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pagne, gli obbiettivi fotografici scattavano, le macchine cinematografiche facevano sentire il loro ticchettìo misterioso sottile come il ronzare d’un’ape e il clamore frenetico d’una folla ignorata, esaltata, stupita, dominava alto su tutte le cose: il giovane aveva solo una domanda:

— Il telegrafo?

E s’avviava, e sotto gli occhi di cento curiosi dei quali fin l’indiscrezione gli era indifferente, tracciava il rigo che doveva portar la notizia della vittoria nuova a un piccolo cuore caro e soltanto a una cara bocca.

Anche Ettore Noris domandava arrivando dove fosse il telegrafo: ma con minore impazienza e non per calmare la trepidazione e l’ansia d’un piccolo cuore, non per dare un palpito nuovo d’orgoglio a un bianco seno dove egli avrebbe posato il capo, tornando, per cogliere dall’amore il premio del valore.

Noris telegrafava alle sue Case. Non volava più che per conto proprio, ormai, ma usava sempre a Blériot il riguardo d’avvertirlo d’ogni nuova prova superata dal suo apparecchio e ai Kindler-Peaxly quello di confermare ogni volta il successo del loro motore.

Poi, si concedeva, senza entusiasmo ma con cortesia ai signori del comitato, ai giornalisti, ai curiosi; posava rassegnato dinanzi ai cento obbiettivi che fissavano il suo viso di energia e di malinconia, accettava uno fra i tanti banchetti che gli venivano offerti e ripartiva il più presto possibile.

Siccome era buono e cortese, nessuno gli serbava rancore per il riserbo che egli portava nelle sue relazioni colle persone; persino le piccole amiche dei suoi amici che pur sapevano d’essergli perfettamente indifferenti gli volevano bene anche perchè sapevano di poter contare sulla sua generosità disinteressata in ogni momento di crisi.

Perchè questo modo di essere dovesse meravigliare gli amici dell’aviatore e gli indifferenti e gli estranei, Minerva Fabbri non riusciva a com-