blériot il riguardo d’avvertirlo d’ogni nuova prova superata dal suo apparecchio e ai Kindler-Peaxly quello di confermare ogni volta il successo del loro motore.

Poi, si concedeva, senza entusiasmo ma con cortesia ai signori del comitato, ai giornalisti, ai curiosi; posava rassegnato dinanzi ai cento obbiettivi che fissavano il suo viso di energia e di malinconia, accettava uno fra i tanti banchetti che gli venivano offerti e ripartiva il più presto possibile.

Siccome era buono e cortese, nessuno gli serbava rancore per il riserbo che egli portava nelle sue relazioni colle persone; persino le piccole amiche dei suoi amici che pur sapevano d’essergli perfettamente indifferenti gli volevano bene anche perchè sapevano di poter contare sulla sua generosità disinteressata in ogni momento di crisi.

Perchè questo modo di essere dovesse meravigliare gli amici dell’aviatore e gli indifferenti e gli estranei, Minerva Fabbri non riusciva a [p. 142 modifica]comprendere. A lei pareva naturalissimo che Ettore Noris fosse così: le pareva facile approvarlo, le sembrava superfluo ammirarlo. Se una cosa la stupiva non era già la serena invulnerabilità di Noris ma la pertinacia con cui i suoi amici si ostinavano a voler trascinarlo nella loro orbita di dissipazione.

Perchè non lo lasciavano stare? Ogni giorno, su all’aereodromo di Cassano Spinola, giungevano messaggi contenenti inviti e preghiere: sarebbe venuto, Noris, la sera, a Genova? c’erano in progetto una cena allegra, una partita d’azzardo, un giro di «roulette» in un ambiente nuovo e splendido....

Qualche volta Noris accettava, scendeva in città con un treno della sera, partecipava alla cena allegra che per lui rimaneva una cena soltanto, senza aggettivi; trovava intorno alla tavola da giuoco una ghirlanda di belle creature che conosceva quasi tutte di nome e colle quali scambiava tranquillo un sorriso o una frase indifferente, giuocava e perdeva o vinceva colla stessa serenità, poi, salutava e si ritirava senza ascoltare le proteste dei colleghi e degli amici che lo avrebbero potuto trattenere e averlo compagno d’orgia.

Gli accadeva sovente di trovare in quelle riunioni anche Minerva Fabbri e non se ne meravigliava ormai perchè conosceva le bizzarre abitudini della fanciulla che non temeva di compromettersi avvicinando certe creature e trattandole come conoscenti qualsiasi e partecipando a certe riunioni che degeneravano quasi sempre in orgie.

— Noi, — soleva dirgli Minerva Fabbri sorridendo, — portiamo la veste di amianto. Possiamo andare impunemente tra le fiamme.