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— Non me ne spiace: alla tua età, un po’ di paura della donna può essere una salvaguardia salutare. Fino a un certo punto, sai. Tutta la paura che io potessi ispirarti, non ti impedirebbe, non ti impedirà di amare o di credere di amare e di commettere tutte le sciocchezze che ogni uomo commette a venti anni. Ma le sciocchezze di vent’anni non contano. L’importante è che tu sappia riconoscere l’amore vero e sentirne la nostalgia quando sarai uomo e la vita ti avrà messo in grado di apprezzare quale meraviglioso dono sia il possesso di un’anima.

Tacque e per un poco regnò il silenzio nella bianca stanza raccolta.

Ettore Noris seguiva il filo delle memorie che le sue stesse parole gli avevano evocato nell’anima, memorie sempre presenti, animate sempre dall’immagine viva della dilettissima perduta. Egli lo aveva conosciuto il dono prezioso e nessuno era stato in grado di apprezzarlo più di lui che per tanti anni era passato accanto alle più complicate forme dell’egoismo e del vizio mascherate di amore ignorando sempre la dolcezza d’un profondo sentimento vero.

Ugo contemplava adesso il suo maestro adorato con rispetto nuovo. Le parole di lui — sempre così scarso di parole, così freddo, così chiuso — gli avevano aperto come una nuora visione della sua anima. Attraverso quella egli vedeva adesso Noris rivestito d’una bellezza morale che aggiungeva al suo prestigio di grandezza una ragione nuova di superiorità.

Anche, gli pareva d’intuire, attraverso quelle parole, un dramma sentimentale nella vita del suo maestro. Vagamente comprese che la ostentata freddezza di lui, diventata ormai leggendaria, doveva avere una ragione che non era l’aridità. Rinunziò a indagare il mistero ma fu orgoglioso d’averlo intuito, come se quel mistero creasse tra lui e il suo maestro un vincolo di più e più intimo.

— Ho finito, — disse a un tratto mostrando tutte le lettere distrutte.