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dava togliendo le lettere dalla cesta e le collocava sul tavolino trascinato presso al letto, — guardi se non ho ragione io. Scommetto che tutte queste buste colorate e profumate.... senta! scommetto, dico, che son tutte lettere di donne.
— Vediamo, — fece Noris appoggiandosi alla spalliera del letto, — apri. I telegrammi, prima.
Ce n’erano a centinaia: salutavano Noris e lo acclamavano tutte le personalità ufficiali del paese, tutte le associazioni sportive, tutti i circoli di giovani raccolti sotto le più disparate bandiere.
La sua gloria era di quelle che ogni partito poteva riconoscere e ogni fede invidiare: era l’esaltazione di quella energia che ogni idealità si propone di far trionfare, era la vittoria dell’«io» superiore sopra tutti gli istinti meno nobili e più egoistici.
Noris accoglieva la lettura di quei saluti con l’immutata espressione del suo viso chiuso e impenetrabile: qualcuno soltanto accompagnava con un cenno lento del capo che diceva il suo gradimento, e una frase breve di tenerezza rispondeva alle espressioni più ardenti e più entusiaste dei suoi ammiratori lontani.
Era così semplice, per quanto fosse stata ardua, nel suo giudizio, l’impresa compiuta, che gli pareva eccessivo avesse potuto destare tanto entusiasmo. E lo diceva al suo piccolo amico interrompendo a quando a quando la sua lettura, — Che brava gente! ma io non merito tutto questo. Il trionfo è della macchina, non mio!
— Non lo dica, signor Noris: non c’era che lei al mondo che potesse compiere quel volo.
Anche Blériot glielo diceva in un saluto vibrante d’entusiasmo e glielo confermava l’ingegner Kindler in un lungo telegramma dove esprimeva l’ammirazione e la gratitudine sua e del suo principale, Pearly, per quel nuovo trionfo che aggiungeva anche al prestigio della loro casa.
Il telegramma di Kindler evocò nel pensiero di Noris il ricordo di Susanna. Chissà che fa-