La Veste d'Amianto/Parte prima/VII
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VII.
— Sei qui, Ugo?
Entrando improvvisamente nello hangar, Ettore Noris sorprese uno spettacolo che lo inchiodò un istante sulla soglia muto e scontento: Ugo era nel capanno e v’era anche Tripoletta ed il giovinetto finiva di baciare l’africanina che gli si dibatteva fra le braccia come una piccola fiera incappata nel laccio.
L’apparizione di Noris agghiacciò Ugo e liberò Tripoletta che fuggì via gridando nel suo bizzarro linguaggio incomprensibile delle parole che senza dubbio dicevano l’ira sua per l’offesa patita e lo strazio d’essere stata sorpresa dal «Sidi» mentre le veniva inflitta l’ingiuria.
Ugo ebbe una gran tentazione ai imitarla: si rivolse, finse di cercare qualcosa intorno e raggiunse la porta dove una frase di Noris lo arrestò:
— Perchè scappi?
La voce di Ettore era triste ma senza ira. Caduta la sorpresa della scoperta non voleva dar troppa importanza alla cosa.
— Vieni qua, — disse.
Ugo gli si accostò ancora confuso in viso ma già tranquillo.
— Sei innamorato di Tripoletta?
Il ragazzo sorrise.
— Innamorato proprio, — disse, — no.
— E allora? — E allora.... non so nemmeno io. Non mi dispiace, ecco. E l’ho sempre tra i piedi!
— Ma lei, ti vuole?
— Veramente no.
— E allora, lasciala in pace.
— La lascerò in pace, signor Noris.
Fu tutto.
Felice di aver stornato la tempesta, Ugo domandò con tutta la sua trovata disinvoltura:
— Mi cercava?
— Sì, volevo chiederti se non è ancora arrivata la posta.
— Eccola.
Indicò un fascio di lettere e di giornali deposti sopra un banco nel capanno.
— Stavo per venir su a portargliela io....
— Tu, — comandò Noris, — preparati ad andare a Genova.
— Stamattina?
— Subito.
— Benissimo.
Rimasto solo hel capanno, Noris vi si rinchiuse. Voleva esser solo per qualche istante fin che si fosse dissipato il senso di tedio che lo teneva. Che cosa gli turbasse lo spirito non sapeva bene ma certo pel momento era smarrito il suo meraviglioso equilibrio interiore e offuscata la sua serenità.
Da che proveniva il disagio? Dal sole di marzo che brillava fuori già caldo, già intenso di profumi, risvegliando tutti i fermenti, quelli della terra e quelli del sangue, o dalla scoperta fatta nel capanno?
Non si soffermò a ricercare.
Come sempre soleva fare quando dentro sentiva qualcosa ridestarsi o lagnarsi o sognare, cercò un’occupazione che assorbisse tutte le sue facoltà e non lasciasse più campo al vagabondaggio fantastico.
Ma lavorare era difficile adesso. Anche i progetti e i preparativi di Noris subivano in quel momento una forzata pausa d’attesa.
Certo l’aviatore aveva il suo sogno accarezzato durante tutto l’inverno, preparato, per la attuazione, con tutta la possibile accuratezza, ma non soltanto da lui dipendeva l’attuazione di quel sogno e il giovane ingegnere che era diventato il suo grande collaboratore doveva appunto arrivare in quei giorni per intendersi con Noris intorno alle prove dell’audacissimo cimento che avrebbe meravigliato il mondo.
Anche quell’arrivo imminente entrava in parte nelle ragioni del suo vago scontento. L’ingegner Dauro, antico compagno di studi di Ettore Noris e suo attuale collaboratore aveva manifestato l’idea di abitare nel padiglione dell’aereodromo, insieme a Noris, per essere più uniti, più raccolti, più soli e potersi così dedicare interamente al lavoro che si proponevano di fare insieme. E Noris, che pure era affezionato all’amico, era stato disturbato da quel progetto.
Egli era geloso della sua solitudine come di una intimità che non ammetteva profanazioni e a malincuore aveva accondisceso ad accogliere l’amico, a malincuore si accingeva a mandare Ugo a Genova per provvedere le suppellettili indispensabili all’arredamento della stanzetta che l’ingegner Dauro avrebbe occupato. Ecco: nel fascio di lettere che attendevano ancora chiuse e suggellate sul banco una appunto ve n’era di Dauro che Noris aperse per la prima. Dauro annunziava il suo arrivo per il 28 e si era al 25.
— Ho appena il tempo di preparargli un letto, — penso Noris, rimettendo la lettera nella busta e accingendosi allo spoglio delle altre. Come sempre, compiva quell’operazione con una indifferenza che rasentava la noia. La posta dell’aviatore era sempre voluminosa ma raramente gli accadeva di trovare fra le lettere numerosissime di indifferenti o di ignoti il foglietto che avvincesse la sua attenzione o suscitasse il suo interessamento.
Ecco: una lettera femminile. Una fanciulla pregava l’aviatore illustre perchè volesse proteggere e appoggiare il suo fidanzato che voleva farsi aviatore.
— Non lo ama, — pensò Noris distruggendo la lettera.
Per principio egli non incoraggiava mai i candidati spontanei al più probabile fra i rischi. La morte tragica doveva venire affrontata con piena coscienza e con determinata volontà.
Ecco: un’altra lettera di donna, ma quanto diversa dalla prima! Una ignota lo supplicava, qui, perchè egli volesse distogliere il suo amante dal proposito di farsi aviatore.
— Interessante. Una creatura che ama davvero, — pensò Noris.
Rilesse la lettera più attentamente sentendo ripercuotersi nel più accelerato palpito del suo cuore l’onda di passione che traspariva dalla breve supplica concitata. E rammentò. Un piccolo giornalista il cui nome rispondeva al nome scritto nella lettera gli aveva infatti rivolto la preghiera di poter volare con lui. Egli aveva lasciato senza risposta quella preghiera. Si propose di scrivere al giornalista e di invitarlo per poterlo persuadere a desistere dal proposito folle.
La piccola amante gli sarebbe stata grata. Ecco, il proposito di quella buona azione riusciva a dissipare in parte il tedio della sua anima. Era contento di poter giovare a qualcuno, contento anche d’aver scoperto una creatura d’amore. Una vera amante era questa ignota lontana, che adesso tratteneva il suo pensiero e che risuscitava nel suo pensiero, viva come sempre era viva nel suo cuore, l’immagine di Eva, la piccola perduto.
Un’amante era questa, come Eva.
Gli parve, per un istante, che le due figure si fondessero, che l’ignoto prendesse il viso della morto e questa la voce della sconosciuta, lontana per vincere nel duello nuovo fra l’amore e la gloria tragica.
Sì, egli avrebbe ascoltato la voce ignota che sembrava supplicarlo per le suggellate labbra di Eva e la piccola appassionata amante avrebbe salvato i diritti del suo cuore.
Così avesse egli saputo ascoltare un giorno le suppliche della diletto perduta!
Lasciò vagare un istante la fantasia a immaginare quello che sarebbe stata la sua vita se Eva non fosse morta ed egli avesse rinunziato al suo sogno.
Certo, avrebbe ignorato la febbre e la gloria, ma in cambio avrebbe conosciuto la felicità. Una felicità modesta e silenziosa — un nido, due braccia bianche, una fresca bocca, un ardente cuore acceso sempre come una lampada votiva — ma sicura e profonda e buona: la parte migliore.
Perchè non aveva ascoltato le preghiere di Eva? perchè non aveva ceduto alla intuizione di lei ratta acuta e infallibile dalla potenza del suo stesso amore? perchè non aveva rinunziato al folle sogno e accettata la piccola realtà sicura e ridente?
Ora, sarebbe stato oscuro e ignoto, ma avrebbe avuto caldo al cuore. E il suo viso sul quale nessuno, lungo la via, avrebbe posto un nome, si sarebbe illuminato della luce radiosa d’amore rientrando nella sua piccola casa felice. Invece.... Invece aveva tutto tranne la felicità. La ricchezza, sì, e la gloria e la popolarità: tutte le cose che abbagliano gli occhi ma che non scaldano il cuore.
Ed Eva era morta. Ed egli pure era come un morto, dentro, tanto tutte le fiamme erano spente nella sua anima e inaridite tutte le sorgenti. Era un morto che aspettava la morte e che la morte pareva disdegnare.
Il pensiero commentava, constatava, lamentava. E le mani, intanto, aprivano una dopo l’altra le lettere sulle quali gli occhi si posavano un istante distratti, staccati. Nomi estranei: cose estranee: offerte di concorsi, preghiere di Comitati, suppliche d’inventori.
Un istante, gli occhi si soffermarono attenti sopra un nome e anche il pensiero si arrestò: Minerva Fabbri scriveva per avvertire Noris che gli dava vacanza per dieci giorni:
«La primavera risveglia nelle mie vene impetuose nostalgie di vagabondaggio: vado a far la zingara per dieci giorni».
Una sicura scrittura piena di energia, slanciata, dritta, chiara.
— Scrive limpido come vive, — pensò Ettore Noris, e per un istante l’immagine di Minerva Fabbri lo riconciliò colla vita.
Venne poi subito, non a deprimerlo ma a turbarlo profondamente, un’altra lettera, più breve ancora di quella di Minerva Fabbri, firmata anch’essa con un nome femminile: Susanna Pearly. Gli occhi di Noris, che erano subito corsi alla firma con una subitanea impressione di sorpresa lieta, rimasero sbarrati e attoniti sulle righe brevi della lettera:
«Caro amico lontano, io muoio: vorrei prima vedervi ancora una volta».
Null’altro.
Dieci volte Noris rilesse il messaggio breve e lugubre senza riuscire a spiegarselo. Che accadeva, che era accaduto a Susanna?
Una tragedia? una sventura? una catastrofe?
Quella era la prima notizia diretta che gli giungeva dalla fanciulla dopo più d’un anno, dal giorno che egli aveva avuto, nel triste dialogo dell’hangar, la rivelazione dell’amore nato senza sua colpa nell’animo di Susanna.
Fedele alla sua dignità, ella non aveva più scritto e nessuno più aveva dato a Noris notizie dirette di lei. Soltanto un giorno, Max Kindler che manteneva immutati i suoi rapporti d’affari coll’aviatore, aveva scritto narrando a Noris come il suo matrimonio con Susanna fosse stato aggiornato per le condizioni di salute della signorina che non erano più floride come prima. Noris aveva espresso il suo rammarico e formulato i suoi voti, convinto però che quella fosse una scusa trovata da Susanna per non mandare subito a effetto l’inviso matrimonio con Kindler.
E non aveva più saputo nulla. Anche Kindler, veramente, non scriveva più da due mesi, per la semplice ragione che nessun attuale affare lo legava a Noris.
Che cosa poteva essere accaduto in quei due mesi?
Guardò per la decima volto la lettera: e soltanto allora s’accorse che era datata da Bordighera e che portava in testa il nome di un grande albergo internazionale.
Un sussulto.
Gli parve che quella intestazione e quel timbro postale confermassero con una gravità senza illusioni le condizioni tristissime di Susanna.
Anche, si sentì un poco umiliato dal fatto di non aver potuto conoscere prima le reali condizioni della fanciulla.
Susanna era in Riviera, era a qualche ora appena da Genova, malata, triste, ed egli non aveva saputo nulla, non aveva indovinato nulla, non aveva potuto fare nulla per lei! Si sentì umiliato da quelle constatazioni come se davvero vi entrasse, per parte sua, della colpa.
Egli aveva respinto l’amore della fanciulla ma lo aveva promesso d’essere un fratello per lei e in realtà era stato indifferente e oblioso! Che cosa aveva pensato, di lui, Susanna? E come lo aveva giudicato?
Con commozione infinita pensò che Susanna non gli aveva serbato rancore alcuno poichè lo chiamava.
Non un istante discusse con sè stesso se sarebbe andato; sarebbe certo andato. Forse, Susanna non moriva e quel grido, invece di essere lo spasimo di un’agonia era soltanto il gemito d’una melanconia insanabile e di una energia vicina a naufragare. Ma comunque fosse, egli avrebbe risposto degnamente alla invocazione della fanciulla.
Bisognava partire, e subito.
Terminò di scorrere le lettere che ancora gli rimanevano con una indifferenza distratta che la preoccupazione nuova aggravava. Folco Ardenza che gli partecipava d’aver rotto definitivamente con Ughetta e d’essere partito per Montecarlo per scacciare ogni tentazione di nostalgia, non ebbe l’onore di suscitare nel suo spirito l’impressione più lieve.
Lorenzo Rolla che lo pregava di usargli la complicità di chiamarlo telegraficamente a Cassano perchè egli potesse giustificare di fronte a sua moglie un’assenza che in realtà intendeva consacrare alla Marinka, aveva scritto e pregato invano.
— Sta fresco se aspetta me! — mormorò Noris, mentire faceva in pezzi la lettera.
Adesso, lo spoglio della corrispondenza era finito. Noris la raccolse tutta e la rinchiuse in un cassetto del banco ripassandola in rassegna mentalmente e rapidamente per vedere se nessuna di quelle lettere esigesse una risposta immediata.
Nessuna.
— Sbrigherò domani le pratiche che esigono una risposta. Adesso, vado.
Chiuse a chiave la porta dell’hangar e quella dell’officina dove nessuno doveva entrare, lui assente, e salì rapido la scala che metteva nel suo appartamento.
Nell’anticamera sorprese Tripoletta intenta a qualche suo ingenuo lavoro e che fuggì rapida all’apparire del «Sidi». Poichè la scena del capanno era già lontana dal suo pensiero e dalla sua memoria, Noris fu meravigliato dapprima di quel contegno.
— Tripoletta! — chiamò annoiato da quella puerilità che le circostanze facevano così inopportuna.
Il visetto sgomento della fanciulla alzato verso di lui in un atteggiamento di confusione implorante lo fece sovvenire.
— Vieni qua, — comandò con fermezza dolce, — io non ho nulla contro di te perchè so che tu non hai colpa.
Bastarono quelle parole a ricondurgli dinanzi la fanciulletta riconciliata e fiduciosa.
Noris proseguì:
— Ho sgridato Ugo: sei contenta?
La fiera piccola testa bruna si piegò due volte rapida a confermare scotendo nel gesto tutti i ricci folti e brevi della capigliatura nerissima.
— Credo, — riprese Noris, — che non ricomincerà più. Adesso ascoltami. Io devo partire subito e Ugo è a Genova.
— Bene, «Sidi», — mormorò la giovinetta.
— Hai paura, tu, di star qui sola fino a stasera?
— No, «Sidi».
— Stasera, Ugo sarà di ritorno. E non ti tormenterà più, — soggiunse vedendo diffondersi sul visetto della fanciulla una espressione di terrore. — Non devi aver paura, hai capito? Non hai ragione di aver paura. Adesso dimmi: sei capace di mettermi due colletti e una camicia in una valigetta?
— «Sidi» vedrai che son capace.
Rapida e silenziosa la fanciulla scomparve e riapparve quasi subito col piccolo bagaglio di Noris già pronto.
— Vai a volare? — ella osò chiedere poi, mentre Ettore scriveva un rigo da lasciare per Ugo.
— No, piccola, non vado a volare.
Un sorriso brillò come una breve fiamma gioconda nei grandissimi occhi di giaietto che illuminavano il visetto selvaggio. Per la prima volta l’assenza di Noris non avrebbe fatto tremare la piccola anima.
Il giovane non vide e non seppe mai l’atto di adorazione che — lui appena scomparso — piegò le ginocchia della fanciulla e la sua fronte e il suo cuore in un impeto ardente di gratitudine e di tenerezza per l’ignoto Dio che proteggeva il suo amore!
*
Giunse a Bordighera un’ora prima del tramonto, dopo un viaggio trascorso tutto in compagnia dell’immagine di Susanna. Mai egli aveva pensato tanto la fanciulla fiera e dolce come durante quelle ore d’angoscia che lo riconducevano verso di lei.
E al pensiero che aveva rievocata la sua immagine come gli era rimasto dopo il primo colloquio avuto insieme e che era stato anche l’ultimo, e alla fantasia che aveva tentato di fargliela immaginare quale l’avrebbe incontrata adesso, distrutta dal male, vicina forse davvero alla morte, era subentrata a poco a poco una sottile invincibile angoscia.
Come avrebbe trovato Susanna, e con chi? E quale scusa egli avrebbe addotto per avvicinarla, se pure una scusa era necessaria? Coloro che assistevano Susanna, sapevano della lettera che la fanciulla gli aveva scritto, conoscevano il desiderio suo supremo che egli si accingeva a soddisfare?
Domande tutte senza risposta.
Ma quando il treno giunse nella piccola stazione, e che affacciandosi per discendere Ettore Noris scorse fra i pochi convenuti ad attendere, la madre e la sorella di Susanna, con un’espressione d’ansia commovente sui pallidi visi solcati dallo strazio, comprese che tutti i problemi che egli si era posto tormentosamente stavano per avere la loro soluzione.
Certo la buona signora Pearly e quella piccola Nadina ch’egli aveva un giorno aiutato a raccogliere i fiori nell’hall della villa Pearly aspettavano lui. Susanna doveva aver narrato tutto alla madre, o forse costei aveva tutto intuito e ora veniva a rendersi conto se l’ultimo desiderio della sua creatura sarebbe stato esaudito.
Con quale slancio Ettore Noris saltò dal predellino e corse verso le due donne! In quel momento egli si sentiva avvinto a quelle due creature che tuttavia gli erano poco meno che estranee, come a persone colle quali avesse condiviso tutti gli anni della sua vita e tutte le vicende dei suoi anni.
E quale non fu la sua sorpresa quando vide Nadina, che per la prima lo aveva scorto, volgersi alla madre, indicarlo con un gran gesto di sorpresa lieta:
— Mamma, mamma, il signor Noris!
— Oh, signore, che combinazione singolare! come ne sono felice! — gli gridava adesso sul viso la signora Pearly col suo irriducibile accento inglese, mentire le sue mani si tendevano a cercare quelle del giovane.
Ettore s’inchinò profondamente senza trovare una parola, attendendo ancora.
— No, — riprendeva subito la signora Pearly, — no, non devo dirla questa parola: felice! mentre invece sono tanto disgraziata! tanto disgraziata, caro signor Noris. Ah, se lei sapesse come disgraziata!
Scoppiò in un pianto convulso che fini di turbare Ettore anche perchè il contagio di quel pianto si comunicò subito a Nadina che prese pure a singhiozzare forte. Intorno, i passeggeri che uscivano guardavano il gruppo con curiosità indifferente.
Noris tentava adesso le banali frasi di conforto che le labbra mormorano senza rispondere a nessun sentimento preciso. Avrebbe voluto trovare dell’altro, ma non riusciva. Lo strazio evidente di quelle due donne gli confermava che quanto Susanna aveva scritto a proposito di sè stessa era purtroppo la verità, ma tutte le altre sue supposizioni relative a una connivenza tra madre e figlia per quello che lo riguardava cadevano e questa constatazione lo turbava perchè non gli permetteva ancora di veder limpido nella sua situazione.
Il treno, adesso, aveva proseguito per Ventimiglia e la stazione si sfollava.
Fra le lagrime, la signora si rivolse alla figlia per dirle in francese:
— Non ho nemmeno veduto se è venuto: come si fa adesso?
Ma Nadina assicurava:
— No, mamma, non è venuto: io guardavo.
— Come faremo, allora, come faremo?
— Può darsi che venga più tardi coll’automobile.
— Chissà!
Soggiunse, rivolgendosi a Noris e ricomponendosi il viso turbato da quella crisi violenta:
— Scusate, caro signore. Non vi ho ancora detto, e voi forse non sapete, che ho la mia altra figlia molto malata.
— La signorina Susanna?
— Susanna, sì. Molto, molto ammalata. E stasera aspettavo il dottor Dmitri che deve venire da San Remo a visitarla.
— Oh, povera signorina Susanna! — esclamò Noris simulando la sorpresa, — come me ne spiace! È molto tempo che è ammalata?
— Un anno!
— Meno, mamma. — intervenne Nadina.
La madre scosse il capo.
— Niente. I medici sostengono che il male non è così antico, ma i miei occhi materni non si sono ingannati. È un anno che Susanna ha cominciato a deperire. Guardate, signor Noris; voi ricordate le feste che abbiamo fatto per il fidanzamento di Susanna? Ebbene, fu subito dopo che la mia figlia ha cominciato ad ammalare.
— Mamma, — entrò ancora a dire Nadina, — sarebbe bene uscire. Il signor Noris, forse, ha degli impegni.
Noris s’affrettò a protestare. Non aveva impegni urgenti e desiderava far visita alla signorina Susanna se la signora Pearly non trovava indiscreto il suo desiderio.
La signora Pearly, lungi dal trovare indiscreta la domanda del giovane, scoppiò un’altra volta a piangere ma di tenerezza e di commozione stavolta.
— Voi siete molto buono, caro signor Noris, e io vi sono molto grata. Susanna sarà certo felice di rivedervi e noi prenderemo tutti un po’ di coraggio dalla vostra presenza.
Fuori della stazione attendeva l’automobile.
— Stiamo un poco in alto, verso la collina, — spiegò Nadina accettando la mano che il giovane le porgeva per salire nella vettura.
La madre confermò mentre l’automobile si moveva:
— Sì; furono i medici a consigliare quella posizione. Si sperava che l’aria del mare e il clima mite potessero vincere il male. Ma purtroppo!
— Non dica così, signora. La signorina Susanna è giovane e forte: perchè non dorrebbe poter vincere il male?
— Quando lei l’avrà veduta, caro signore, capirà che ogni illusione ormai sarebbe vana.
— Ma i medici, che dicono?
— Si stringono nelle spalle.
— E come chiamano il male?
— Languore!
— Via: di languore non si muore a vent’anni quando si hanno tutti i mezzi per curarsi larghissimamente.
— Eppure, signor Noris, Susanna ne muore. Lei penserà che i medici ci ingannano pietosamente e che forse quello che essi chiamano languore è invece una consunzione di tubercolosi. Non credo, ed essi lo escludono, tanto che non ritengono necessario di usare i soliti riguardi per preservare Nadina. Susanna non ha un colpo di tosse, non ha avuto mai febbre sino a pochi giorni fa: soltanto, consuma a poco a poco come l’olio di una lampada. Un giorno, noi ci sveglieremo e troveremo la lampada vuota. L’anima sua sarà volata via.
Si udì un singhiozzo nella vettura chiusa dove l’ombra precedeva il crepuscolo.
Quelle parole della madre avevano risvegliato il dolore di Nadina che adesso si scioglieva in lagrime come se la materna visione lugubre si fosse già verificata.
Noris taceva, vinto da una malinconia profonda che gli dava la sensazione di essere separato dal mondo dei vivi, di camminare sul limitare del regno delle ombre. Tu distolto dalle sue impressioni dalla voce della signora Pearly che interpretando male il suo silenzio gli diceva:
— Perdonate, signor Noris, io abuso della vostra amicizia, ma voi dovete scusare il mio povero cuore di madre.
Ettore protestò col maggior calore che seppe trovare, tornò a esprimere la speranza d’una possibile guarigione e perchè il suo silenzio non avesse ad essere un’altra volta male interpretato, cominciò a parlare e non cessò se non a viaggio finito.
D’altronde, molte cose gli interessava in realtà di conoscere: come, per esempio, Max Kindler e il signor Pearly accogliessero quella sventura o fin dove la conoscessero.
— Ahimè! sanno tutto, purtroppo! — narrò la madre. — Max soffre come se davvero perdesse una moglie, ma infine, in avvenire, si consolerà. Non così il mio povero marito. Susanna era il suo orgoglio! E non può rassegnarsi a perderla e sempre s’illude, come voi signore, che la giovinezza di Susanna trionferà. Ahimè! quando viene a vederla, e ci viene ogni domenica, io leggo nel suo viso che la speranza cade!
— Infine, ammetterete che se i medici non trovano nessun organo compromesso nell’ammalata, non è detto che ogni speranza debba essere perduta.
— Occorrerebbe un miracolo.
— La scienza ne fa.
— Vi ringrazio, signore, per la vostra intenzione di darmi conforto, ma io preferisco guardare in faccia la realtà. Susanna è troppo distrutta. Non la riconoscereste più. E tutte le sue forze se ne vanno. Stamane è rimasta svenuta per quasi un’ora.
Un brivido nelle vene di Noris.
— E se ne è accorta? — egli domandò.
— Sì, — rispose Nadina per la madre che aveva ripreso a singhiozzare sommessa.... Di tutto si accorge, anche della gravità del suo stato.
— E si rassegna?
— Ah, io non so comprenderla non soltanto si rassegna, ma pare felice.
— Forse soffre e desidera soltanto che le sue sofferenze cessino....
— Io non so: è sempre stata così, fin dal principio del suo male.... L’altro giorno mi diceva: Povera Nadina, dopo sarai sola! possa tu essere felice, felice.... come me! Pareva avesse il delirio. Sorrideva.... e perchè io la guardavo spaventata, riprese: Sì, perchè non credi che io possa essere felice? perchè sto per morire? ebbene? non dobbiamo tutti morire un poco prima, un poco dopo? e non fa lo stesso andarsene oggi invece che fra un anno o dieci o trenta quando si sa già che tutti i giorni nostri si assomiglieranno, che domani sarà eguale a ieri e sempre così, sempre così?
— Vedete, signore, — entrò a dire la madre, — questi sono i suoi discorsi. Come di una creatura che abbia avuto qualche grande dolore. Ma io non so che mia figlia abbia mai avuto grandi dolori. Era fidanzata a Max ma se non avesse voluto Max Kindler nessuno gliene avrebbe fatto una colpa. Era padrona di disporre della sua vita ma la vita non la interessa più, ecco.
Noris domandò:
— Non hanno provato a distrarla, a farla viaggiare?
— Sì, dapprima. Siamo stati in Francia e in Inghilterra, abbiamo veduto molti magnifici posti, abbiamo fatte molte amicizie. Poi, ella s’annoiava e siamo tornati. Tanto, deperiva sempre!
Tacque. Erano giunti.
L’automobile si era fermata dinanzi all’ingresso sontuoso d’un sontuosissimo albergo situato a mezzo della collina in una posizione magnifica dominante tutta la cittadina e prospicente il mare.
Un silenzio religioso regnava nell’hôtel, un silenzio da ospedale o da antico aristocratico palazzo.
La signora Pearly, appena scesa dalla vettura, trascurò un istante il suo ospite per ascoltare l’infermiera scesa ad incontrarla col suo viso atteggiato a una tristezza di circostanza.
— Come va, Betty?
— Sempre uguale. Un po’ eccitata perchè aspetta con ansia il dottore.
— E non è venuto, Betty!
— Non è venuto? — domandò sorpresa la donna fissando Noris con uno sguardo interrogativo.
— No, Betty. Il dottore non è venuto. Il signore — fece accennando a Noris — non è il dottore, è un amico.
La donna s’inchinò, tornò a rivolgersi alla signora, esclamò con un accento desolato:
— Dio Signore! che cosa diremo alla povera signorina!
— Tanto lo desiderava? — domandò sorpresa la signora Pearly.
— Tanto, come non mai. E una sorpresa anche per me. Di solito era sempre così indifferente che i medici venissero o non venissero! Oggi è stata febbricitante per l’orgasmo. Cogli occhi alzati verso il cielo andava ripetendo continuamente: Dio mio, fate che venga! Fate che mi ascolti e venga subito!
Ettore Noris sentì un’onda di sangue salirgli dal cuore al viso come una vertigine. Egli aveva compreso. Per lui, per lui erano quelle parole che le povere donne trovavano incomprensibili; per lui l’appello ansioso della povera ammalata.
Quando la signora Pearly, disperata, gli si rivolse per chiedere:
— Dite voi, dite voi, che cosa dobbiamo fare?
Egli credette di poter davvero consigliare con un’energia che mutava il consiglio in comando:
— Bisogna mandare un’automobile a San Remo a prendere il professore: intanto diciamo alla signorina che egli è uscito e che sarà qui fra poco.
— Sì sì, è la cosa migliore. Permettete ch’io vada a dare incarico al direttore per l’invio dell’automobile. Tu, Nadina, accompagna intanto il signor Noris su! Mi raccomando, avverti prima Susanna. Voi perdonate, caro signore, ma la povera piccola è tanto debole che qualunque sorpresa potrebbe farle male.
Sì, qualunque sorpresa poteva far male a Susanna, ridotta un’ombra ravvolta in un viluppo di veli, come un povero cuore alterato, irrequieto, impaziente, violento che solo resisteva a battere il ritmo della vita dentro le fragili pareti dell’involucro consunto: qualunque sorpresa, ma non quella. Quella era la suprema gioia invocata, attesa e conquistata a prezzo della stessa vita.
E gli affinati sensi della povera malata l’avevano intuita, sentita con certezza prima ancora che la voce o il passo di Ettore Noris fossero giunti al suo orecchio intento. Quando, preceduto da Nadina e seguito dall’infermiera, Noris comparve in cima alla scala, sull’uscio del salotto che metteva sul pianerottolo era già uscita ad incontrarlo Susanna, bianca come l’immagine della giovinetta morte, e quasi spettrale nel lungo camice bianco che già chiudeva come in un sudario il suo fragile vergine corpo consunto dalla fiamma.
Uno stesso grido di sorpresa e di sgomento aveva accolto l’apparizione seguito subito dal rimprovero amorevole di Nadina che esclamava:
— Che imprudenza, Susanna! — e dalla espressione sgomenta della infermiera:
— Signorina, ma che ha fatto, in nome di Dio?
Susanna non udiva le due donne e non le vedeva neppure. I suoi occhi erano intenti a Noris con un’espressione così ardente e disperata d’amore che il giovane si sentiva piegare le ginocchia. Davvero, l’impulso prevalente nel cumulo di sensazione che gli teneva lo spirito era quello di prostrarsi per venerare, per accusarsi, per benedire, per farsi assolvere.
Da dodici ore egli sapeva che Susanna moriva: aveva udito anche dalla bocca della madre di lei la conferma della cosa atroce, eppure, solo adesso egli aveva la percezione esatta di cosa fosse e quanto atroce quella orribile cosa irrevocabile. Moriva, Susanna, e per lui! Per lui! Come non lo aveva compreso prima? Come aveva potuto illudersi che altra potesse essere la cagione di quell’invincibile languore che schiudeva la tomba sotto il passo leggero di quella creatura di vent’anni?
Per lui, moriva Susanna! perchè egli aveva acceso una fiamma dentro quel cuore e aveva poi ricusato d’alimentarla. La fiamma non s’era spenta ma aveva attinto il suo alimento alle radici stesse della vita di Susanna!
Ecco, egli si sentiva colpevole, adesso, come se gli incombesse diretta la responsabilità di quella morte vicina; la sua volontà non ora entrata nell’infelice amore di Susanna ma era pur sempre per quell’amore che ella moriva.
E quell’amore durava! Invece di maledirlo, Susanna chiamava adesso Noris con una soavità nella voce che aveva qualcosa di sovrumano:
— Venite! caro amico!
Come un automa egli la seguì, incapace di balbettare una parola, di fare un gesto, di trovare una esclamazione. Aveva perduto il controllo di sè stesso e la percezione della realtà.
Camminando nella scia invisibile e pur sensibile lasciata dallo strascico bianco che si muoveva un po’ incerto, un po’ barcollante dinanzi a lui, aveva la sensazione di muoversi nell’irreale.
Una sensazione simile teneva le due donne che lo accompagnavano, ma fatta di altri elementi, di stupore, di sbigottimento, di paura.
Non sapeva comprendere, l’infermiera, come Susanna, che normalmente era incapace di muovere un passo senza venir sorretta, avesse potuto abbandonare la sua sedia distesa e camminare sino alla porta e mantenersi ritta colà; come potesse, adesso, rifare da sola il percorso cammino senza cadere, senza mancare.
Nadina oltre che da questo stupore era tenuta dalla meraviglia per la semplicità e la gioia colla quale la sorella aveva accolto Noris.
Rammentava benissimo come costui non fosse mai stato soverchiamente simpatico alla sorella; aveva tuttavia impresso nella memoria la scena dell’hall e quella del volo nell’aereodromo.
In entrambe le occasioni Susanna s’era mostrata rude e ostile con Noris: e adesso, invece, non solo era mossa a incontrarlo con cordialità perfetta, ma lo aveva accolto colla naturalezza colla quale si accoglie una visita aspettata.
Non capiva più nulla Nadina e rinunciava a indagare. O meglio, ella concludeva col mettere anche quel fatto nel numero dei mutamenti fatti da Susanna durante la malattia.
Il suo stupore cadde in parte quando, entrati nel salottino dove l’ammalata, soleva stare quasi tutto il giorno, sentì dirsi:
— Senti, Nadina, vorrei parlare al signor Noris di Max. Ho un incarico da dargli per lui. Vuoi lasciarci soli, cara?
— Sicuro, — s’affrettò a rispondere Nadina.
E in perfetta, buona fede, rivolta a Noris, soggiunse:
— Vedete che voi siete giunto a proposito come la Provvidenza. E avevate paura di disturbare! Sai, — disse ancora, alla sorella, — sono io che l’ho veduto scendere dal treno e che te l’ho portato!
Approfittò per annunziare con intonazione malinconica:
— Quell’antipatico professore non è venuto. Era occupato per un consulto. Ma verrà a momenti in automobile.
— Non importa, Nadina, grazie.
— Invece del professore ti abbiamo portato Noris. Sei contenta ugualmente, nevvero?
— Sì, cara. Ora vattene. E porta via anche miss Betty.
Miss Betty, prima d’allontanarsi, susurrò piano a Noris:
— Mi raccomando, signore, non la lasci parlare troppo.
Il giovane la rassicurò con un cenno del capo.
— Qui, sedete qui, — pregò Susanna prima ancora che le due donne fossero uscite, accennando a Noris una poltroncina presso la sua sedia da ammalata.
Ma l’uscio s’era appena richiuso alle spalle di Nadina e di miss Betty che Noris fu in ginocchio, abbandonato finalmente al suo strazio e al suo rimorso, annichilito nell’atteggiamento che solo armonizzava colla prostrazione della sua anima.
— Noris, che fate? — susurrò Susanna risollevandosi con uno sgomento improvviso, tanto inatteso era quell’atto e quello spettacolo. — Noris! — tornò a dire supplice poichè il giovane non accennava a rispondere e rimaneva prostrato, col viso chiuso sulle braccia incrociato e le spalle scosse dai singhiozzi. — Ve ne prego! non per vedervi così io vi ho chiamato! vi faccio dunque tanta pietà da strapparvi le lagrime?
Quand’egli potè parlare, non trovò che una parola:
— Ma perchè, Susanna, perchè?
— Perchè non era possibile altrimenti, amico mio. Non compiangetemi troppo, non è poi tutto triste il mio destino.
— Tacete, per carità! E se volete avere pietà di me, ditemi che voi farete di tutto per scongiurare il destino.
La fanciulla scosse il capo o sorrise:
— Io posso promettervi tutto quello che voi vorrete perchè ormai il mio destino è scritto. Qualunque cosa voi voleste fare, qualunque cosa poteste fare sarebbe ormai inutile. Adesso, è tardi per tutto!
Un singhiozzo che era lo schianto di un cuore rispose alla sentenza che su sè stesso pronunziavano le povere labbra sbiancate.
E le labbra proseguirono:
— Se non fossi stata sicura, ormai, della morte, non vi avrei chiamato.
— Susanna! Susanna! — esclamò Noris concitato e affranto, — voi volete che il rimorso mi uccida.
— No, povero Noris. E perchè dovreste aver rimorso, voi? Che cosa avete fatto contro di me? nulla! La colpa è tutta mia che non ho saputo dimenticarvi più.
Soggiunse, come parlando fra sè stessa:
— Non avrei voluto dimenticarvi, nemmeno per trovare la forza di vivere. In fondo, è meglio così. Bisogna che io muoia per vivere dentro di voi. Sapeste quanto ho pensato al racconto che mi avete fatto! Voi siete di quelli che una volta sola in vita guardano in viso il viso dell’amore. E anch’io. Una avete amata sola e amate sola nel presente e amerete nell’avvenire perchè ha comprato colla vita, il diritto a regnare sola sul vostro cuore; io pagherò colla vita la gioia senza nome di rimanere nel vostro pensiero. Vero che non dimenticherete il mio nome e il mio viso poichè anch’io muoio per voi?
Solo il pianto scorato di Noris rispondeva alle desolate parole dell’agonizzante: un pianto che era tutto soltanto espressione d’infinita pietà: pietà della sventuratissima condannata a morire, pietà di sè stesso designato dal destino a essere l’artefice involontario di quella sventura.
Che aveva fatto perchè la fatalità si accanisse così contro di lui? perchè dovevano scavarsi tante tombe lungo la sua via? Ecco: egli non aveva nessuna colpa nella malattia e nella condanna di Susanna, eppure non poteva levare gli occhi su quel leggiadro viso scavato già dalla Morte, su quelle mani pallide divenute diafane, su quella figuretta altera e snella diventata trasparente senza sentirsi tutta l’anima rimescolata dal rimorso come se quella distruzione fosse stata opera sua voluta.
Sgomento, susurrò:
— Bisogna ch’io vi salvi, Susanna, bisogna ch’io vi salvi per non morire di rimorso!
Una contrazione di spasimo passò sul viso della fanciulla: l’onda gelida di una disperazione che era anche peggiore del terrore della morte.
Dio, quelle parole! quell’accento! la voce implorante e straziata che pareva quella della passione e le parole che ancora, ancora ignoravamo la passione e soltanto parlavano di rimorso! No, neppure colla morte ella sarebbe riuscita a strappare l’amore di Ettore Noris. Neppure di fronte alla sua tomba spalancata il cuore di lui si apriva per darle l’estrema illusione e l’estremo conforto!
Piangeva, Noris, e in quel pianto era il tributo di tutta la sua commozione, di tutta la sua pietà, di tutta la sua tristezza: tutto, tutto, tranne l’amore!
Quella constatazione non la sorprendeva: ella non s’era illusa di piegare il cuore del giovane, di accendervi, col barlume estremo della sua vita, la fiamma dell’amore. Sapeva che non dalla pietà nasce l’amore e che tutto tutto avrebbe potuto essere per lei Ettore Noris — l’amico, il fratello, il sostegno, il consolatore — tranne che l’amore! Eppure, le parole e l’atteggiamento di lui che venivano a confermare la sua convinzione, la straziavano, adesso, fin nell’intimo.
Era come se un dolore nuovo si aggiungesse ai suoi dolori per piegare definitivamente la sua povera esistenza.
Accasciato ai suoi piedi, Ettore Noris ripeteva piano, con una lontana voce implorante che pareva cercare un aiuto, una ispirazione:
— Bisogna ch’io vi salvi, Susanna!
— Come volete fare?
— Troveremo, vedrete, troveremo. Ditemi soltanto che voi vorrete ancora vivere!
— Povero Noris! come potete illudervi ancora? non avete veduto ch’io sono il fantasma della creatura che voi avete conosciuto? o vi ha ingannato e vi illude la febbre che mi ha sostenuta e mi sostiene mentre vi parlo? È febbre, non forza. Sentite le mie mani. E sentite la fatica che io faccio per parlarvi. Non ho più respiro. Quando voi ve ne sarete andato, io sconterò questo sforzo con una prostrazione dalla quale uscirò affranta. O colla fine....
— Susanna!
Poichè le ultime parole di lei si erano spente in un soffio, egli fu in piedi in un balzo, tremante e pallido come di fronte a un’agonia.
— Nulla, non è nulla, — fece Susanna riprendendosi. — Voi che avete tanto coraggio, — disse con un melanconico sorriso, — vi lasciate impressionare per così poco? Volete un po’ della mia forza? Su: cercate di essere sereno perchè io non sia così triste. E non piangete più. Pensate che questi momenti son brevi e preziosi. Fra poco, voi ve ne andrete....
— No, Susanna, no.
— Davvero? resterete qui?
— Ci starò fin tanto che voi vorrete.
Una luce di gaudio brillò negli occhi della fanciulla.
— Ah come siete buono! Restate, sì, restate! io sento che la morte non mi potrà prendere fintanto che voi starete qui.
Adesso, il viso della fanciulla pareva davvero trasformato. La gioia e la febbre vi accendevano una fiamma che faceva incarnate le gote, lucenti gli occhi e vivi, rosse e frementi le labbra. Un raggio dell’antica bellezza, resa ancora più profonda, più commovente, più suggestiva da una luce interiore di spiritualità e di sofferenza, riappariva nell’agonizzante.
Noris lo constatò e gli disse:
— Se vedeste come siete bella in questo momento, Susanna!
Una commozione più viva palpitò negli occhi della fanciulla. Era la prima volta che Ettore Noris mostrava di accorgersi della sua persona.
— Avrei voluto — ella disse — essere tanto bella da prendervi il cuore, lo posso dirvelo, vero, Ettore? tutto io posso dirvi ormai.... Come vorrei piacervi in questi giorni! vorrei restare nella vostra memoria come sono adesso nei vostri occhi. E che mi ritrovaste, chiudendo gli occhi, viva viva nel vostro pensiero.... Dio, Dio, se ciò fosse!
L’esaltazione febbrile che era nelle sue vene passava adesso nelle sue parole. Noris se ne avvide e comprese anche il pericolo che poteva esistere in una reazione di quella febbre. Risolvette di secondarla, di compiere sino in fondo la sua opera di pietà.
— Voi ci sarete così, Susanna, nel mio pensiero, così....
— Come l’altra, vero? dite: accanto all’altra, sempre?
— Sì....
La pietà ancora strappò la bugia doverosa alle labbra del giovine. Ma la sua fronte si era fatta corrusca sotto l’impressione dell’evocazione improvvisa. No, no! come l’altra, no! perchè la pietà non poteva essere l’amore e la diletta che Morte e passione avevano folgorato insieme in un unico schianto aveva sola il diritto di regnare nella sua anima.
Mentalmente, ardentemente, egli susurrò all’immagine dell’adorata:
— Perdonami!
E gli parve di ricevere la risposta alla sua invocazione in un indulgente sorriso della cara bocca rievocata. Sì, Eva perdonava e suggeriva la pietà per questa sua sventurata, sorella di passione che non era diventata, che non sarebbe diventata mai rivale d’amore nel cuore del diletto.
Una voce che non era quella di Susanna lo strappò alla sua visione interiore.
— Signor Noris.... — diceva la voce che veniva da dietro l’uscio socchiuso della stanza vicina.
— Eccomi.
Insieme, il giovane e Susanna si erano rivolti.
Dietro la porta appariva adesso il buon viso allarmato della signora Pearly.
— Mon enfant, — fece la signora avanzandosi, — non vorrei che tu ti stancassi troppo.
— No, mamma, ti assicuro che non mi stanco, che sto benissimo. Guardami in faccia. Non vedi come sto bene?
— Io vorrei — prosegui la signora — che tu ti riposassi un poco mentre aspettiamo il professore. È necessario ch’egli ti trovi nelle tue condizioni normali.
Ettore confermò.
— Vostra madre ha ragione, signorina.
Un’ombra d’amarezza passò negli occhi della fanciulla.
— Sì, — ella disse lentamente, — sopratutto, io non debbo abusar di voi. Perdonate. Ero così lieta della vostra compagnia che dimenticavo quanto poco piacevole sia il trovarsi con un’ammalata.
— Signorina Susanna, perchè volete dirmi queste brutte cose che voi non pensate?
— E allora rimanete!
— Ebbene — fece Noris rivolto alla signora Pearly — facciamo una cosa: noi stiamo qui, parliamo fra di noi e la signorina ci sta a sentire e tace.
— Sì, sì, — convenne Susanna.
— E voi potete fermarvi ancora, signor Noris?
— Oh, io posso anche rimettere a domattina la visita d’affari che mi ha chiamato a Bordighera.
— Vi sono molto grata. Avete già deciso dove alloggerete?
— Qui, mamma, qui, — intervenne a dire Susanna.
— È vero?
— Sì, penso che un albergo o l’altro è indifferente per me. Se non è indiscrezione imporre alle signore la mia compagnia, conterei davvero di fermarmi qui.
— Indiscrezione? Lei è troppo buono, caro signore, e io non so come esprimerle la mia gratitudine.
— Ecco che la mamma si commuove, — fece Susanna sorridendo.
Poichè dalla stanza vicina anche Nadina e miss Betty chiedevano di poter entrare, Susanna chiamò:
— Venite! Sai, Nadina, — fece poi rivolta alla sorella, — avremo il signor Noris tutta la sera con noi.
Un’espressione di vivo contento si diffuse sul viso della giovinetta.
— Davvero? — ella esclamò avvicinandosi al giovane. — Oh, come ne sono lieta! così potrò finalmente sentirvi raccontare il vostro viaggio attraverso il Cervino....
Susanna pregò:
— Anche a me, Noris.
— C’è poco da raccontare, veramente.
Ma Nadina si accendeva di entusiasmo:
— Ah, che cosa meravigliosa! avrei voluto vedervi! non abbiamo parlato che di voi per una settimana. Anche Susanna. Ho dovuto leggerle tutti i giornali che parlavano della vostra impresa. Vero, Susanna?
— Vero, — affermò la fanciulla sorridendo d’uno stanco sorriso sul viso bianco abbandonato stanco, adesso, sui guanciali della sedia a sdraio.
Nadina proseguiva:
— E papà? aveste visto l’entusiasmo di papà! E Kindler!
— Mi hanno telegrafato infatti.
— Chissà quanta gente v’ha telegrafato! Susanna lo diceva. Io avrei voluto mandarvi una parola insieme a Susanna, ma lei mi osservò che probabilmente non ve ne sareste nemmeno accorto nel cumulo di lettere che debbono avervi scritto.
— Mi duole che la signorina Susanna possa aver pensato questo. Vi assicuro — disse rivolto all’ammalata — che ho anzi notato la mancanza del vostro saluto.
— Davvero? — dissero gli stanchi occhi con un bagliore di gioia, — davvero lo avreste desiderato?
— Vedi, — esclamò Nadina, — te lo dicevo io che Noris lo avrebbe notato. Quando compirete un’altra grande impresa, io vi telegraferò, o meglio, verrò a vedervi.
— Verrete entrambe.
— Si capisce, — corresse Nadina confusa e turbata per quell’improvviso richiamo alla realtà lugubre.
Ma per un istante, un silenzio penoso regnò, come se nella stanza si fosse udito il passo della morte.
Fu ancora Nadina che fugò il fantasma interrogando un’altra volto Noris.
— Quando la compirete un’altra grande impresa?
— Prestissimo.
— E cioè?
— Fra un mese o poco più.
— E sarà?
— Permettetemi, vi prego, di mantenere il segreto per ora.
— Se è necessario!
— Sì: non sono io solo interessato in questo tentativo e non posso rivelare un segreto che non mi appartiene esclusivamente.
— Sarà una grande cosa?
— Grande davvero.
— Non mai tentata?
— S’intende!
— Superiore a tutto quello che avete fatto fin qui?
— A tutto.
— Ah, come vorrei vivere per vederla! — esclamò Susanna intervenendo nel dialogo.
Le sue parole sollevarono un coro di affettuose proteste e di bugie pietose, ma la signora Pearly era scoppiata in pianto e la fanciulla mormorava dolente:
— Perdonami, mamma, perdonami! sì, lo so che guarirò se mi lascerò curare bene da te, povera mamma, povera la mia cara mamma!
Un colpo bussato lievemente alla porta pose fine all’incidente pietoso.
Un cameriere veniva ad avvertire che il professore venuto da San Remo era qui.
Susanna nascose appena un gesto di fastidio.
Tuttavia, ella si alzò rassegnata e mosse verso la sua camera, mentre la signora Pearly andava incontro al medico e Nadina faceva passare Noris in una stanza vicina.
Il giovane, però, si congedò.
— Non disturbatevi a tenermi compagnia, signorina.
Io approfitto di questo momento per scendere a fissare una camera.
— Vi fermate dunque?
— Per qualche giorno, sì.
— Oh, come siete buono!
Egli protestò. Rassicurò poi la fanciulla, che voleva sapere la sua opinione intorno allo stato di Susanna. Le mentì.
— È ancora piena di vitalità. Guarirà benissimo, vedrete.
Ma il medico che nella stanza vicina visitava Susanna non mentì alla povera madre.
Quando Ettore Noris che era sceso nell’atrio dell’albergo per sottrarsi al senso di soffocazione che lo teneva, su, tornò a bussare all’uscio dell’appartamento dei Pearly, trovò la signora accasciata su d’una poltrona in preda a una crisi di pianto disperata.
Appena ella vide Ettore, gli si slanciò incontro con un impeto disperato:
— Muore! muore! muore!
Fra i singhiozzi, narrò. Il professore aveva trovato Susanna in preda a una febbre violentissima e l’aveva costretta a starsene a letto, dichiarando alla madre che la menoma imprudenza poteva costare la vita all’ammalata. Per tutta risposta, Susanna aveva tentato di alzarsi appena uscito il medico ed era caduta svenuta. Ella era fuggita: non aveva più il coraggio di stare di là.
Noris sedette accanto alla desolata madre e l’attesa penosa cominciò, fatta più lugubre dal silenzio profondo che nessuno dei due osava interrompere.
Anche nella stanza vicina regnava il silenzio. Le due assistenti pietose di Susanna dovevano muoversi con riguardo infinito.
E pareva a Noris d’avere atteso per uno spazio di tempo infinito, quando finalmente Nadina comparve, bianca in viso, come l’agonia della sorella si fosse impressa sulle sue fattezze alterandole in una espressione dove lo sgomento si fondeva collo strazio.
La seguiva l’infermiera.
— Donne, — disse la fanciulla rispondendo all’occhiata interrogativa della madre.
— Sì, riposa, — assicurò l’infermiera.
Noris stese la mano a Nadina in silenzio. La fanciulla gli si sedette accanto, alzò il viso verso di lui, susurrò:
— Starete con noi, stasera, vero?
— Sì, cara.
— Grazie. Ho tanta paura!
— Non dovete. Vedrete che non accadrà nulla.
E per dissipare il senso d’angoscia che gravava su tutte quelle creature, egli cominciò a parlare piano, sottovoce, di tante piccole coso indifferenti alle quali a poco a poco Nadina s’interessò ma che non valsero a strappare dalle sue preoccupazioni la povera madre.
Nel frattempo, l’infermiera andava e veniva silenziosa come un’ombra dal salotto alla stanza di Susanna.
Ogni qualvolta ella compariva sulla soglia, rispondeva alla muta interrogazione degli occhi della signora Pearly con un gesto rassicurato e con una parola:
— Dorme!
Ma quando Noris si alzò per ritirarsi un momento nella sua camera, visto che di lui non c’era bisogno, e annunziò che sarebbe tornato dopo mezz’ora, l’infermiera lo accompagnò fin fuori sul pianerottolo e gli disse:
— Verrete davvero, signore?
— Certamente.
— Dio vi benedica! Io ho paura che la povera piccola non passerà la notte.
· | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · | · |
Non la passò. Verso l’alba, dopo un’alternativa di deliqui e di riprese che riaccendevano la speranza, Susanna spirò, fra le braccia di Noris, come aveva sognato, cogli occhi fissi negli occhi di lui, come per imprimersi nelle sue pupille colla speranza suprema di non uscirne mai più.
*
Pochi giorni dopo, Noris rientrava a Genova turbato fino a esserne depresso nel suo equilibrio e nella sua volontà, nella sua serena energia e nei suoi propositi, da quell’episodio pietoso e lugubre che veniva a intrecciarsi nella sua vita.
Rientrava accasciato sino all’avvilimento, risoluto a dimenticare le visioni tristissime impresse nella sua memoria e nelle 9ue pupille, con una ripresa più attiva di lavoro.
Per sua fortuna, gli avvenimenti lo favorivano. Egli non si trovava in un periodo vuoto della sua vita. Il grande progetto pensato con fervore e perseguito con audacia, era vicino a venir tradotto in realtà. A Cassano avrebbe trovato Giorgio Dauro, il suo amico ingegnere che aveva accettato di diventare suo collaboratore e che aveva studiato la traduzione pratica della sua idea. Si sarebbe sprofondato nel lavoro così da assorbire tutte le sue facoltà e forse sarebbe riuscito a dimenticane.
Ma per il momento, almeno, i suoi propositi dovevano subire una modificazione.
Quando giunse a Cassano, dopo otto giorni d’assenza, Giorgio Dauro non c’era e non c’era nemmeno Ugo. Tripoletta che era sola e che dopo tanti giorni di ansia ridiventava felice vedendo tornare il «Sidi», gli spiegò:
— Ugo è andato a Genova stamattina e l’altro signore venuto a cercare te, «Sidi», ripartito anche subito, appena venuto.
— Ripartito? E perchè?
— Io non so, «Sidi», ma lui ha lasciato lettera per te dove forse dice.
— E dov’è questa lettera?
— Ugo l’ha presa e messa in tasca.
— Benone. E non t’ha detto, Ugo, quando sarebbe tornato?
— Questa sera, «Sidi». Lui, torna sempre alla sera.
— Vuol dire che se n’è andato a Genova tutti i giorni?
— Tutti i giorni, «Sidi», e io ero molto contenta.
Noris dovette attendere fino a sera per conoscere il contenuto della lettera lasciatagli dall’ingegner Dauro; gli scriveva che vista la sua assenza, egli ne approfittava per accettare l’invito del marchese Gentili e recarsi alla «Casa mattutina».
— Perchè non verresti tu pure lassù per qualche giorno? — aggiungeva la lettera. — Il marchese è tuo buon amico come mio e l’invito che mi ha fatto si estendeva a te, con poca speranza, veramente, di vederlo accettato, ma con altrettanto desiderio. Ascolta dunque il mio consiglio: raggiungimi lassù: l’Appennino è delizioso in questa stagione e qualche giorno di riposo ci metterà in grado di applicarci poi con fervore maggiore alla nostra impresa.
In qualsiasi altra circostanza, Ettore Noris non avrebbe tenuto alcun conto del suggerimento dell’amico, schivo com’egli era di qualsiasi relazione mondana. Ma nella crisi di tristezza ch’egli attraversava, l’invito di Giorgio Dauro gli parve apprezzabile. Perchè non lo avrebbe accolto? Che cosa restava a fare, solo nel suo eremo, mentre non poteva proseguire da solo il lavoro intrapreso e anche Minerva Fabbri era assente?
Risolvette di rimettere all’indomani ogni decisione e si coricò tardi, molto tardi, nella speranza di riuscire ad addormentarsi subito e di non rivedere — come gli accadeva da una settimana — appena chiusi gli occhi, il viso agonizzante di Susanna Pearly morta d’amore per lui.