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prendere. A lei pareva naturalissimo che Ettore Noris fosse così: le pareva facile approvarlo, le sembrava superfluo ammirarlo. Se una cosa la stupiva non era già la serena invulnerabilità di Noris ma la pertinacia con cui i suoi amici si ostinavano a voler trascinarlo nella loro orbita di dissipazione.

Perchè non lo lasciavano stare? Ogni giorno, su all’aereodromo di Cassano Spinola, giungevano messaggi contenenti inviti e preghiere: sarebbe venuto, Noris, la sera, a Genova? c’erano in progetto una cena allegra, una partita d’azzardo, un giro di «roulette» in un ambiente nuovo e splendido....

Qualche volta Noris accettava, scendeva in città con un treno della sera, partecipava alla cena allegra che per lui rimaneva una cena soltanto, senza aggettivi; trovava intorno alla tavola da giuoco una ghirlanda di belle creature che conosceva quasi tutte di nome e colle quali scambiava tranquillo un sorriso o una frase indifferente, giuocava e perdeva o vinceva colla stessa serenità, poi, salutava e si ritirava senza ascoltare le proteste dei colleghi e degli amici che lo avrebbero potuto trattenere e averlo compagno d’orgia.

Gli accadeva sovente di trovare in quelle riunioni anche Minerva Fabbri e non se ne meravigliava ormai perchè conosceva le bizzarre abitudini della fanciulla che non temeva di compromettersi avvicinando certe creature e trattandole come conoscenti qualsiasi e partecipando a certe riunioni che degeneravano quasi sempre in orgie.

— Noi, — soleva dirgli Minerva Fabbri sorridendo, — portiamo la veste di amianto. Possiamo andare impunemente tra le fiamme.