La Fortuna/La fortuna
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LA FORTUNA.
— Volete che vi dica francamente il mio pensiero? — proseguì il dottor Fabrizi imbaldanzito da due bicchieri di vin spumante. — Se il contino non piglia un'altra strada, corre un brutto rischio. La ragazza è onesta, c'è di mezzo un aspirante fidanzato, e i fratelli di lei, due colossi, il cui pugno vale una schioppettata. Badate a me. Cinque anni or sono ho assistito a un processo per omicidio, dove l'imputato era un giovanotto del popolo, garzone fornaio, e il morto un benestante, figlio del sindaco del paese. Orbene, pare che questi si fosse preso qualche libertà (intendiamoci, libertà relativa!) colla giovinetta sorella del fornaio; fatto sta che il fratello, avvertito della cosa, ha aspettato una bella sera il damerino dietro una siepe e l'ha caricato di tali pugni e pedate da lasciarlo per morto. Infatti tre giorni dopo se n' è andato all'altro mondo. Bene? I giurati hanno assolto il fratello.... E non basta! Il popolo l'ha portato in trionfo, — por-ta-to-in-tri-on-fo! — non vi dico altro!
Il dottore tracannò un terzo bicchiere di vino e si alzò.
Era l’ora in cui egli osava dir tutto al suo nobile cliente ed amico conte Ademaro Novelli-Casazzi; le cose più audaci, come le più strane, gli venivano spontanee sul labbro favorite dall’ombra, dalla consuetadine e dal vino; le verità più rudi che la mattina dopo avrebbe accuratamente celate sotto un cerimonioso sorriso.
Egli fece un giro intorno alla tavola, e si fermò, ritto a gambe larghe, davanti all’albero genealogico che occupava un’intera parete del salotto. Il suo naso grosso e rosso riluceva.
— Dopo tutto, — continuò, — è inutile farsi delle illusioni: non-sia-mo-più-ai-tem-pi-del-feu-da-le-si-mo. Quando un conte è incapricciato di una sua bella contadina, bisogna che se la sposi, o che fili, se non vuol correre il rischio d’esser bastonato. E dopo tutto, — ripetè accalorandosi e indirizzando la parola all’albero, quasi sperasse da quello una risposta che non veniva, — e dopo tutto, alcune gocce di sangue diverso, di buon sangue rosso e contadino, non farebbero bene nei tuoi rami ischeletriti? Qui da secoli non si vedono segnati che matrimoni fra parenti.... Ecco! Norberto Novelli-Casazzi con Ildegonda Novelli-Casazzi, Giovanni Novelli-Casazzi con Maddalena Novelli-Casazzi, Eufrasia Novelli-Casazzi.... e via via.... Sempre gli stessi nomi, sempre lo stesso sangue! Per questo la razza è indebolita, immiserita, le tare ereditarie accentuate, la fecondità diminuita, la mortalità nei bambini spaventosa, e il contino Folco è, di otto figli nati, l’unico vivo e l’ultimo....
Il conte Ademaro scosse la cenere del sigaro che fumava in silenzio, e tossì.
— Ne convengo.
Il dottore si voltò. I suoi occhi piccoli e acuti fissarono l’amico al disopra degli occhiali, coll’espressione di due punti interrogativi.
Il conte Ademaro ripetè lentamente:
— Ne convengo.
— Ah sì? — disse il dottore, e non trovò altre parole.
— Sì, — riprese il conte; — da questo punto di vista la questione è degna di essere esaminata.
— Pare anche a me.
— Voi avete detto che Folco è, di otto figli nati, l’unico vivo e l’ultimo, ed è vero; vi aggiungerò che egli ha già chiesto in moglie due nobili ragazze e che ha avuto due rifiuti. A questo siamo ridotti, caro amico! La sua poca salute, la sua vita di scapestratezze, sono ormai cosa nota, e nessuna buona famiglia acconsente più a legarsi con noi. D’altra parte urge che Folco prenda moglie, perchè egli è già sciupato, vecchio a venticinqu’anni per la vita di disordini che ha condotto, ed io vedo con terrore il giorno in cui ritorni in città. Finchè il capriccio per la ragazza lo tiene, egli almeno resta con noi, e la sua salute se ne avvantaggia.... Pensate che se Folco non ha figli legittimi, la stirpe si spegne, la famiglia finisce, il nome, tutto!... Da questo punto di vista.... mi capite?... La ragazza è sana?
— Sanissima
— I suoi parenti?
— Li conosco tutti. I suoi fratelli sono due colossi, come vi dicevo; suo padre e sua madre non hanno mai avuto bisogno in vita loro neppure d’un salasso; i nonni, tuttora viventi, sono due splendidi esempi di longevità, e risalendo ancora.... aspettate! Li ho sulla punta delle dita, perchè ho dovuto proprio in questi giorni compilare una statistica.... Domenico Bombarda morto a 92 anni.... Teresa Bombarda sua moglie a 76....Luigi Bombarda a 81 (mi seguite?) per un calcio d’asino.... Giuseppina Bombarda a 79 dopo aver messo al mondo diciotto figliuoli.... La ragazza poi è un fiore, una bellezza, anzi un vero tipo di bellezza: alta, complessa, formosa, colorita, con denti e capelli splendidi. Come fattrice.... Si può dir tutto, non è vero?
— Anzi, bisogna, dir tutto! — ammonì severamente il conte. — Come fattrice.... voi credete?
— Sarebbe il vero tipo che vi abbisogna, che rinsanguerebbe la razza, che vi darebbe prodotti sani e vigorosi.
— Ah, è terribile, sapete, — proruppe il conte dopo una pausa, — è terribile per me essere ridotto a mettere in discussione una tale possibilità! È terribile, dopo secoli che l’albero è intatto, dopo che la nostra famiglia, forse l’unica in tutto il Friuli, si è conservata pura da ogni inquinazione! Noi abbiamo difeso questa purezza come si può difendere la patria dallo straniero; voi non capite, non potete capire che cosa sia per noi! È terribile!...
E il conte Ademaro si alzò e si piantò egli pure sotto l’albero al posto lasciato libero dall’amico.
Per cinque lunghi minuti egli fissò, meditandoli, e quasi accarezzandoli collo sguardo, i nomi e i nomi che pullulavano lungo i rami, neri minuti come piccoli insetti. E i suoi occhi erano desolati ed umidi.
Infine fece un gran voltafaccia e mandò un profondo sospiro:
— Se è necessario, si farà.
Quel giorno stesso, quasi alla stessa ora, don Evaristo Percoto, arciprete di Collefiorito, si faceva annunciare alla contessa Clemenza Novelli-Casazzi.
Ella era sola, e lavorava a maglia presso alla finestra, colla testa molto bassa perchè era molto miope. Era tutta vestita di seta nera, e portava i guanti anche in casa, perchè aveva sempre freddo alle mani. Radi capelli grigi ben pettinati le incorniciavano il volto di un pallore anemico leggermente venato di rosa, gli occhi azzurrognoli e cisposi completavano la malinconia del suo aspetto, simile a quello di qualche vecchia immagine di santa, dimenticata sotto un velo di polvere in qualche vecchia chiesa, sbiadita dall’ombra e dal tempo.
Ella corse incontro al prete, e baciò devotamente la croce che gli pendeva al fianco.
Poi sedettero l’uno di fronte all’altra.
— Donna Clemenza, — disse don Evaristo, — mi rivolgo alla vostra ben nota pietà, al vostro cuore di madre cristiana, perchè facciate cessare uno scandalo. Il contino è sempre in agguato dietro a una delle giovanette più savie e più timorate del paese, cerea d’incontrarla da per tutto, l’aspetta fuori della chiesa, la ferma per istrada quando torna dalle funzioni. La ragazza è onestissima, e appartiene a una famiglia religiosa e morale. Chi attenta alla sua purezza assume una responsabilità gravissima, incommensurabile, davanti a Dio. E chi, sapendo come stanno le cose, adotta un sistema di accomodante silenzio che diventa quasi una complicità, cade in peccato mortale che nessun sacerdote potrebbe assolvere. Perciò vi parlo, donna Clemenza. Pensateci, donna Clemenza. E se davvero, se seriamente, il contino è innamorato di questa ragazza, se la volontà di Dio si manifesta in questo senso, ad evitare guai peggiori e rimorsi che al vostro pio cuore sarebbero acerbi, promettetemi che la vostra rettitudine cristiana non tituberà neppure davanti all’idea del matrimonio....
Donna Clemenza promise, baciando la reliquia benedetta.
Otto giorni dopo le nozze erano decise.
*
Don Evaristo s’incaricò di trattare coi vecchi e li fece chiamare alla canonica.
Arrivarono, preoccupati e imbarazzati, lui coll’anello lucente all’orecchio e il cappello col fiocchetto rosso, lei col fazzoletto bene incrociato sul petto e un grembiule a fiorami, non sapendo a che attribuire il messaggio e soprattutto il saluto pieno di sorrisi della Perpetua e le due tazze di caffè che furono tosto servite sul vassoio delle grandi occasioni.
Infine, dopo un lungo preambolo sulla giustizia del Signore che qualche volta degna premiare i buoni anche in questo mondo, oltre che in quello al di là, don Evaristo si dichiarò emissario in terra della volontà di Dio annunciando ai coniugi Bombarda, in premio della loro vita esemplare, la fortuna insperata di sposare la loro figliola Rosa al contino Folco Novelli-Casazzi.
I due vecchi non capirono.
Don Evaristo dovette ripetere.
E non ancora i vecchi capirono.
(Da duecento anni i Bombarda tenevano in affitto quel podere dai conti Novelli senza aver mai avuto occasione di parlare ai padroni che consideravano colla venerazione superstiziosa ed ingenna dei servi della gleba).
Allora, abbandonate le metafore, l’arciprete spiegò con chiarezza come qualmente il conte Ademaro lo avesse incaricato, esplicitamente incaricato, di domandare in moglie la loro figliola per il contino Folco.
— In moglie la loro figliola per il contino Folco. Sì, avevano questa fortuna. Il Signore dava loro questo segno della sua benevolenza. Che cosa e’era da impressionarsi? Dio non era padrone di colmare di doni i suoi prediletti? Non aveva egli fatto miracoli ancora più grandi? Non aveva fatto piovere la manna per sfamare gli ebrei? Non aveva permesso la moltiplicazione dei pani e dei pesci?... Questo era un miracolo più piccolo, ma un miracolo, certo, un premio; ed essi dovevano accettarlo a tale titolo e ringraziarne l’Eterno.
E i due vecchi ringraziarono don Evaristo e piansero.
Ecco i patti. Le nozze entro un mese; al corredo avrebbero pensato i nobili signori; durante quel mese il contino e la ragazza si sarebbero trovati insieme due volte, alla canonica, in presenza di don Evaristo. Dopo il matrimonio i coniugi Bombarda avrebbero veduto la loro figliola possibilmente una volta all’anno, in giorno da destinarsi, sempre in canonica, presente don Evaristo. La loro casetta sarebbe stata restaurata, e il debito di tremila lire, accumulato negli ultimi dieci anni, cancellato per sempre.
— Andate, figli cari, a portare la bella notizia alla buona Rosa. Domani verrò io stesso. Il Signore vi benedica.
Ma il vecchio Bombarda indugiava sulla por ta girando e rigirando fra le mani il cappello col fiocchetto rosso.
— Che c’è? — chiese don Evaristo di cattivo umore.
— .... Come si fa col «giovine»?
— Ah! — replicò l’arciprete. — Non son mica corse promesse, che io mi sappia?
— No, no, don Evaristo, nessuna promessa, ma mi capisce.... Il «giovine» si era espresso.... sperava....
— Parlerò io col giovane. — tagliò corto don Evaristo. — Andate, andate con Dio, e state tranquilli. E. intendiamoci! — aggiunse. — Chiacchiere, meno che sia possibile!
I due vecchi si profusero in ringraziamenti e partirono.
La strada pareva loro lunga lunga e avevano fretta di essere a casa.
Due ore dopo, ecco piombare come un bolide il dottor Fabrizi.
— Dov’è la «contessa»? — tuonò egli trasudando allegria da tutti i pori, dopo essersi assicurato con una rapida occhiata che nessun «krumiro» potesse udirlo. — Dov’è la «contessa»?
Sulla soglia della cucina apparve Menica, la madre, cerimoniosa nella sua semplicità sorridente.
La «contessa» era là, in fondo al prato, colle braccia nude fino al gomito ed una gran scodella di becchime per i puleini. Una chioccia pettoruta regolava con grade dignità la distribuzione.
— Ma vi pare? — esclamò inorridito il dottor Fabrizi. — Ma vi pare che sia il caso di affidare ancora a Rosa certe faccende? Donna benedetta, dove avete il senso dell’opportunità? Vostra figlia sta per diventare contessa, fra quattro settimane salirà il trono....(si corresse in tempo, ma Santo Iddio! aveva talmente negli orecchi il racconto quotidiano del conte Ademaro: «....Una volta i Novelli-Casazzi tenevano corte e regnavano....») tra quattro settimane salirà come padrona le scale del palazzo più aristocratico del Friuli, avrà carrozze, cavalli, bei vestiti, ori; e voi seguitate a farle pascere le oche!... Donna benedetta, non capite che in queste quattro settimane bisognerà piuttosto che Rosa cerchi di elevarsi, di educarsi, di ingentilirsi, che so io?... di fare insomma dimenticare un poco che è una contadina? Mi capite? Oppure volete che il contino Folco si vergogni di lei?
— Sissignore....
— Come, sissignore? Sissignore che cosa?
— Eh.... dicevo: sissignore, ho capito.... Io non sapevo.... Mi regolerò secondo le sue idee....
— Donna benedetta, ci vuol tatto, tatto e tatto! In queste quattro settimane arrischiate di guastar tutto, se non mi ascoltate! E per colpa vostra Rosa perderà la sua fortuna....
— Madonna mia, per carità!
— Dunque ricordatevi: non più dar da mangiare ai polli, nè ai bovi, nè attinger acque alla fontana, nè lavare al torrente. E così pure certe dimestichezze colle ragazze del pae se da oggi in poi sono da evitarsi.... Avete capito?
— Sissignore, — rispose ancora Menica, rossa e confusa.
Rosa si avvicinava intanto lentamente tenendo per mano la sua piccola sorella. La sua figura si delineava nitida sul gran sfondo cupo degli alberi.
Ella era alta, svelta e nello stesso tempo formosa; la perfezione delle sue forme dava anche al suo incesso una compostezza e un’armonia che colpivano.
Il volto era bello, purissimo di linea, delicato di tinte, illuminato da due immensi occhi lionati. Una gran treccia bruna incorniciava quella radiosa purità di medaglia antica. Solo le mani e i piedi, un po’ larghi e tozzi, rivelavano la razza.
Il dottore inforcò gli occhiali.
— Dio degli Dei! — esclamò. — È pur bella! Rosa, rosa, rosa di maggio, il suo nome è ben scelto! Ma che mi vengono raccontando di alberi genealogici, di quarti, di antenati, di nobiltà?... Questa è la nobiltà vera a cui m’inchino, l’unica, per Dio, che valga qualche cosa a questo mondo, la nobiltà della linea, l’aristocrazia della forma!... Dio degli Dei! Si può essere più belli di così? Di dove vi vengono, Rosa, quegli occhi? e quei capelli? e quei colori, Rosa di maggio?... Bellezza, bellezza! Per nulla gli antichi non ti erigevano dei templi!... Alma Venus!
La fanciulla si era accostata alla madre, ar rotolando a testa bassa un lembo del grembiule scarlatto e riparandosi dietro quel baluardo. Ella arrossiva con imbarazzo alle declamazioni del dottore pur senza afferrarne completamente il senso; ad un tratto prese in braccio la sorella e nascose il volto fra i capelli di lei.
— Addio, addio, bella ritrosa! — rise il dottore, tirando un ricciolo della piccola che era fra le sue braccia. — Menica, siamo intesi: tatto, tatto e tatto! — e se ne andò.
Rosa depose a terra la bambinetta, e, sospirando di sollievo, si avviò verso la cucina.
— Rosa, che fai? — domandò timida la madre.
— Vado ad accendere il fuoco per la polenta, mamma.
— No, cara; — disse Menica, e arrossì, — questa sera lo accendo io.
La ragazza si voltò ed incontrò gli occhi della madre.
Ma anche la madre in quel momento guardava la figlia, e la guardava come se la vedesse allora per la prima volta e non dovesse rivederla mai più.
Un po’ più tardi, verso il tramonto, gli uomini rincasarono, e le scodelle fiorate furono disposte sul desco.
Il padre incominciò a mangiare lentamente, senza parole, coll’appetito silenzioso e quasi religioso dei lavoratori; il maggiore dei fratelli, presa la sua scodella, sedette sotto il portico sulla scala a piuoli; l’altro, come d’abitudine, sulla soglia della cucina in compagnia del gatto. Rosa si mise a imboccare la piccola. Una specie d'imbarazzo pesava su tutti.
Poi i fratelli s'incamminarono verso il paese, il padre entrò nella stalla, la piccola fu messa a dormire.
Rimasero sole, nel cortile, Rosa e la madre. C'era una panca, e la madre la spolverò col fazzoletto e accennò a Rosa di sedersi, poi sedette anch'ella, un po' discosto, in silenzio.
La casetta era là, dietro a loro, tacita e affumicata, vigilata dal gran pioppo. Il prato le si stendeva dinanzi, e in quel prato i meli erano carichi di frutta. La chioccia traversava il cortile con aria di importanza seguita dai suoi pulcini insonnoliti, il gattino nero si leccava la coda sull'uscio della cucina. Le prime lucciole apparivano e sparivano lungo le siepi.
— Perchè piangi, Rosa?
— Non so, madre.
Un telegramma da Napoli annunciò inaspettatamente il ritorno degli sposi quindici giorni prima del fissato.
Il conte Ademaro e il dottor Fabrizi andarono, con un tempo infame, ad attenderli alla stazione di Udine.
Entrambi cercavano d'interpretare, e commentavano, non senza una certa preoccupazione, il telegramma sibillino.
Il direttissimo da Roma era in ritardo. Finalmente eccolo, rombante e sibilante; ecco Folco in spolverina e berretto da viaggio che sporge il capo dallo sportello, agita il fazzoletto, e ride colla sua gran bocca.
Rosa è un po' pallida, ma sorride anch'ella dietro al marito, avvolta in un velo grigio, in un lungo mantello da viaggio che dà alla sua silhouette dei contorni molli e indecisi.
— Lode a Dio, state bene! — esclama il conte Ademaro non appena gli sposi hanno messo piede a terra. — Come va che siete tornati senza compiere il vostro giro?
— Prima di tutto i denari erano finiti, papà, — risponde Folco; — eppoi sentivamo nostalgia di questi luoghi, di voi, della casa.... non è verò, Rosa?
— Sì; — annuì mitemente la nuova sposa, benchè non fosse ben certa del significato della parola nostalgia.
Lo suocero le si rivolse con gentilezza:
— Clemenza si scusa di non esser venuta anch'ella alla stazione, ma con questo tempo temeva per i suoi reumi....
— Grazie....
S'incamminarono tutti verso l'ufficio bagagli per lo svincolo dei bauli e delle cappelliere.
Pioveva a dirotto. La carrozza di casa Novelli aspettava, coi due cavalli bianchi divenuti pepe e sale dagli anni, e al suo fianco la carrozza del dottor Fabrizi si pavoneggiava della nuova vernice, colla baia piena di guidaleschi che riassumeva col suo aspetto tutte le amarezze e le delusioni della razza cavallina. — Rosa sale col papà, io col dottore! «Divide et impera!» — esclamò Folco, citando a proposito e a sproposito.
Ed aiutati i due a salire nel «brougham», si attaccò al braccio del dottore e montò con lui nella carrozzella.
— Ma sapete che è un bel tipo mio padre! — proruppe egli non appena la baia si mosse. — Mi mette sulle braccia una donna.... come dire?... di una primitività selvaggia.... quale Dio fece, insomma.... me la veste da signora, mi dà del denaro e mi dice: «Gira il mondo con lei, va nei migliori alberghi; conducila nei musei, nei teatri, al caffè, divertiti e falla divertire!...» È enorme!... E poi si meraviglia che sia tornato prima del fissato! Ma un altro sarebbe tornato dopo due ore! C'è voluto il mio coraggio da leone, dottore mio, per resistere venti giorni! Una vita, caro amico!... Si tratta che ho dovuto incominciare a insegnare a Rosa a vestirsi, a sedere, a camminare, a mangiare, a salutare, a tacere.... ho dovuto imporle delle vere torture, abituarla a portare il busto, i guanti, il cappello, le scarpe, a mangiare il risotto colla forchetta ed il pesce senza coltello, a fare il bagno.... Auff! E vi assicuro che mi sono convinto che dev'esser più facile ammaestrare un individuo a rubare, ad assassinare, ad assaltare il prossimo per le strade, che ammaestrarlo ad essere puramente e semplicemente una persona civile. Eppure la poverina ci mette tutta la sua buona volontà....Ma che volete? quando si crede di essere arrivati a qualche risultato, ecco l'imprevisto, l'imprevisto che vi spalanca davanti un abisso, che vi manda all'aria tutte le vostre speranze! Sentite questa. Otto giorni dopo il nostro matrimonio eravamo a Firenze e dovevamo partire per Roma col diretto delle tre. C'era tempo, e i bagagli erano stati spediti, il conto pagato.... io propongo a Rosa di fare a piedi il tratto dall'Hôtel alla stazione; ella accetta. Arriviamo, saliamo nello scompartimento; io guardo Rosa, e la vedo pallida pallida, quasi colle lagrime agli occhi. «Che cos'hai, cara? Ti senti male?» «No....» «Ti ho dato qualche dispiacere?» «No....» «Volevi rimanere ancora a Firenze?» «No.... no....» «Ma insomma, che cos'hai?» «Mi leverei le scarpe»....Tableau! Non vi dico «ma tête!» Tutto questo, capirete, si poteva evitare se il babbo e la mamma avessero avuto meno fretta, se non si fossero lasciati sobillare da don Evaristo. L'educazione di Rosa si sarebbe potuta iniziare prima delle nozze, e con un po' di tirocinio preliminare....
— Eh, caro mio, bella educazione avreste iniziato voi! Ci sarebbe stato da fidarsi!... Vostro padre ha avuto buon naso limitando il numero dei vostri colloqui da fidanzato!... Quanto alla fretta, voi oggi siete calmo, ragionate da persona assennata, ma allora, non ricordate più? Sembravate impazzito, sembravate un lupo arrabbiato....«La voglio, la voglio e la voglio!» Si è dovuto far presto per impedirvi qualche follia.
— Sarà, sarà....Del resto non sono mica pentito, sapete! Sono seccato, annoiato del mio viaggio, questo, sì. Ma per Rosa! Ella è un tale splendore, una così bella creatura.... Io non ho mai visto una donna più bella, più completa.... E sì che me ne intendo di donne! — rise egli, ammiccando cogli occhi lucidi e un po' velati egli uomini che la sensualità tiene come un giogo. — ....E con tutto ciò di una dolcezza, di una sommissione, di una docilità....quale Dio fece, insomma! Ella è ancora la schiava davanti al padrone, la Griselda boccaccesca....
— Per carità, non vi metterete mica a fare il Gualtieri!
— Non c'è pericolo, mi piace troppo. Ah, bisogna venire in campagna per pescare donne simili! In città se n'è perduto lo stampo, e da un pezzo, amico mio!... Del resto anche come educazione, in questi venti giorni ha fatto miracoli. Vedrete.
Il tempo si era rasserenato. La villa Novelli appariva già, bianca nel folto degli alberi, col suo cornicione barocco e le statue rappresentanti fauni e deità disposte ad intervalli regolari lungo il muro del giardino. Era una villa vasta, di puro stile secentesco, col doppio giro di mura all'intorno, e un mirabile cancello in ferro battuto sormontato dallo stemma di famiglia. Le finestre del pianterreno avevano inferriate a bizzarri disegni e nel centro vi si ripeteva lo stemma. Una specie di porticato fatto di carpini intrecciati partiva dall'ala sinistra della villa e conduceva a una fontana ormai secca dove le lucertole passeggiavano indisturbate. L'ala destra, dove si estendevano i granai e le serre, faceva capo alla chiesetta, insigne per un coro intagliato dal Brustolon.
Dietro alla villa, nel centro di una grande prateria, un'altra vecchia fontana, ma viva, fresca, zampillante, contornata da grandi vasi di limoni e di cedri; in fondo alla prateria il labirinto, dove nessuno più si avventurava, inutile e silente fra le alte siepi di bosso. Tutto aveva un'aria ordinata, rispettabile e vecchiotta.
La contessa Clemenza aspettava gli sposi sulla gradinata, col suo bel vestito di seta nera, uno sciallino sulle spalle e i guanti. Ella aveva preparato il suo più amabile sorriso, e, aspettando, offriva a Dio quell'attesa, il raffreddore incipiente, le Avemarie ripetute mentalmente all'infinito.
Dietro ai vetri del guardaroba Giovanna, la cameriera, curiosa ed ostile, aspettava anch'ella, e commentava fra sè l'arrivo improvviso.
Il conte Ademaro aveva decretato, e in questo si era mostrato gran signore, che la nuova sposa fosse accolta e trattata in casa come fosse stata «una dei loro».
Poichè l'avevano ritenuta degna di portare il loro nome, qualunque ne fosse il motivo, ella doveva essere rispettata e considerata come una figlia. Ad evitare malintesi e pettegolezzi, egli aveva persino preso la draconiana misura di licenziare tutta la vecchia servitù, tranne Giovanna, in vista dei suoi vent'anni di servizio e del suo attaccamento alla contessa Clemenza: tutti gli altri crano stati congedati e sostituiti. E il conte dava per primo esempio di deferenza verso la nuora, chiamandola sempre: «mia figlia» quando parlava dell'assente in presenza di terzi, e qualche volta anche: «la contessina», il che, bisogna dire a onor del vero, non riesciva mai a pronunciare ben chiaro senza trangugiar la saliva.
Le carrozze erano arrivate. Non pioveva più. L'arcobaleno tingeva dei sette colori il cielo fresco. Folco scendeva d'un balzo, colla spolverina svolazzante, e colle sue lunghe gambe d'un balzo saliva la gradinata.
— Mamma, mamma, siamo qui, ti conduco la sposa!
La sposa saliva composta e modesta a fianco del conte Ademaro, con un sorriso mite e timido sul bel viso improvvisamente divenuto di porpora. Giunta sul penultimo gradino, prese la mano della suocera e la portò alle labbra.
— No, no.... che fai?....Cara figlia....- disse la contessa Clemenza, e la baciò in fronte. Poi la guardò socchiudendo molto gli occhi.
Entrarono in sala. Comparve il cameriere col vassoio del caffè e i biscottini. Tutti sedettero nelle poltroncine che avevano ospitato nelle loro comode braccia quattro generazioni di Novelli-Casazzi. Altri Novelli-Casazzi, togati, incipriati, dai grandi orecchi sporgenti, guardavano, chiusi nelle vecchie cornici.
— Cara, — disse la contessa Clemenza rivolgendo la parola alla nuora, — vi siete divertiti a Roma?
— Abbastanza.... — E Napoli vi è piaciuto?
— Abbastanza....
— Come, abbastanza? E il mare?... e il Vesuvio?... — esclamò scandalizzato il dottor Fabrizi trinciando ammirativamente l'aria colla mano.
La nuova sposa guardò il marito e arrossì. Folco le aveva insegnato che «una persona fine non deve mai manifestare vivacemente il proprio piacere, nè il proprio disgusto, nè, sopratutto, la propria sorpresa».
Ella finì di sorbire il caffè a occhi bassi, dritta sul busto, senza versarlo sul piattino, correttissimamente.
— Ma avrete bisogno di salire nelle vostre camere, di riposare un po', non è vero? — ammonì il conte Ademaro. — Noi siamo dei grandi egoisti a non ricordarci che avete fatto nove ore di viaggio!....Folco, suvvia, conduci tua moglie nel vostro appartamento!
La contessa Clemenza lasciò passare il figlio e si appoggiò al braccio della nuora. Il cameriere era impietrito col vassoio in mano.
— Cara, — disse la suocera salendo le scale, — voi siete arrivati così improvvisamente, che non si è potuto festeggiare in nessun modo il vostro ritorno. Ma Ademaro vuole presto invitare ad un déjeuner.... a una colazione.... quei pochi parenti che ancora ci restano.... Il tuo corredo è stato combinato così in fretta che tu non hai nessun vestito adatto alla circostanza, ma domani ne ordinerò uno a Torino, e quando l'avrai.... — Oh, signora!
— Chiamami mamma, cara, — corresse la suocera affabilmente; e continuò a bassa voce: — Spero che ti troverai bene con noi. Don Evaristo mi ha detto che tu sei molto pia, molto devota, e questo mi fa tanto tanto piacere. Io conto su di te per richiamare Folco alle pratiche religiose che da tanto tempo trascura.... Se tu potessi ottenere che si confessasse almeno una volta al mese....
— Rosa, Rosa! — chiamò Folco dall'alto delle scale, spalancando l'uscio della camera nuziale. — Ecco il nido!
Giovanna depose sulla tavola una grande scatola di cartone timbrata di ceralacca.
— Signora contessa, deve essere la toilette da Torino.
— Avverti subito la contessina, — disse la contessa Clemenza affrettandosi verso la scatola e tagliando colle forbici lo spago.
Rosa accorse premurosamente.
— Sei contenta, cara? — chiese la suocera sollevando con precauzione le carte veline e togliendo i rigonfi dentro alle maniche.
— È anche troppo bello per me, mamma: — disse la sposa.
Il vestito infatti era molto ricco; di una tinta giovanile, e, «nello stesso tempo», seria, — commentava la contessa Clemenza — di una forma nuova, e, «nello stesso tempo», distinta; di un raso bleu electrique coperto di tulle festonato e ricamato.
— Naturalmente bisogna saperlo portare, — disse sottovoce la contessa Clemenza quasi rispondendo a un suo intimo soliloquio, e guardò Rosa socchiudendo molto gli occhi. — È molto bello, molto fine, — continuò in fretta avvicinandolo a sè quasi da toccarlo. — Spero che ti stia bene. La colazione è fissata per sabato venturo, abbiamo dieci giorni di tempo.
E di nuovo ella guardò Rosa con una certa esitazione.
Rosa, che indossava una semplice camicetta di batista ed una corta gonna grigia, non sembrava affatto a disagio ed era molto bella, ma i suoi occhi si attaccavano allo strascico del nuovo vestito con così evidente angoscia, che la suocera trovò opportuno di rincuorarla ripetendo: — Abbiamo dieci giorni di tempo.
— Temo che non sarà possibile presentarla nemmeno sabato....- sospirò la contessa Clemenza, rivolgendosi a Giovanna, non appena Rosa si fu allontanata colla scatola.
— Perchè, contessa?
— Perchè non può, non sa.... Che vuoi che ti dica? Non è ancora a posto, insomma.
— Ma contessa! — redarguì famigliarmente la cameriera. — In poco più di due mesi, siamo giusti, vuole che faccia miracoli? A me pare che si sia ridotta anche troppo, poverina!... Uno che non sapesse, non direbbe mai...
— Eh sì! Ma tu conosci la.... finezza.... di mia cugina Grola: io tremo, tremo per quella colazione! E Ademaro ci tiene in un modo!
— Si dia pace, si dia pace, vedrà che tutto andrà bene! — predisse Giovanna.
Ormai l'ostilità della vecchia donna era caduta davanti alla dolcezza, alla bontà, alla modestia della nuova sposa. Chi poteva voler male ad una creatura che non apriva bocca se non per sorridere e per ringraziare, che non aveva volontà, che non aveva esigenze, che non aveva civetteria, disposta sempre alla condiscendenza, alla gentilezza? Le armi più acute e più velenose si sarebbero spuntate. Ella era piena di riguardi e di deferenza verso la suocera, che seguiva nelle interminabili novene, nelle interminabili visite agli altari; piena di premura e di pazienza per lo suocero cui teneva compagnia per ore e ore ascoltando senza batter ciglio ogni giorno la stessa storia sul «periodo più florido della famiglia Novelli-Casazzi». E col marito, sempre eguale, obbediente, sorridente, gentile, pronta ad accorrere alla sua chiamata, disposta a tacere e a restare nell'ombra se egli la dimenticava.
— Certo, per lei è stata una bella fortuna, — diceva Giovanna nei verbosi pranzi della servitù, — ma anche il contino Folco può baciarsi la mano dritta e rovescia per aver trovato un angelo simile! Un vero angelo di bellezza e di bontà, mentre lui, siamo giusti, per brutto è brutto, ed ha fatto una vita, ha una salute!... Libera nos, Domine!
— Ti dispiacerebbe, cara figlia, — chiese il conte Ademaro alla nuora un pomeriggio, mentre egli era immobilizzato sulla poltrona da uno dei suoi soliti attacchi di gotta, — ti dispiacerebbe che ti chiamassi Eufrasia, anzichè Rosa? Eufrasia è un nome.... come dire?... più distinto, e ricorre spesso nella nostra famiglia.... Difatti anche nell'albero....
— Se le fa piacere, babbo!
E da quel giorno ella era stata Eufrasia. Per tutti, fuorchè per Folco che la chiamava Nini, Cici, Seli e Suni, tutto, tranne che Rosa. Il suo nuovo nome le costava molti sussulti e rossori improvvisi, perchè non sempre se ne ricordava, e spesso tardava a rispondere, e poi rispondeva precipitosamente, trasalendo; ma che importa?
— Un po' per volta....- diceva lo suocero.
— ....Ti dispiacerebbe, cara, — diceva la suocera, — pettinarti così, guarda, come questo figurino? Tu hai dei capelli splendidi, ma li disponi con troppa semplicità e non figurano.... La tua modestia è lodevole, ma pensa che devi piacere sempre più a Folco, e sembrargli, oltre che bella, anche elegante....
— Proverò, mamma.
La suocera le dava un'enorme soggezione, per quel suo passo silenzioso, per quel modo di guardare socchiudendo gli occhi, per l'abitudine di far precedere da un «cara» ogni suo discorso, per quei guanti soprattutto, che non toglieva mai.
— ....Bisognerà che tu prenda qualche lezione di francese, amor mio, — consigliava Folco; — non per impararne gran cosa, ma almeno quelle frasi fatte che cadono ad ogni passo nella conversazione abituale.... Non saprei....«Le jeu ne vaut pas la chandelle; Honny soit qui mal y pense; A tout seigneur tout honneur....» Capisci?... Per poterle poi dire con noncuranza quando ne capita l'occasione....
Non ci voleva che la testa vuota del contino Folco per progettare di far insegnare il francese a una che non sapeva neppur l'italiano, che a stento correggeva le ruvide cadenze del dialetto natìo con uno sforzo continuo ch'era un martirio; ma Rosa non si era opposta, anzi aveva ringraziato, e la maestra aveva incominciato a venire da Udine due volte la settimana. Una svizzera dura e stecchita col cappellino alla Lobbia e la penna di gallo, che non guardava mai in viso la scolara, e le faceva ripetere all'infinito:
— La rose — la rosa. La fleur — il fiore. La mort — la morte. La faim — la fame. Plus de nez, plus de nez, madame la comtesse!
— ....Avete mai tentato, figlia mia, di farvi accompagnare alla chiesa dal conte Folco quando vi ci recate per le vostre devozioni? — bisbigliava don Evaristo nella penombra del confessionale. — L'influenza di una giovane sposa è grande sull'animo del marito, e se voi voleste....
— Rosa di maggio, — le diceva il dottor Fabrizi quando gli riesciva di coglierla sola, sulle scale, o in giardino, — siete felice? Vi trattano bene? — Sì, sono felice, mi trattano bene! — rispondeva ella arrossendo; e scappava da quegli occhi acuti e si metteva alla finestra della sua camera a guardare. Aveva scoperto un vecchio canocchiale da marina che il conte Ademaro aveva comperato illo tempore quando aveva fatto il suo famoso viaggio a Tunisi. Senza che nessuno le insegnasse il modo di adoperarlo ella aveva imparato ad allungarlo e a dirigerlo dalla sua finestra qua e là sui poggi vicini fino a un gran pioppo, di cui la vetta ondeggiava sovra tutti gli alberi. E come l'autunno avanzava, e fe foglie cadevano, e di tra gli alberi quasi spogli si poteva vedere molto lontano, un giorno ella distinse presso al pioppo un tetto, e un pennacchio di fumo, e.... le parve?... nel cortiletto un gonnellino rosso e due gambette nere a lei ben note....
Ogni giorno all'insaputa di tutti ella guardava, ed il suo cuore ingenuo, imprigionato dal busto, occultava con trepida gelosia il segreto di quella finestra, di quella lente, e di quella felicità.
La vigilia del sabato fissato per la colazione dei parenti, Folco, salendo a quattro a quattro i gradini della scala, arrivò alla stanza nuziale e la trovò chiusa di dentro. Di dentro si sentiva un rumore regolare e quasi cadenzato di passi.
— Suni, apri, sono io.
La maniglia girò, e comparve Rosa, molto rossa e confusa, coi capelli arruffati, e il terribile vestito bleu electrique incompletamente agganciato. — Che fai? — chiese Folco scoppiando in una risata.
— Non dirlo a nessuno! — supplicò lei. — Sto provando il vestito.... per.... per imparare a portarlo.... Domani vengono i tuoi parenti a colazione....
— Oh, bambina cara! — fece egli afferrandola alla vita e coprendola di baci. — Ma come va che questo vestito gira tutto di traverso? Eh! sfido io!... l'hai messo a rovescio.... hai la schiena sul petto! — E lì nuova risata e nuova pioggia di baci.
— Per carità, Folco, lo sciupi! — pregava Rosa schermendosi.
Folco l'obbligò a togliersi il corpetto e a rimetterlo per il suo verso.
— Va bene così? — chiese ella.
— A me piaci meglio senza, — le sussurrò all'orecchio il marito cogli occhi lucidi.
— Credi.... credi.... che la mamma troverà....troverà....che so portarlo?
— Io credo di sì, tesoro! — rispose Folco, e l'abbracciò.
Il giorno dopo, alle undici e tre quarti in punto, ecco la campana della portineria che annuncia l'arrivo dei parenti.
Il barone e la baronessa Grola, don Giovanni Novelli (del ramo cadetto) priore dell'Abbazia di Grugliasco, il conte Fiano.
— Questi sono gli unici parenti stretti che ci restano, — disse il conte Ademaro solennemente non appena gli ospiti furono seduti in circolo intorno a un tavolo carico di biscotti e di caraffe di vermouth. E come soleva dirlo ogni volta che si trovavano riuniti, tutti, compreso don Evaristo e il dottor Fabrizi, accolsero la notizia in dignitoso silenzio. Anzi il dottor Fabrizi pensò irriverentemente: Gli altri parenti se li è mangiati l'albero.
Incombeva su tutti quel silenzio un po' nervoso che precede le colazioni.
— Folco, Eufrasia sa che sono arrivati? — chiese il conte Ademaro per ravvivare l' ambiente.
— È tanto cara....- sussurrò la contessa Clemenza alla baronessa Grola. — «So lieblich....», — ripetè poi ricordando che la cugina, tedesca di Haufbeuren, dopo trent'anni che era in Italia non capiva ancora bene l'italiano.
La porta si aperse e comparve Rosa, col viso rosso come una fragola matura, pettinata da Giovanna con lungo studio e lungo soffrire, colla corona comitale sul petto, abbigliata col vestito di raso bleu electrique.
Vi fu un attimo di silenzio. Lo strascico ondeggiava qua e là abbastanza disinvolto. Tutti gli occhi si posarono su di lei e decretarono all'unanimità: Non sa portarlo.
E anche le credenze panciute, e le poltrone rococò, e le terraglie allineate sulla mensola ammiccarono fra loro e dissero: Non sa portarlo.
E tosto gli occhi di tutti saltarono dal vestito terribile alle sue grosse mani.
— Mia figlia.... la nostra cara figlia.... il barone e la baronessa Grola.... don Giovanni Novelli.... il conte Fiano.... — «Schr hübsch! sehr hübsch!» — squittì la baronessa Grola con un sorriso che pareva una smorfia.
Baci e strette di mano. Il cameriere entra ad avvertire che la colazione è servita. Tutti passano in sala da pranzo. Seggono. La baronessa Grola ispeziona Rosa coll'occhialetto.
— «Sehr hübsch! sehr hübsch!...»
Per fortuna la zuppa fragrante di erbaggi e di crostini dà una nuova meta all'attenzione generale. La conversazione riprende e si fa tosto più gaia. Rosa parla poco; ella è seduta fra il barone Grola e don Giovanni Novelli; tutti i suoi sforzi sono rivolti a tagliare con nobiltà un'ala di pollo.
Il dottor Fabrizi che beve molto e mangia poco, gira lo sguardo intorno alla tavola e pensa: Perbacco! O ella è troppo bella per loro, o essi son troppo brutti per lei.
Folco sembra un vecchio, una scimmia perfezionata, più allampanato del solito, colla gran bocca che mostra i denti radi di cui uno tutto d'oro, le basette rossiccie sulle forti mascelle, due grandi orecchi sporgenti; la suocera scolorita, colle mani riparate dai guanti e gli occhi cisposi; il conte Ademaro, grande, grosso e panciuto, coi capelli rossi e il colorito acceso dei gottosi; il barone Grola col cranio lucido come una palla da bigliardo, il monocolo, e la dentiera posticcia; don Giovanni, un'ombra, un cero, uno spettro, colle mani lunghe, adunche, e venate; la baronessa col naso rincagnato e le enormi guance tedesche.... — O ella è troppo bella per loro, o essi sono troppo brutti per lei. Fatto sta che non armonizza coll'ambiente, che fa l'effetto di una pennellata troppo audace in un quadro dalle tonalità tutte grigie. La sua bellezza che si intonava mirabilmente colla verde freschezza dei prati, così perfetta da non temere la gran luce del sole, così viva da non temere il confronto delle rose, sorella dei fiori, delle acque, degli alberi stormenti al rezzo di primavera, qui urta lo sguardo e lo spirito come una nota di troppo squillante gioia. Questo ambiente, anzichè incastonarla come una gemma, l'opprime, la schiaccia. Evidentemente, essi sono troppo brutti per lei....
Ma in verità quel giorno Rosa non era bella affatto. La sua testina, dalla linea cosi svelta e pura, spariva sotto un castello di ricci, il collo bianco e lungo era strangolato da un alto colletto di trina, il viso era troppo rosso, la linea scultoria della sua figura era nascosta e ingoffata dalla doppia tunica di raso e velo.
Ogni volta che alzava gli occhi ella vedeva rivolto su di sè il terrificante occhialetto della baronessa Grola, e maggiormente arrossiva. La baronessa Grola sbucciava con forchetta e coltello l'uva zibibbo.
Finalmente, come Dio volle, la colazione senza incidenti ebbe termine. E fu proposto di prendere il caffè in giardino sotto il pergolato di carpini. Folco si attaccò al braccio della sposa e le afferrò anche una mano accarezzandole il polso e salendo su verso il braccio. Ella si fece di bragia e timidamente si svincolò.
Sotto al pergolato sedettero intorno ad una tavola di marmo inverdita e annerita dalle piogge e dalla borraccina, e il conte Ademaro incominciò una interminabile storia «di famiglia».
Tutti cadevano dal sonno, accasciati di noia e di cibo, ma si tenevano in dignitosi atteggiamenti sui duri sedili di marmo, ed ogni tanto, a proposito o a sproposito, facevano col capo cenni d'approvazione.
— Sì, tutti i primogeniti della famiglia Novelli-Casazzi erano cavalieri dell'Ord....
In mezzo a quel monotono stillicidio di parole un lungo sbadiglio s'intese, ma lungo, largo, plebeo, di quelli che servono di biglietto di presentazione.
Il conte Ademaro si arrestò di botto. Tutti allibirono.
Un attimo. Agli occhi socchiusi della suocera, all'occhialetto brandito come un'arma dalla baronessa Grola, gli occhi di Rosa risposero sereni, incoscienti.
Il conte Ademaro riprese, guardando i carpini:
— Erano cavalieri dell'Ordine di San Michele Arcangelo....
— Cara, — disse la suocera, — vorresti prendere i biscottini e offrirli al conte Fiano?
Rosa si alzò, inciampando un po' nello strascico, e si diresse verso il vassoio che il cameriere aveva posato sull'orlo della fontana. E all'improvviso gli occhi le si velarono ed ella cadde lunga distesa sull'erba.
Tutti diedero un grido e accorsero.
— Non fate confusione, non è nulla! — disse il dottor Fabrizi con autorità. — Probabilmente questo.... questo deliquio....è apportatore di una buona notizia.
E da quel momento Rosa divenne una creatura sacra.
— Dato che certi desideri, certi capricci, della futura madre durante la gravidanza possono costituire delle vere sofferenze se non appagati nei limiti del possibile, e for-se an-che recar nocumento al nascituro, io consiglierei alla contessa Clemenza di accontentare la contessina, — sentenziò il dottor Fabrizi.
— Vorrei quella di casa....- azzardò con voce appena intelligibile la gestante.
— Cara, — rispose la suocera, — la polenta è sempre eguale dappertutto. Farina, acqua, sale....
Dopo una lunga attesa comparve Giovanna con un vassoio d'argento, e sul vassoio un piatto, e sul piatto una salvietta, e sulla salvietta un quadratino giallo della grandezza di una fetta di crema. Sulla salvietta erano ricamati in rilievo la corona e lo stemma dei Novelli-Casazzi, e la polenta ne aveva ricevuto al rovescio la chiarissima impronta. Anche lì!... Due occhi desolati si posarono sulla polenta e sulla corona.
— Bada di masticarla bene, — raccomandò lo suocero; — che non ti riesca pesante allo stomaco.
Egli era raggiante. Le parti adesso erano invertite: siccome la nuora, molto sofferente, lasciava di rado le sue stanze, era lui che andava a tenerle compagnia, animato dall'intenzione di «svagarla» coi suoi racconti «di famiglia», ma cadendo sempre a parlare del bimbo, dell'aspettato, del piccolo Ademaro promesso.... Che fosse una femmina non gli passava neppur per la mente: era un maschio, «doveva» essere un maschio; e se pure qualche volta l'incresciosa possibilità gli si affacciava, celava gelosamente il suo dubbio col superstizioso terrore che parlandone divenisse realtà.
Quanto a Rosa, ella non pensava al sesso; diceva: il bambino.... e non andava più in là. Tutto il suo pensiero, tutto il suo cuore, tutta la sua vita, erano chiusi nel cerchio magìco di quella parola.
....Due piccole manine, due piccole braccia tenere segnate all'ingiro dagli anelli, una, testina tonda come una mela che si appoggiasse sulla sua spalla colla leggerezza e il tepore d'un uccellino....
E finalmente lo suocero e lei s' intendevano, non avvertivano più barriere, non avvertivano più stonature: erano un solo cuore, un solo sangue per quel piccolo essere desiderato. L'entusiasmo e la contentezza del conte Ademaro erano tali che arrivava perfino a fantasticare sulla possibilità di nobilitare la nuora.
— Un po' per volta Eufrasia si farà una vera signora! — aveva confidato al dottor Fabrizi. — E chissà che non riesciamo a mettere anche lei «nell'albero»! ....Sst! Silenzio con tutti!... Ci sarebbe a Napoli un nobile decaduto disposto ad adottarla (naturalmente gli ho fatto parlare da terzi colla dovuta circospezione), ma ci vuole l'assenso dei genitori veri, e quel testardo del vecchio Bombarda, cui ho fatto avanzare mezza parola da don Evaristo, non ne vuole sapere.... Basta! intanto speriamo che la cosa più importante vada bene.... Che ne dite, dottore?
— Speriamo, speriamo.
Ma la salute di Rosa gli dava veramente un po' di pensiero.
Ella era pallidissima, cogli occhi segnati da profonde occhiaie, pativa d'un'insonnia feroce, mangiava poco e svogliatamente, e spesso era colta da deliqui che duravano a lungo.
Uno specialista venuto da Torino aveva prescritto l'assoluto riposo e una dieta leggera, quasi liquida.
Rosa era dunque relegata nella sua camera e si moveva languidamente dal letto al divano, avvolta in un'ampia veste sciolta, colla treccia bruna sulle spalle. E quella camera era divenuta il quartier generale della famiglia.
Il conte Ademaro vi passava quasi l'intera giornata, tranne la solita ora dedicata al dottor Fabrizi, al tresette e al vin bianco; Giovanna andava e veniva quanto più spesso poteva, trattenendosi ogni volta, quando altri non c'era, a dare un nuovo consiglio, a fare una nuova raccomandazione.
— Se lo allatti lei, sa, contessina! Non si lasci montar la testa dalla moda e dal contino Folco. Il marito è il marito, ma la propria creatura passa innanzi a tutti!
E un'altra volta:
— Non lasci che gli mettano nome Ademaro! Ce ne son sette con quel nome sepolti nella cappella.... Porta disgrazia!
E ancora:
-Speriamo che somigli a lei, e che sia bello come lei.
La contessa Clemenza aveva trasportato la sua cesta da lavoro, le sue sete e i suoi merletti, nella stanza della nuora, e ci veniva ogni mattina, sedeva presso alla finestra, toccando quasi col naso la finissima tela, tirando l'ago lentamente ma indefessamente colle sue mani inguantate e miracolose.
Cuffiette rosee e cilestrine, morbide, tutte merletti; camicine trasparenti inghirlandate allo scollo da un leggero ricamo a passata, coperte soffici, di raso azzurro e di raso bianco, su cui il grande stemma verde e rosso dei Novelli-Casazza metteva una nota violenta, coi due grifi rampanti....
Rosa ammirava e taceva.
Ora, sì, ora, ella sentiva la sua fortuna. Che la sua creatura avesse quelle cose belle, che venisse al mondo in tanta gioia d'attesa, che non conoscesse mai la miseria, le privazioni, la volgarità che accompagna il bisogno....
Ella non poteva lavorare per «lui». Quand'era a casa, non aveva cucito che dei sacchi, ed ora, solo toccando i tessuti meravigliosi che componevano il corredo del suo piccolo, ella temeva di sciuparli....
Dalla finestra, di tra gli alberi che gennaio aveva liberato ormai da ogni fronda, si sarebbe ora potuto veder chiaramente la casetta dei suoi, ma ella non guardava più, il cannocchiale dormiva dimenticato. Quando era sola ella parlava col suo bambino; le sue mani posavano sul ventre enorme e aspettavano trepide le pulsazioni del piccolo essere, tentavano quasi di indovinarne e di accarezzarne la forma. Il suo volto dimagrito raggiava di felicità, le sue sofferenze le erano care.
— Come stai, Suni? — chiedeva Folco affrettatamente quando rincasava dalle sue corse in carrozzino.
— Sto bene, — rispondeva sempre la gestante, e gli sorrideva.
Gli sorrideva con occhi un po' assorti, quasi scuotendosi da un sogno, tornando a fatica dal dolce paese dove era stata con lui.
Dacchè ella era incinta Folco era meno affettuoso e si faceva vedere di rado, aveva ripreso quasi la vita di scapolo.
Andava a Udine ogni sera colla charrette e rincasava assai tardi; forse aveva ripreso a giuocare; qualche volta si assentava per pomeriggi interi raccontando poi che era stato qua e là nelle ville vicine al tennis o allo skating.
E quando tornava, Rosa gli sorrideva, e non una parola di rimpianto nè una domanda curiosa uscivano dalle sue labbra.
Qualche volta ella sorrideva anche quando era sola, sorrideva a quello che era in lei, a quello che la faceva soffrire, che la faceva trasalire dei suoi sussulti, al piccolo cuore che pulsava del suo cuore: con così intensa felicità, così disperata speranza quale non tutte le madri conoscono.
Che cos'era lei senza quel bimbo? e quel bimbo che cos'era per lei?
Ella non era, non poteva essere, che mamma; e lo era tanto: ferocemente, appassionatamente, prima ancora ch'«egli» nascesse!
Un'alba finalmente «egli» arrivò.
Vagì, agitò i pugni chiusi, contrasse il piccolo viso rosso e rugoso.
Una donna dai capelli grigi e dall'aspetto tranquillo lo prese delicatamente e lo immerse nel bagno tiepido. Era un maschio.
La contessa Clemenza porse i lini, la cuffietta; Giovanna rimboccò la coperta stemmata della piccola culla; il conte Ademaro lo guardò con muta estasi.
Di là intanto la madre stava fra la vita e la morte.
Una donna vestita di rosso cogli spilloni d'argento in testa presentò alla puerpera il piccolo essere incipriato e infioccato come un agnellino pasquale.
Rosa, pallidissima, appoggiata ad una montagna di cuscini, tese le braccia e prese il neonato.
Glielo portavano soltanto nelle ore dei pasti, perchè ella era stata molto malata e non lasciava ancora il letto, e il dottor Fabrizi aveva acconsentito a lasciarglielo allattare solo col patto che fosse ragionevole e permettesse ad una balia asciutta di averne cura durante la giornata e la notte.
Rosa, dinanzi alla minaccia di prendere una nutrice se non voleva accettare quei patti, aveva ceduto.
Di solito il bimbo entrava nelle stanze materne strillando. Egli era molto buono, dormiva per ore e ore, ma quando si svegliava aveva fame e gridava disperatamente per darne l'all'arme.
Quel giorno invece egli era sveglio e non piangeva. Girava qua e là gli occhietti grigi, e un po' di bava gli scendeva sul mento e sul bavaglino ricamato.
— Che vuol dire, così buono, così silenzioso? — mormorò Rosa appoggiando teneramente il volto a quello di lui. Per tutta risposta dal grosso batuffolo di flanella e trine uscirono acuti vagiti.
— Ho capito, ho capito! — disse Rosa; e si slacciò il corpetto, gli porse il seno.
Avidamente le labbra della creaturina cercarono sulla dolce carne materna il capezzolo morbido e lo afferrarono.
Nell'avidità di suggere il latte gorgogliava, passando, con un piccolo rumore; le manine si agitavano confuse.
A poco a poco il poppare si fece meno intenso, gli occhietti si velarono di stanchezza, e infine, il grosso batuffolo di flanella e trine, ben sazio e pago, senza lasciare il capezzolo si addormentò.
La donna vestita di rosso si avvicinò cautamente al letto e attese che la madre glielo rendesse. Ma Rosa era assorta, in una immobilità di statua, coi raggianti occhi sul figlio.
Entrò la contessa Clemenza, sorridente, seguìta da Giovanna che recava una tazza di brodo e una tazza di caffè; entrò il conte Ademaro in punta di piedi, facendo scricchiolare il pavimento.
Rosa alzò gli occhi e li vide tutti intorno al suo letto nell'attitudine dell'attesa e dell' adorazione.
— Lasciatemelo questa notte! — supplicò. — Vedete, dorme. È tanto buono. Non mi darà nessuna noia. Lo metterò accanto a me sul letto grande. Se vi sarà bisogno, chiamerò Teresa. Lasciatemelo!
— E se torna Folco? — chiese la suocera. — Folco non dorme in casa da tre notti, — rispose Rosa tranquillamente, — e se tornerà stanotte darò il bambino a Teresa. Lasciatemelo! — supplicò. E c'era tanto ardente fervore nella sua preghiera che il conte Ademaro e Giovanna si lasciarono intenerire. Il loro parere prevalse.
Uscirono tutti, Giovanna ultima, dopo aver posato le tazze sul comodino e aver raccomandato tre volte alla puerpera di non dimenticarsi di bere il caffè e il brodo durante la notte.
Dopo la terza raccomandazione augurò la buona notte a lei e al fantolino, abbassò la veilleuse, e se ne andò.
Appena fuori s'incontrò, e per poco non urtò, nel contino Folco che, con zampe di velluto, traversava frettolosamente la stanza da toilette avviandosi verso le scale. Era in smoking, colle basette arricciate, un colletto inverosimile, le scarpine di vernice.
— Dove va, così bello? — domandò la vecchia donna senza tanti preamboli. — Non entra a salutare la contessa e il «piccinin»?
Folco alzò le spalle.
— Il «piccinin», il «piccinin», il «piccinin»! Ne ho un'indigestione io del «piccinin»! Lo amo, lo venero, e lo rispetto, ma qui è diventata una mania, non si può più vivere! Non si parla, non si vive, non si respira che pel «piccinin»! Avete tutti perduto la testa?!! Di' a mio padre, se è lui che t'incarica di farmi delle ambasciate, che io mi sono sposato per me, non per il «piccinin»! che non ho l'albero di traverso, io, come lui, ringraziando il cielo!... E da oggi in poi impara a pensare ai fatti tuoi; hai capito, Giovanna?
E prima ch'ella avesse tempo di rispondere la piantò in asso, colla bocca spalancata.
Il carrozzino attendeva. Giovanna sentì il trotto del poney, e la voce del contino Folco fischiettare, stonatissima:
Io voglio il piacer, le belle donzelle!
Chiuse gli usci uno dopo l'altro perchè la voce non arrivasse a chi in quel momento non avrebbe sentito neppur lo schianto di un fulmine.
La madre e il neonato, per la prima volta erano rimasti soli.
Ella non gli tolse il seno. Disgiunti e uniti.
Dalla lampada notturna pioveva una queta luce.
....Tepore dal seno materno a cui ancora la fresca guancia si posa, divina innocenza di quel sonno, incoscienza divina, inesprimibile profondità dello sguardo materno, inesprimibile felicità, sogno, realtà, speranza, dolcezza, unica verità, unico bene, unica estasi a nessuna altra eguale....
....Tu dormi, piccoletto, ed ella ti guarda. I suoi occhi ti baciano, i suoi occhi ti accarezzano.
Manine, capelli, dolci occhietti chiusi, sentite la carezza?
....Lo sai? Ella ti parla. Ti parla nel suo dialetto natìo.
Ti dice le parole che sua madre disse a lei, quando era in fasce, sotto il gran pioppo, e che ella non ha capite, ma «sa».
Ti dice le parole che sua nonna disse a sua madre, quando era in fasce, sulla montagna, e che ella non ha udite, ma «seppe».
....Senti? Ti canta la ninna-nanna che a lei cantarono.
Vê chê gracie che inamòre Cun chê boche de melùz: Cui îsal chê no us adore A vedê chei biei lavruz?
Benedete sei chê boche?
Agnulùt dal Paradis,
Rîd un pôch cun chê boçhute
....Senti? Ti racconta una storia.
....«Come il pioppo s'inchina e come ondeggia presso una tacita casetta.... come ride e come serpeggia il ruscello fra i pascoli.... e come argentino suona il campanello della pecora più grande, quella che guida il gregge....
Quanto sono belle le storie che ella ti racconta!
Chi te ne racconterà di più belle?...
Quanto sono dolci i suoi occhi che ti guardano!
Chi ti guarderà più dolcemente?... Chi ti darà tanto amore? Dormi, dormi, piccoletto! Vita, non lo destare!
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
La vecchia Giovanna corse incontro al dottor Fabrizi non appena sentì le sonagliere della baia da lontano.
Lo raggiunse sotto i carpini in giardino.
— Il bambino va peggio — diss'ella affannosamente — ed anche la contessina sta male; è in uno stato!... Stanotte il contino è rincasato alle tre; pare che fosse brillo, e voleva che la signora andasse a letto, mentre essa, dacchè il piccolo è malato, passa le notti sulla poltrona nella stanza di Teresa. Pare che la signora si sia rifiutata, fatto sta che il contino le ha fatto una scena, le ha detto delle cose.... La signora ha sempre taciuto, con una pazienza da santa, finchè a un tratto il bimbo s'è svegliato di soprassalto piangendo, e allora!... Teresa le dirà meglio. Teresa dice che non ha mai visto la contessina così, lei che è tutta dolcezza, tutta mansuetudine, tutta obbedienza. Pareva una furia. Il conte Ademaro è accorso alle voci, ma ormai il contino se n'era andato, e lei, l'ha trovata svenuta lunga distesa ai piedi della culla. Ora sta meglio, ma è così pallida che sembra una morta. Ah, dottore, che strazio! La sconta, sì la sua fortuna!... Venga, venga presto con me, per carità! — Dov'è il contino? — chiese il dottore affrettandosi verso la gradinata.
— Dorme, il furfante, — rispose ruvidamente la vecchia donna, — e quando si sveglierà non si ricorderà magari più di nulla. E intanto gli altri!...
Nella penombra della stanza la culla tutta veli biancheggiava come un'enorme farfalla.
Il piccolo Ademaro giaceva fra le trine, sveglio, colla testina affondata nel guanciale, e gli occhi aperti, due occhietti un po' opachi, un po' torbidi, senza vivezza. Il labbro inferiore sporgeva un po', cadente, scoprendo due dentini. Una leggera peluria bionda si arricciava sulla testa, sbucava fuori dalla cuffietta guarnita di nastri celesti.
Tratto tratto il piccolo emetteva un lagno, fievole fievole, moveva languidamente le mani, e nulla era più penoso che l'aspetto di quella sofferenza che non aveva neppur la forza di piangere.
Dopo otto mesi di vita rigogliosa, quasi esuberante, dopo che il visetto era diventato roseo e tondo come una mela, dopo che due dentini erano apparsi ad abbellire la boccuccia, dopo che gli occhietti avevano imparato a riconscere gioiosamente la madre, un deperimento improvviso, un arresto, una debolezza inspiegabile, l'avevano abbattuto così in poche settimane.
Il dottor Fabrizi si avvicinò alla culla. Rosa era là, pallidissima, ma tranquilla. Il bimbo pochi istanti innanzi si era attaccato al petto, aveva inghiottito qualche goccia di latte; questo fatto aveva completamente cancellato dalla sua memoria la scena della notte.
Bisognava che il piccolo mangiasse e dormisse, aveva raccomandato il dottore, ed ella stava presso di lui come un came da guardia, vigilante e feroce, ma non inquieto.
Ella non lo vedeva in pericolo, non le balenava neppure l'idea che fosse grave. Non aveva febbre, non aveva tosse, nessuna malattia dichiarata, si trattava di una debolezza passeggera forse causata dalla dentizione.
Il dottore fece spalancare le finestre. Prese in braccio il bimbo, nudo, lo ascoltò e lo battè da tutte le parti. I vagiti si fecero più lunghi, più lamentosi, più stanchi.
— Non c'è nulla.
— Dorme assai poco, dottore, è molto inquieto....
Il dottore scrisse una ricetta e la consegnò a Giovanna.
— Mangia anche poco....- aggiunse Rosa.
La contessa Clemenza e il conte Ademaro si scambiarono uno sguardo.
Lo spettro del passato ondeggiava fra loro in quella stanza di tristezza, presso a quella culla che l'ala della morte sfiorava.
— Faremo un'altra novena, — disse la contessa Clemenza, — accenderemo due candele a San Vincenzo.
Uscirono, lei e il marito, in punta dei piedi, come due fantasmi.
Il dottor Fabrizi indugiò ancora un momento presso alla culla. — Che è successo questa notte con Folco, Rosa? — chiese egli affettuosamente non appena i due si furono allontanati.
— Ha svegliato il bambino! — rispose la madre duramente; e tosto cambiò espressione, tono, maniere, e domandò al dottore colle lagrime nella voce: — Guarirà presto, non è vero?
Egli la confortò come meglio seppe, e accompagnato da Teresa uscì dalla stanza, promettendo di tornare l'indomani mattina.
Rosa rimase sola.
Improvvisamente, ebbe la sensazione, inspiegabile, irragionevole, — un istinto? — che quei tre che erano usciti non le dicessero tutto: che fra quei tre vi fosse un segreto, un accordo di silenzio.
Che sguardo si erano scambiati, i due vecchi, presso alla culla? Perchè il conte Ademaro appariva così accasciato, invecchiato di dieci anni in pochi giorni? Perchè?...
Fulmineamente, la decisione fu presa. La contessa Clemenza era nella cappella, essi, il conte Ademaro e il dottore, nel salotto a pian terreno. Ascoltare alla porta quello che dicevano. Subito.
Non le balenò neppure alla mente il sospetto che fosse una cosa scorretta, da non farsi.
— Torno subito, — disse a Teresa che era appena rientrata.
E scese cautamente le scale. Arrivò all'uscio della stanza da gioco dove ogni sera il conte Ademaro e il dottore, da venticinqu'anni, facevano il tresette davanti a una bottiglia di vin spumante.
Quella sera non giocavano.
Ella sentì il conte Ademaro singhiozzare.
— È una fatalità, una fatalità terribile che pesa su di noi! — diceva egli con voce rotta. — Incominciavo appena ad aprire il cuore alla speranza.... Ha tutti i sintomi degli altri, dei miei, ditemi?...
— Amico mio, sarebbe inutile lasciarvi delle illusioni.... Purtroppo!... Voi stesso rivedete in lui quelli che non sono più. Ed oltre a ciò egli porta nel sangue dei germi di miseria, di debolezza, che i vostri non avevano. È figlio di Folco, e Folco ha un tale passato, voi sapete....
— Condannato! — proruppe il conte Ademaro. — È condannato!... Tutto per nulla! tutto per nulla!... Quello che ho fatto, quello che ho tentato, il sacrificio che Clemenza ed io abbiamo sostenuto abbassandoci a queste nozze, tutto per nulla!... Inutilità! miseria! fatalità!!... E Clemenza almeno ha la fede che la sorregge, che le dà tutti i coraggi, tutte le rassegnazioni! Ma io? io?...
— Calmatevi, calmatevi, amico mio. Avrete degli altri nipotini, presto; la madre è sana, quando si riavrà un po', ve ne farà degli altri. Non è detto che tutti debbano subire la stessa sorte. Certo, bisognerà abbondare nelle cautele, esser sempre preparati, non sperar troppo presto.... Il ceppo è leso.... Ma infine chi vi dice che qualcuno non possa sopravvivere? Raccomandate a Folco una vita più regolata, senza stravizi, costringetelo a pensare alla necessità di darvi un erede che abbia delle probabilità di resistere... Chissà! Dopo sette, vedete, quando già disperavate, il contino Folco è venuto a consolarvi....
Il conte Ademaro ruppe in una risata stridula.
— Voi sapete — diss'egli amaramente — che consolazioni mi ha date. Ma per il nome....
Rosa non ascoltava più. Barcollando, attaccandosi ai mobili per non cadere, ella si allontanava lungo i muri, come una bestia ferita.
Raggiunse le scale, la sala, la stanza da bagno, al di là della quale il figlio giaceva. E nella penombra una lunga figura le sbarrò il cammino, a braccia tese per non lasciarla passare: Folco. Folco che sorrideva del suo solito riso scoprente i denti radi e rovinati. Ella si fece da parte, e passò, senza guardarlo.
Sedette presso alla culla, chiuse e premette la testa nelle palme. Batteva i denti e un brivido le correva per la schiena.
Egli strisciò dietro a lei, e le fece il solletico sulla nuca reclinata, fra i riccioli.
Rosa balzò in piedi.
Livida, con gli occhi dilatati, sibilò più che non dicesse: «Va via».
Egli non si scostò, e si mise a ridere più forte, vezzeggiando, facendole piccole carezze come si fa per calmare i bambini. Un resto dell'ebbrezza notturna brillava ancora nei suoi occhi.
Ella ripetè: «Va via» e la sua voce era bassa e tagliente. Ed egli tentò di baciarla sul collo.
Ella cercò ancora di dominarsi, di ottenere pietà, di soffocare il tremito che la scuoteva dalla testa ai piedi.
— Non vedi? — implorò, — non vedi, Folco? Il bambino sta male.
— Ti voglio, — rispose egli ghignando, e l'afferrò alla vita.
Allora con un balzo felino ella gli sfuggì, e con un altro balzo gli si appressò ancora, gli mise una mano sulla spalla (ella era più alta di lui, più forte, e l'orgasmo triplicava la sua forza); una mano che era un artiglio, la sua grossa mano di contadina avvezza a spaccare la legna, a tenere la zappa e la vanga, e violentemente lo sospinse verso la porta, lo cacciò fuor della stanza, senza ch'egli avesse tempo di dire una parola, di fare un atto di difesa.
— Via! via! via! — Chiuse l'uscio a chiave.
Poi, senza lagrime, marmorea in volto, riprese il suo posto al capezzale del figlio.
....Teresa bussava, rientrava col lume; Giovanna portava le tazze, la contessa Clemenza posava sul cassettone la Reliquia miracolosa; tutte attendevano alle loro consuete cure e non sapevano il cuor della madre.
Giovanna, amorevolmente, raccomandava a Rosa di mangiare qualche cosa, di non lasciarsi abbattere così; bisognava mangiare perchè il latte non le mancasse. Se il bambino ne voleva, che cosa avrebbe potuto dargli, se non mangiava? Ignorando ch'ella sapeva, continuavano la commedia.
Ed ella diceva di sì, di sì, come un automa, cogli occhi attaccati sul figlio, occhi che ora lo vedevano lucidamente, com'era, giallastro, vizzo, un vecchietto, un agonizzante, un povero essere senza sangue cui la vita veniva lentamente mancando.... Come una fiammella senz'olio.... Ancora gli ultimi guizzi.... e poi....
Condannato.
Quella parola le picchiava sul cuore come il martello sull'incudine, ed ogni colpo lo faceva a brani.
Tutto taceva. La contessa Clemenza inginocchiata presso una seggiola colle mani giunte e la testa china, in preghiera. Le donne nella stanza accanto. Il piccolo si era assopito.
....Chi, chi parlava da lontano? Da quali profondità saliva la voce lugubre?...
Ah!... Erano essi, essi! i sette piccoli Ademari sepolti l'uno accanto all'altro nella cappella, che chiamavano nella notte!...
Essi, quei sette bambini sconosciuti che ella «vedeva» sotto la terra allineati, colle manine in croce, che chiamavano il suo tutta la notte!...
— ....Ademaro!... Ademaro!... Fratellino, vieni con noi!...
....Sette piccole bare uguali... e l'ottava, quella del suo, accanto ad esse!
Com'erano quei sette? Biondi, pallidi, cogli orecchi sporgenti, cogli occhi grigi.... Come il suo, come il suo!... Ed erano morti tutti, l'uno dietro all'altro, collo stesso nome, della stessa morte, ed altri ancora dovevano morire, tutti i suoi figli, tutti i suoi figli, dovevano finire così!... Tutti sarebbero calati l'uno dietro all'altro a tener compagnia a quei sette, la cui voce non ristava, tutta la notte, tutta la notte, tutta la notte....
— Ademaro! Ademaro! Fratellino, vieni con noi!...
Il bimbo gemeva. La madre si chinò sulla culla e offerse il seno. Gli occhietti vitrei non videro la madre, le labbra toccarono la carne materna e non la presero.
Ella scoppiò in un urlo disperato.
— Muore! muore!
Le donne accorsero, accorsero la contessa Clemenza e il conte Ademaro.
No, non moriva. Dopo qualche tempo tutto fu ancora tranquillo.
Ancora due mesi di quell'agonia.
Finalmente, una sera....
Il piccolo funerale si allontanava.
La piccola cassa coperta di un panno bianco portata a braccia dai famigliari, i bambini vestiti di bianco, i gigli, i ceri, le corone di giacinti, tutto quel candore d'innocenza saliva verso il cimitero serpeggiando lungo il viottolo, ed il vento di marzo or si or no portava alla madre dalle aperte finestre le cadenze del salmo.
— «....Beati immaculati....»
Ella era sola.
Ella era sola presso alla culla vuota. Senza lagrime. Senza sguardo.
La suocera entrò e le posò la mano sulla spalla.
— Vado alla cappella a pregare per lui. Tu vieni?
La madre accennò di no col capo, e la suocera sospirando si allontanò. Le donne, i famigliari, tutti erano andati col conte Ademaro, col conte Folco e col dottor Fabrizi ad accompagnare il morticino. Non restava che il giardiniere, mezzo addormentato sulla porta della serra. Nessun altro in casa fuor che la madre.
Più di due ore passarono in quel silenzio, in quell'immobilità, in quel vuoto straziante di pensiero e di sentimento, peggiore di ogni disperazione.
A un tratto la ghiaia del viale lontano stridette sotto le ruote d'una carrozza. Era la carrozza di casa, coi cavalli bardati a lutto che risaliva lentamente il viale portando i parenti.
Rosa sentì e balzò in piedi. Si passò le mani tremanti sulla fronte quasi a snebbiare il torpore che la teneva. E tosto un terrore, un furore pazzo la presero.
Imbruniva. Folco tornava, il bambino non e'era più. Quella notte, ella avrebbe dovuto passarla con lui. Ella vedeva il viso del marito, atteggiato ipocritamente alla tristezza, e sotto a quella maschera vedeva l'indifferenza, la noia, la fretta di finire la tragedia, di ricominciare la vita gaia. Egli tornava, il bimbo non c'era più. Ella avrebbe dovuto passare la notte con lui. L'avrebbe ripresa. Oh, lo conosceva!... Non avrebbe rispettato neppure quella notte di morte. Egli non vedeva in lei che la femmina, non l'aveva sposata che per averla, perchè non poteva averla in altro modo. Non gliel'aveva detto? Non gliel'aveva detto in quella sera terribile in cui ella era svenuta ai piedi della culla?... Non le aveva detto che sposandola egli intendeva di poter disporne a suo piacimento?... Egli per il suo brutale desiderio, essi per esser certi di continuare la discendenza, perchè procreasse dei figli, molti figli, come una giumenta da razza! Ed ella si era piegata a tutto, a tutto; aveva abolito la sua volontà, si era piegata piegata piegata fin quasi a spezzarsi, aveva cambiato nome, volto, linguaggio, aveva rinnegato padre, madre, fratelli.... Per loro? No! Per il suo bambino, per una creatura sua, per lui che doveva compensarla di tutto, ridarle in tanto amore le sue sofferenze. Ma ora!... Ora che sapeva che i suoi figli erano condannati, che l'uno dopo l'altro sarebbero morti sotto i suoi occhi, fra le sue braccia impotenti a difenderli, che uno ad uno avrebbero portato nelle vene un germe di miseria e di morte.... Ora!... Ah no!...
Girò lo sguardo smarrito intorno alla camera. Un'ansia di nascondersi, di annientarsi, di dissolversi la prese. Dove? Come? Ogni oggetto era piccolo, bianco, tenue, «per lui».
Un acuto odore d'acido fenico e di sali impregnava l'aria. Il cadavere....
La carrozza si avvicinava.
Folco tornava. Tra mezz'ora, tra pochi minuti sarebbe giunto.... Ella non poteva più ribellarsi. Non l'avevano essi comprata? Non era il suo corpo giovane e sano il prezzo di quei bei vestiti, di quei mobili ricchi, di quei gioielli, di quegli agi, il prezzo della sua «fortuna»? Ella doveva dare il suo corpo a Folco perchè meno si infangasse e si perdesse in altre sozzure, doveva dare dei figli a coloro che li aspettavano senza contarli finchè «uno» ne restasse, per il loro nome, per la loro vanità, per procreare altri infelici! Ed ella doveva ancora stringere fra le sue braccia dei piccoli innocenti, ancora nutrirli del suo sangue, ancora vivere della loro vita, ed attaccarsi disperatamente alle loro fragili manine, perchè le agonizzassero poi davanti gli occhi, perchè le dilaniassero il cuore!... Quella notte stessa.... Quella notte stessa ella avrebbe potuto chiamarne uno alla vita.... condannarlo alla morte.... Ah no! no! no! questo, no!... Il suo ventre non avrebbe più concepito dei figli destinati a soffrire, a morire, il suo corpo non si sarebbe venduto così!... No! no! no!
Ella mosse affannosamente verso la culla, afferrò una cuffietta coi nastri azzurri, che giaceva sulla coperta e conservava ancora quasi la forma e il tepore dell'amor suo perduto. La strinse a sè e la baciò forsennatamente; si strappò gli orecchini, gli anelli, la «fede» e li gettò nella culla vuota, al posto lasciato freddo e vacuo dal cadavere; si avvolse la testa in uno scialle di Teresa, e discese a precipizio le scale.
Nessuno in casa. Anche la carrozza era scomparsa ad una svolta della strada.
Nel giardino solitudine e silenzio.
Ella passò rapidamente sotto al pergolato di carpini, raggiunse una porticina mezzo nascosta dall'edera che dava all'aperto sui campi.
La conosceva bene; era passata di là tante volte con «lui» in braccio! Una volta si era fermata proprio là a mostrargli una bestiolina col dorso picchiettato di rosso che passeggiava su di una foglia....
Oltrepassò la porta; la richiuse.
Si trovò in un campo che i filari di viti e di pioppi tagliavano regolarmente.
I grilli cantavano; la gran pace del vespero intorno.
Ed ella correva, correva, follemente, oltrepassava il campo, i filari, col volto sferzato dal vento e rigato di lagrime, senz'altro pensiero che quello di fuggire, di andar lontano. Dove?
Giunta a una siepe la scavalcò; a un bivio, prese istintivamente a destra. Era la strada piccola che conduceva al villaggio, tortuosa fra le siepi.
Ella non rallentò la corsa. I suoi occhi smarriti si posarono sugli alberi, sui cespugli noti al suo cuore e non li riconobbero. Bisognava traversare il villaggio, la piazza. Tutti erano già rientrati nelle case a cenare ed i fuochi brillavano nelle basse cucine affumicate.
Nella piazza due facchini e una grossa comare accatastavano su di un carretto alcune vecchie ceste. Nessuno di essi la riconobbe.
Rosa traversò il marciapiede senza voltarsi. Uno dei facchini vedendola così discinta e stravolta le sussurrò alcune parole volgari e sputò.
L'altro prese a camminare dietro a lei sullo stretto marciapiede. Ed ella si mise a correre ancora più forte, credendo sempre di sentire dietro a sè quel passo, e non sentiva invece che il batter del suo cuore.
Dove? dove?...
Ah! ecco il sentiero che conduce alla sua casa. Il piede si fa più fermo, il respiro meno affannoso. Ma ancora quel passo!...
Ella riprende a correre. In pochi istanti è sul poggio, nel cortiletto, sotto al pioppo che si inchina. Senza fiato, livida in volto, si appoggia al muro per non cadere.
Nel cortile nessuno. La ferisce l'odore della concimaia.
Fa quasi buio. È una sera ventosa, quasi fredda.
La porta della cucina è chiusa, ma, dalla finestra, tagliata a piccoli rettangoli dell'inferriata, attraverso ai vetri, ella spia dentro un allegro fuoco brillare, e le fette dorate di polenta abbrustolirsi sulla pietra del focolare, e i parenti intorno al desco, intorno alle scodelle fiorate, che aspettano la cena. Rosa guarda. Tutto il suo cuore si dissolve, si sgela.
....È sua madre, ch'ella non ha più vista dopo le nozze, un po' più grigia, ma sorridente del suo placido sorriso; è suo padre, silenzioso, coll'anello lucente all'orecchio e i duri zigomi lignei; è il nonno — quella sera c'è anche il nonno — con due riccioli bianchi l'uno da una parte e l'uno dall'altra, davanti agli orecchi; è Isa, la piccola Isa, col suo gonnellino rosso; sono i fratelli; e.... chi c'è ancora?... C'è una donna nuova, giovane, dal viso affaticato e un ventre enorme. Chi è quella donna?... Ah, ora rammenta! Don Evaristo le ha detto che uno dei fratelli ha preso moglie; è lei certo, quella, la cognata.... Ed è incinta.
Rosa sente il cuore tremarle, sente che non avrà mai il coraggio di entrare.
Si accascia sulla soglia della cucina. Aspetta.
Aspetta. Che cosa aspetta?
Essi mangiano. Il padre dice: Il raccolto sarà buono quest'anno. I bachi promettono bene.
Il nonno risponde: Sì.
E la voce di Isa: Perchè, nonno, i bachi dormono solo quattro volte?
Tutti ridono. Il suo bambino è morto ed essi non lo sanno? Ridono.
A un tratto la madre si muove, apre la porta, dà un grido.
Ha urtato col piede qualcuno, accasciato là, al posto del gatto e del cane.
Rosa balza. Afferra i ginocchi della madre prima che questa abbia il tempo di riconoscerla. — Madre! madre! Il bambino è morto! Sono fuggita! Tenetemi con voi!
Il padre, i fratelli, immobili, intorno alla tavola, sotto la lucernetta a petrolio, sono impietriti come al cader d'una folgore vicina.
La cognata si alza in piedi, faticosamente, col ventre enorme; guarda la disperata, ostile.
Un'ora dopo il dottor Fabrizi e Giovanna colla baia grondante sudore, irrompono nel cortiletto, e Rosa riparte con loro, nascosta negli scialli, col viso coperto e le mani fredde.
Ritorna al suo posto.
Come il cane alla catena, fino alla morte.