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ch’era superiora in un convento di benedettine nella Savoia.

Come si poteva essere soli al mondo? e se la cosa poteva essere, come si faceva per rassegnarcisi senza morire?

Ardui problemi, che occuparono il cervello della fanciulla anche quando, congedatasi definitivamente da Noris, da Ugo e dallo zio, ella fu sola nella sua stanzetta bianca attigua a quella dell’ospite, anche quando, spento ogni lume, fu, nella casa addormentata, il silenzio solenne e profondo della notte alta.

Come si poteva vivere soli al mondo senza morire di tristezza?!

Pure, si poteva, poichè Ettore Noris viveva così. Ma Ettore Noris era un uomo ed era il forte per eccellenza fra tutti gli uomini, e se non moriva di malinconia, di tristezza, di desolazione, soffriva però profondamente.

Il viso di Ettore, austero e chiuso, colla fronte corrusca sulle pupille chiare, fu l’ultima visione che la mente della fanciulla percepì prima di abbandonarsi al sonno.

Sognò che Ettore diventava suo fratello, che era lecito a lei di parlargli, di sorridergli, di passargli la destra sulla fronte in una carezza lenta e buona, di baciarlo ogni volta ch’egli si staccava da lei per salire sulla sua macchina terribile.

Un sogno che le diede fin che durò l’illusione, una gioia avvertita soltanto dal suo sangue pulsante rapido nelle arterie, dai suoi nervi distesi, dal palpito regolare e profondo del suo cuore, ma che si mutò in sconforto al risveglio.

Era l’alba, la primissima alba estiva limpida e fresca come una rinascita. Noris doveva partire alle sei. Mancavano più di due ore e così Marguerite come lo zio avevano già preso congedo fin dalla sera innanzi dall’ospite. Era convenuto che difficilmente si sarebbero riveduti alla mattina perchè il curato diceva la messa precisamente alle sei e Marguerite vi assisteva.