L'uomo prudente/Atto I
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ATTO PRIMO.
SCENA PRIMA.
Notte.
Camera di Beatrice, con tre tavolini e sedie, candelieri con candele accese, e sei tazze di tè.
Beatrice a sedere al tavolino di mezzo. Lelio a sedere accanto di lei. Diana a sedere al tavolino a parte sinistra. Ottavio a sedere presso di lei. Rosaura a sedere al tavolino a parte dritta. Florindo accanto di lei. Tutti bevendo il tè.
Beatrice. Signor Lelio, sentite com’è grazioso questo tè.
Lelio. Non può essere che grazioso ciò che viene dispensato da una mano, ch’è tutta grazia.
Beatrice. Voi sempre mi mortificate con espressioni di troppa bontà.
Lelio. Il vostro merito eccede qualunque lode. Poh! che peccato! Un vecchio di sessant’anni ha da possedere tanta bellezza nel fiore degli anni suoi!
Beatrice. Ah! non mi ritoccate sì crudelmente le piaghe.
Lelio. Il signor Pantalone non meritava una seconda moglie sì vaga e sì graziosa.
Beatrice. Quietatevi, vi dico, e bevete il tè, prima che si freddi1. intanto gli altri quattro parlano piano fra di loro)
Ottavio. Ah! signora Diana, voi mi mortificate a ragione. Sarebbe ormai tempo ch’io vi mantenessi la parola che già vi diedi, e vi rendessi mia sposa; ma mio padre non vuole in verun conto acconsentire ad un tal matrimonio.
Diana. Ma qual è la ragione, per cui il signor Pantalone si oppone alle nostre nozze?
Ottavio. lo credo che sia2 l’interesse. Mi disse, giorni sono, che aveva per me un partito di una figlia d’un buon mercante con sessanta mila ducati di dote; e voi, benchè siate nata3 gentildonna e siate stata moglie di un Colonnello, non vi considera, perchè non avete una ricca dote.
Diana. Ma voi che pensate di fare?
Ottavio. Sposarvi a dispetto di mio padre, anche quando dovessi rovinare la casa. La signora Beatrice mia matrigna è già dalla mia, e contribuirà molto a nostro vantaggio.
Diana. Amica, il signor Ottavio mi consola; dice che voi sarete per noi. È egli vero? a Beatrice)
Beatrice. Certo, è giustizia.
Florindo. Ma, signora Rosaura, almeno un’occhiata benigna per carità.
Rosaura. Siete curioso! Fra tanta gente io mi vergogno.
Florindo. Possiamo andar a passeggiare nel corridore.
Rosaura. Certo, da solo a sola! Bella cosa, signorino!
Florindo. Ma non vi è a grado4 nè sola, nè in compagnia: come abbiamo dunque a contenerci?
Rosaura. Questo tè non mi piace niente. Mangerei più volentieri una zuppa nel latte.
Florindo. A proposito! Ma, cara Rosaura, non mi volete voi bene?
Rosaura. Uh! zitto, che non vi sentano.
Beatrice. Signor Florindo, che fate là con quella scimunita? Siete bene di cattivo gusto.
Rosaura. (La signora sputa sentenze). da sè)
Florindo. Io ho tutto il mio piacere, quando sono presso la signora Rosaura.
Beatrice. Eh, che un giovane della vostra qualità5 non deve perdere il tempo così inutilmente. Non vedete che figura ridicola? Merita ella le vostre attenzioni? Venite qui6, che starete più allegro.
Rosaura. (La signora Beatrice mi è veramente matrigna; non mi può vedere). da sè)
Florindo. Ma signora, voi siete bene accompagnata, a Beatrice)
Beatrice. Eh venite, che faremo la conversazione in terzo.
Lelio. Sì sì, amico, venite anche7 voi a godere dell’amabile compagnia della signora Beatrice.
Florindo. Ma io...
Beatrice. Ma voi, padron mio, vi abusate della mia sofferenza.
Florindo. Perdonate, sono da voi. (Rosaura, per non disgustarla, conviene ch’io vada. Vogliatemi bene). piano a Rosaura, e va vicino a Beatrice)
Rosaura. (Pazienza! Non mi lascia avere un momento di pace! Povera madre mia, dove sei? Tanto bene che mi voleva! tante carezze che mi faceva! Ed ora ho da essere strapazzata dalla matrigna? Pazienza! pazienza! Lo voglio dire a mio padre). da sè, piangendo)
Beatrice. Guardate la vostra innamorata; piange come un bambolo. Che ti venga la rabbia! Se fosse mia figlia vera, la bastonerei come un cane.
Rosaura. Manco male che non lo sono...
Beatrice. Zitto là, pettegola.
Rosaura. (Uh povera me, la gran bestiaccia!) da sè)
Ottavio. Ho inteso tutto. Non dubitate, che sarete servita. Le cento doppie, che avete di debito, le pagherò io. Le gioje già sono ordinate, e i due tagli d’abito domani li avrete a casa. a Diana)
Diana. Ma non vorrei che vostro padre...
Ottavio. Che mio padre? Che mio padre? Sono padrone io al par di8 lui. La roba l’ha fatta mio avolo, e posso anch’io prevalermene ne’ miei bisogni.
SCENA II.
Brighella e detti.
Brighella. Con licenza de sti do zentilomeni, averia bisogno de dir una parola alla padrona.
Beatrice. Questo è il corvo delle male nuove. Di’ su, che vuoi?
Florindo. (S’alza) Venite, galantuomo; parlate con libertà. (intanto s’accosta verso Rosaura)
Brighella. La sappia che in sto ponto è arriva el patron dalla campagna, onde non ho mancà d’avvisarla, acciò la se regola con prudenza. a Beatrice, piano)
Beatrice. Oh sì, ti darò la mancia per così bella nuova! Che importa a me che sia venuto mio marito? E tu, che cosa9 vuoi dire con questa prudenza che mi suggerisci?
Brighella. Digo mo... la me perdona... se no ghe paresse proprio de farse trovar in conversazion... la me scusa, védela.
Beatrice. Va via di qua, petulante, temerario che sei. Non ho bisogno dei tuoi consigli, e non mi prendo soggezione di un vecchio pazzo.
Brighella. Me piase, la lodo, la fa ben, la par bon. ironicamente)
Beatrice. Signor Florindo, favorisca; venga al suo posto.
Florindo. Eccomi, per obbedirvi.
Lelio. Voi avete uno spirito superiore. Siete degna di governare un impero, non che una casa. Beato il mondo, se tutte le donne fossero del vostro temperamento!
Brighella. Sior Ottavio. s’accosta al tavolino di Ottavio e parla a lui sottovoce)
Ottavio. Che vuoi, che e’è?
Brighella. L’è vegnù so sior padre.
Ottavio. E per questo? Che importa a me?
Brighella. Sei lo10 trova qua colla siora Diana, no so come el la intenderà.
Ottavio. L’intenda come vuole. Se non voleva vedere, doveva stare in campagna.
Brighella. Cussì la va dita, e viva el buon11 stomego. (va bel bello vicino a Rosaura, e le parla sotto voce) Siora Rosaura, l’avviso anca ella, e pò la fazza quel che la vol: è vegnù so sior padre...
Rosaura. Mio padre! (s’alza) Oh me meschina! non voglio che mi vegga in conversazione cogli uomini. parte)
Brighella. (Questa veramente l’è una putta de giudizio! Almanco la mostra de aver un poco de suggizion e de rispetto per12 so padre). da sè)
Beatrice. Guardate quella sciocca. È fuggita al nome di suo padre, come se avesse sentito nominare il diavolo.
Lelio. Eccolo che viene. Dobbiamo partire?
Beatrice. Mi maraviglio di voi.
Florindo. Eh, sarà meglio ch’io vada.
Beatrice. Restate, vi dico.
Diana. Signor Ottavio, non vorrei che nascesse qualche sconcerto.
Ottavio. Non vi movete, non vi movete.
Brighella. (Figureve in che smanie che darà quel povero vecchio, a veder la so casa deventada corte bandiaa). (da sè)
SCENA III.
Pantalone vestito da campagna, e detti.
Pantalone. (Si ferma un poco sulla porta a osservare, poi con disivoltura s’avanza) Oh patroni reveriti! Oh che bella conversazion! Sior Lelio, sior Florindo, servitor umilissimo. (Lelio e Florindo si vogliono alzare, e Beatrice li trattiene)
Beatrice. Non vi movete.
Lelio. Perdoni, se prevalendomi della sua gentilezza, venni in di lei assenza a godere di quelle grazie, che dispensa generosamente la di lei casa. a Pantalone)
Pantalone. Patron, me maravegio, no ghe xe bisogno de ste dichiarazion.
Florindo. Io con rossore mi trovo a incomodare la signora Beatrice. (a Pantalone)
Pantalone. Anzi ela fa sempre grazia.
Lelio. E compito il signor Pantalone. a Beatrice)
Beatrice. (Eh, non lo conoscete quel vecchio furbo!) piano a Lelio)
Pantalone. Oh, siora Diana, anca ela la xe qua? Anca ela la se degna de onorar la mia casa?
Diana. La bontà della signora Beatrice mi ha dato coraggio di venirle a far una visita.
Pantalone. Beatrice fa el so debito, distinguendo el merito de siora Diana; e mio fio fa ben a impiegar le so attenzion per una zentildonna cussì garbata. (Ah cagadonao!b) da sè)
Diana. (Sentite con che dolce maniera ci tratta!) a Ottavio, piano)
Ottavio. (Oh se sapeste quant’è gatto! Non me ne fido punto). (piano a Diana)
Pantalone. Siora mugierc, cussì sussiegata? Gnanca un strazzo de benvegnuod al povero Pantalon? Cossa v’hogio fatto? Savè pur che sè le mie care raisee, che ve vogio tanto ben (ma ben, ma ben)! da sè)
Beatrice. Oh oh, quante cerimonie. Chi mi accarezza più di quel che suole, o mi ha gabbato, o che gabbar mi vuole. Fareste meglio ad andarvif a spogliare e andarvene a letto, che sarete stracco.
Pantalone. Cara fiag, vedo che me volè ben anca vu, se ve preme la mia salute. Vegnì qua, tocchemose la man. s’accosta)
Beatrice. Eh via, andate, che questi signori vi dispensano.
Lelio. Oh sì, vada pure a suo comodo. a Pantalone)
Florindo. Per amor del cielo, non stia in disagio per noi. a Pantalone)
Pantalone. Donca, per obbedir13, no mai per mancanza de respetto, me senterò su sta caregah, e goderò anca mi della so conversazion. siede dove prima era seduta Rosaura)
Beatrice. (Che ti venga la rabbia! Credevo che se n’andasse, e si mette a sedere). da sè)
Ottavio. (Anche questo ci voleva). da sè)
Pantalone. Ma ste do tazze de tè per chi hale servìo? Chi ghe giera su ste careghe?
Beatrice. Chi e’era? C’era la vostra signora figliuola, in conversazione sfacciatamente cogli altri, coll’amante vicino, e quando vi ha sentito venire, la modestina se n’è fuggita.
Pantalone. Via via, fia mia, no pensè mal de quella povera puttai. Cognosso la so innocenza, e no la xe capace de certe cosse.
Beatrice. Cospetto! Mi fareste dire... Ecco, tutte le mie azioni sono criticate, e colei può metter sottosopra la casa, che fa tutto bene. Si vede la vostra troppa parzialità; ma questa sarà la rovina di casa vostra.
Pantalone. Gh’ave rasonj, disè ben; ghe remediaremo. La metterò fora de casa.
Beatrice. Oh assolutamente, o lei, o io.
Pantalone. E cossì, siora Diana, come se la passela? Stala ben? Brighella, fame dar el tè. (Brighella parte) Quando se tornela a far novizzak? a Diana)
Diana. Eh, signore, io sono una povera vedova; non trovo chi mi voglia.
Pantalone. Se no la xe ricca de bezzi, la xe ricca de nobiltà e de bellezza. Manca partii, che la gh’averà. Ma cossa gh’astu, Ottavio, che ti me par inmusonàl? Gh’astu mal? Gh’astu bisogno de bezzi? Xestu innamorà?
Ottavio. (Chi non lo conoscesse, eh!) Ja sè)
Pantalone. No ti respondi? Ho inteso. La diga, siora Diana, cossa gh’alo mio fio?
Diana. Che volete ch’io sappia de’ fatti suoi?
«Sola è dell’uomo consigliera e scorta.
Lelio. Anco poeta il signor Pantalone?
Pantalone. Un poco de tutto, e gnente de ben. Vogio, se le se contenta, recitarghe certe ottave in lode del buon gusto del dì d’ancuo.
Beatrice. (Egli sta qui per farci rabbia. Io non ne posso più). (piano a Lelio e a Florindo)
Lelio. (Partirò, se v’aggrada). a Beatrice)
Beatrice. (Sarà meglio). s’alzano)
Florindo. (Pantalone è un geloso di buonissima grazia). da sè)
Pantalone. Come? Cussì presto le me priva de le so grazie?
Lelio. In altro tempo sentirò con piacere le vostre ottave: ora, se mi date licenza, debbo partire.
Pantalone. Patrona de comodarse come che la vol, de star, de andar e de tornar (e de andarse a far ziradonar). (da sè) Anca ela, sior Florindo?
Florindo. Se ve ne contentate. Diana e Ottavio s’alzano)
Pantalone. Anca siora Diana va via? No la vol restar a cena con mi?
Diana. Obbligatissima alle sue grazie.
Pantalone. Gh’ala la carrozza?
Diana. No signore, sono a piedi.
Pantalone. E la vol andar via cussì14 sola col servitor? Vorla che la serva mi?
Diana. Oh, non permetterei mai talm cosa.
Pantalone. Oh via donca, la servirà sti zentilomeni.
Ottavio. La signora Diana non ha bisogno di nessuno, poichè la voglio servir io. con serietà caricata)
Pantalone. Oh, sì ben, disè benn. No gh’aveva pensà. (Oh che fio!15) Andè, ma tornè presto, che avanti che vaga in letto, v’ho da parlar. a Ottavio)
Ottavio. Quello che mi volete dire stassera, me lo direte domani.
Pantalone. No ve basta compagnar siora Diana a la casa16? La compagneu anca a la camera? Feu da braccier e da cameriera? No la se n’abbia per mal, che digo per rider.
Diana. (Che17 vecchietto gioviale!) piano ad Ottavio)
Ottavio. (Cheo vecchio malizioso, volete dire). piano a Diana)
Lelio. Orsù, signor Pantalone, a buon riverirla.
Pantalone. Presto, luse, torzo. Brighella, Arlecchin, Colombina.
SCENA IV.
Brighella con torcia accesa, poi Pantalone, Beatrice,
Arlecchino e Colombina.
Pantalone. E sti altri dove xeli? Arlecchin, digo, Colombina; xeli in letto costori?
Beatrice. Non sono a letto, no, ora verranno. Arlecchino, Colombina. li chiama)
Colombina. Cosa comanda?
Arlecchino. Son qua, siora padrona, son qua.
Beatrice. Andate a prender dei lumi, per servire questi signori.
Colombina. Subito la servo. part)
Arlecchino. Vado a rotta de collo. parte)
Pantalone. (Mip chiamo, e no i vien; ela chiama, i vien. Mi comando, e lori gnente; ela comanda, se fa tutto. Ho inteso, basta cussì). da sè)
Colombina. Eccomi col lume. toma con candela accesa)
Arlecchino. Son qua col torzo. toma con una torcia)
Lelio. Signori, la felicissima18 notte. (parte, servito da Brighella)
Florindo. Scusino l’incomodo. parte, servito da Arlecchino)
Diana. Signora Beatrice, vi son serva; serva, signor Pantalone.
Pantalone. La reverisso, patrona, la reverisso.
Beatrice. Voglio accompagnarvi.
Diana. Non v’incomodate.
Beatrice. Permettetemi.
Diana. In casa vostra siete padrona. (Parte, servita di braccio da Ottavio, accompagnata da Beatrice, con Colombina che precede col lume.)
SCENA V.
Pantalone solo.
La mugier in mezzo de do amazzaiq; la comanda, la fa e la desfa, e mi no gh’intro per gnente. El fio mena in casa la machinar e el la vol a so modo. La fia anca ela se va desmestegandos, e scomenza a piaserghe l’odor del sesso mascolin. I servitori no i me obbedisse, e no i me stima un figo: stago veramente ben, che no posso star megio. Cossa me giova aver dei bezzi e della roba, esser un dei primi marcanti, accredità per tutta l’Europa, se in casa non gh’ho la mia quiete, ma più tosto me trovo circondà da tanti nemici, quanti xe quelli che magna el mio pan! Ma gnente: testa, giudizio e pazienza. Col tempo spero de superar tutte ste avversità, e far cognosser al mondo che la prudenza de l’omo supera ogni contraria fortuna.
SCENA VI.
Brighella e detto.
Brighella. Vien lento lento, senza parlare, meravigliandosi.)
Pantalone. Coss’è, cossa gh’astu? Perchè xestu cussì incocaliot? Cossa xe sta? Parla, gòmita, buta fuora.
Brighella. Che la siora Beatrice se devertissa in mezzo a do cicisbei, no me stupisso, perchè l’è l’ultima moda; che el sior Ottavio conduga i contrabandi in casa, no me fazzo maravegia, perchè l’è el solito de i fioi de famegia, quando che i pol; ma me stupisso, me maravegio, me strassecolo e me disumano, vedendo el sior Pantalon, che con tanta pausa, con tanta indifferenza e quiete d’animo, sopporta su i so occhi le insolenze de una mugier arrogante e de un fio desobbediente, e el permette che in casa soa se tira stoccae a tutt’andar a quell’onor, che con tanto zelo e premura l’ha procurà fin adesso de defender col scudo de la più delicata prudenza.
Pantalone. Caro Brighella, servitor fedel, e quasi fio u per el ben che te vogio, perchè fin da piccolo t’ho arlevà in casa mia, me piase el caldo, che ti te senti per el mio onor; lodo el to zelo e stimo la libertà co la qual ti me parli: con tutto questo però lassa che te diga, che siccome ti xe nassuov omo ordenario, no ti xe capace de altro che de pensieri ordemari. Credistu Pantalon tanto orbo, che nol veda e nol cognssa? o lo credistu d’anemo tanto vil, che nol gh’abbia coraggio de far vendetta? Ti me cognossi pur. Ti sa pur chi son, e se so menar le man co bisogna, e se gh’ho stomego de cimentarme, siben che so vecchio. Ma, caro Brighella, l’onor xe una marcanzia cussì19 delicata, che chi troppo la maniza, la insporcaw. Se avesse scomenzà a rimproverar la mugier e strapazzar el fio; se avesse scazza de casa quei canapioli20, se avesse dà i so titoli a quella sporca de Diana, in casa mia nasseva una revoluzion, un strepito, un fracasso tal, che tutta la vicinanza se saria sollevada, e la reputazion de casa Bisognosi andava in bordelo. Quei do zerbinotti, zirando per la città e contando l’istoria a so modo, i m’averave menà per bocca. Tutto el paese averave dito: in casa de Pantalon xe nassuo questo e questo per el poco giudizio del fio, per la poca reputazion della mugier; e Pantalon su i ventolix, e Pantalon fatto materia ridicola delle conversazion. Dise el proverbio: no te metter in testa, quello che ti gh’ha sotto i piè. Quel che xe nato in casa mia, fin adesso nissun lo sa; e no voggio esser mi quello che lo vaga a pubblicar21. Ho remedià con politica; me son contegnù con prudenza, e darò sestoy a tutto col tempo. Brighella, el finzer a tempo, el dissimular quando giova, xe la vera virtù dell’omo savio e prudente. Ti pensa a servirme con fedeltà, che in quanto a mi gh’ho spirito, gh’ho cuor, gh’ho giudizio da defender el mio onor al par de chi se sia. (parte)
SCENA VII.
Brighella solo.
Resto de sasso. Un omo de sta sorte l’è un prodigio del mondo. Cognosso adesso la mia temerità, per la qual me lusingava de esser un omo de garbo, e vedo che son un coccal22; e dirò quel che ho sentio dir tante volte:
«Quanto vai la manestra23 senza sal. (parte)
SCENA VIII.
Segue notte.
c)scena1
Beatrice e Colombina.
Colombina. Così è; sì, signora, l’ho sentita co’ miei propri orecchi quella pettegola di vostra figliastra a dir male di voi. Ne ha dette tante a vostro marito, ne ha dette tante! Cantava come un rosignuolo di maggio. Gli ha riportate tutte le parole che avete dette contro di lui, ed oltre al vero ha aggiunto ancora molto del suo. Se l’aveste veduta, come vi burlava bene. Contraffaceva tutti i vostri gesti, tutte le vostre maniere, la vostra voce, e si torceva di qua, e si voltava di là. Mi veniva voglia di pigliarla per quei capelli mal pettinati, e su quel viso patetico darle una dozzina di schiaffi spiritosi.
Beatrice. Basta, basta, Colombina, non ne posso più. Sento che la rabbia mi rode, la collera mi divora. Voglio che costei me la paghi; voglio a tutto costo metterla in digrazia di quel babbeo di suo padre. L’invenzione che abbiamo trovata per farla credere di mal costume più che non è, sarà ottima ed opportuna, e spero che riuscirà, come abbiamo fra di noi concertato. Chiamami Arlecchino. Facciamo ch’egli vada subito a ritrovar il signor Lelio ed il signor Florindo, e con bel modo facciamoli venire questa notte qui in casa. Tu eseguirai quanto abbiamo stabilito, e se la cosa riesce secondo il disegno, mi leverò dinanzi agli occhi questa impertinente che mi perseguita.
Colombina. E pure è vero, bisogna guardarsi da’ nasi dritti e da’ colli torti. Ora chiamo Arlecchino. (parte)
SCENA IX.
Beatrice sola.
In casa mia voglio poter fare quello che voglio. Ho preso un vecchio per questo, che per altro non mi sarebbe mancato un giovinotto di buona grazia. Benchè sia nata povera e ordinaria, avevo più amanti io sola, che tutte insieme le ragazze del vicinato.
SCENA X.
Colombina, Arlecchino e detta.
Beatrice. Senti, Arlecchino, tu devi andare verso il casino de’ nobili, dove sogliono trovarsi il signor Lelio e il signor Florindo; li hai da condurre in disparte ambedue, ed hai a dir loro che dopo le quattro si portino a questa casa, che la porta ne sarà socchiusa. Ma bada bene, e apri ben l’orecchio, e non far delle tue. Questa ambasciata la devi lor fare separatamente. Al signor Lelio dirai che l’invito è mio, e che io l’aspetto per andare con esso24 lui a prender il fresco. Al signor Florindo dirai poi che l’invita la signora Rosaura, per discorrer seco con libertà de’ suoi amori.
Arlecchino. (si va contorcendo, dinotando la confusione che gli recano tante parole.)
Beatrice. Hai capito? Eseguirai puntualmente?
Arlecchino. (Dice di sì).
Beatrice. Via. Come dirai?
(Qui Arlecchino imbroglia tutto il discorso; confonde i quattro nomi di Lelio, Florindo, Beatrice e Rosaura; ella gli va qualche cosa replicando, ed egli si va ora rimettendo, ora confondendo. Finalmente mostra di aver ben capito, e parte25.)
SCENA XI.
Beatrice e Colombina, poi Pantalone.
Colombina. Arlecchino non si può negar che non sia sciocco, ma poi è altrettanto grazioso.
Beatrice. Mi serve con fedeltà, e perciò lo sopporto.
Pantalone. (Vol piover, la volpe se consegiaz. Ma troverò mi el modo de far andar via sta siora cameriera. Proverò con una invenzion de mandarla in campagna; e se no servirà, la scazzerò colle brutte).
Colombina. Ecco quel vecchio tisico di vostro marito. (piano a Beatrice)
Beatrice. Non crepa mai quest’anticaglia. (piano a Colombina)
Pantalone. Possio vegnir? Disturbio qualche negozio d’importanza?
Beatrice. Mi disturbate certo; appunto adesso volevo andarmene a letto.
Pantalone. Senza cena?
Beatrice. Senza cena. Mi duole il capo.
Pantalone. No saveu che chi va a letto senza cena, tutta la notte se remenaaa? E col remenarve scoverzirè el povero Pantalon, e lu gramo vecchio se sfrediràab.
Beatrice. Eh, il gramo vecchio non si sfredirà26, poichè voglio dormir sola.
Pantalone. Fè ben: megio soli che mal compagnaiac. Non m’importa, gh’ho gusto che stè ben; e co sè contenta vu, son contento anca mi.
Colombina. L’ho sempre detto che il signor Pantalone è un uomo di garbo.
Pantalone. Madonna Colombina, gh’ho una cattiva niova da darve. La gastaldaad vostra siora mare27, con reverenza parlandoae, sta mal, e tanto mal che fursi no l’arriverà a doman de sera.
Colombina. Povera vecchia! Si vedeva che voleva campare poco.
Pantalone. No ve despiase che la mora?
Colombina. Mi dispiace, ma abbiamo da morir tutti.
Pantalone. Domattina col mio calesso anderè a trovarla, perchè la desidera, avanti de morir, de darve un abbrazzo.
Beatrice. No veh, Colombina, non andare.
Pantalone. La sarave bella che la fia negasse alla mare sta consolazion!
Colombina. Eh, considero che anzi le28 sarebbe di maggior dolore. È meglio ch’io non vada.
Pantalone. Basta, se no ti vol andar, lassa star. Ma to sorella Lisetta sta co tanto de occhi a aspettar che la muora, per portar via i bezzi e tutta la roba de casa. (Proverò st’altro sconzuro). da sè)
Colombina. N’ha molta della roba mia madre?
Pantalone. Cancaro! la gh’averà i so do o tre mile ducati al so comando.
Colombina. Uh povera madre mia! E deve morire? mostra di piangere)
Pantalone. No ghe xe più remedio.
Colombina. E mia sorella Lisetta porterà via tutto?
Pantalone. Infallibilmente.
Colombina. Uh povera madre mia! che dolore proverebbe, se non mi vedesse! Oh, voglio andarla a ritrovare senz’altro.
Pantalone. (La medesina ha fatto operazion). da sè)
Beatrice. E mi vuoi lasciare qui sola?
Colombina. Ma, signora padrona, si tratta della madre. Io le voglio tutto il mio bene29; la natura deve fare il suo effetto. Non voglio che si dica che l’ho lasciata morire senza vederla. Oh poverina! oh povera madre mia! piange)
Pantalone. (Vardè cossa che xe le donne, vardè!) da sè)
Beatrice. (Basta, se vuoi andare, non mi oppongo, ma ricordati quel che t’ho detto circa Lelio e Florindo con Rosaura). piano a Colombina)
Colombina. (Eh, signora sì; questo si farà stassera, ed io partirò domani). Canchero, due mila ducati! Oh cara la mia mamma! Lisetta vuol tutto? Vengo, vengo, mamma mia, vengo. (parte)
SCENA XII.
Beatrice e Pantalone.
Pantalone. Siora mugier carissima, za che semo qua soli e che nissun ne sente, avanti che andè a dormir, vorave, se ve contente, dirve quattro parole.
Beatrice. Dite pure. E chi vi tiene che non parliate?
Pantalone. Vegnì qua; sentemose un puoco30, e parlemo d’amor e d’accordo.
Beatrice. Oh, io non sono stanca. Potete parlar in piedi.
Pantalone. No no, vogio che se sentemo; e a ciò no ve incomodè, tirerò mi le caregheaf. Via, sentève, fia mia, e no me fè andar in collera. (porta le sedie, e siede)
Beatrice. (Io non so di che umore sia la bestia; convien secondarlo). (da sè) Eccomi. Siete contento? siede)
Pantalone. Sì ben; cussì me piase; obbedienza e rassegnazion. Abbiè pazienza, se ve sarò un pochetto fastidioso, e respondeme a tonag.
Beatrice. Dite pure, ch’io v’ascolto. (M’aspetto una gran seccatura). da sè)
Pantalone. Quanti anni xe che se mia mugier?
Beatrice. Saranno ormai tre anni.
Pantalone. Donca ve recorderè quel che gieri, avanti che ve sposasse.
Beatrice. Me ne ricordo al certo. Ero una povera giovane, ma dabbene e onorata. Che vorreste dire per ciò?
Pantalone. Dota no me n’ave dà.
Beatrice. Vi siete contentato così.
Pantalone. Nobiltà in casa no me n’ave portà.
Beatrice. Son figlia di gente onorata, e tanto basta.
Pantalone. Ve recordeu quali xe stai i nostri patti, quando v’ho tioltoah?
Beatrice. Oh, troppe cose mi avete dette; io di tutte non me ne31 ricordo.
Pantalone. Oh ben, se no ve le recordè, ve le tornerò a metter in memoria. Me par anca a mi che ve le siè desmentegae, e per questo sta sera torneremo a far la lizion. Savè che mi no m’ho maridà nè per voggia de mugier, ne perchè fusse innamorà delle vostre bellezze. Son resta veduo32 con una fia alquanto semplizota, e poco bona per governar una casa: mio fio l’ho sempre visto inclinà piuttosto a desfar che a far, e innamorà de le frasche, e de le spuzzetteai; onde per tirar avanti la casa, aver un poco de governo e tegnir in dover la servitù, son sta obbligà a maridarme. Non ho cerca dota, perchè no ghe n’ho bisogno. Non ho cerca nobiltà, perchè no voio33 suggezion; ho procura de aver una putta de casa, savia e modesta e povereta, perchè, cognossendo da mi la so fortuna, tanto più la fusse obbligada a respettarme, obbedirme e volerme ben. M’ha parso che vu fussi giusto a proposito per el mio bisogno. Savevi cussì ben far, e tanto me parevi bona e savia, che m’ha parso de toccar el ciel col deoaj, quando che v’ho sposa. Savè che v’ho dito allora, che in casa mia no ve saria mancà gnente, e credo che no ve possiè lamentar; ma savè anca che v’ho dito che in casa mia no voggio conversazion; che no voggio visite, che no voggio amicizie de zoventù. M’ave promesso de farlo, l’avè34 zurà, v’ho credesto; ma adesso vedo tutto el contrario. Casa mia xe deventada un reduttoak, la mia porta35 xe sempre spalancada; chi va e chi vien. Circa alle mode sè deventada la piavola de Franza36; se spende alla generosa; se tratta alla granda; e quel ch’è pezo, el mario nol se considera un figo, se ghe perde el respetto, nol se obbedisse, e el se reduse a ste do estreme necessità: o de soffrir con rossor el vostro contegno, o de precipitar la famegia per remediarghe. Considerè se cussì se pol durar. Vardè vu, se sta vita la posso far. Beatrice, ho parlà, tocca adesso a responder a vu.
Beatrice. Vi risponderò in poche parole, che circa al rispettarvi non ho preteso di perdervi il rispetto, ma vi ho sempre considerato per quello che siete. In quanto al vestire, se non vi piace così, porterò quello che mi farete, anderò vestita come volete; ma in quanto poi alla conversazione, non credo che pretendiate ch’io abbia a intisichire.
Pantalone. No vogio che deventè tisica, ma ghe xe altro modo de conversar. Se pratica de le amighe; se va con elle alla commedia; qualche volta anca a qualche festin. Se zioga, se cena, se sta allegramente, con zente da par soo, tutti marii e mugier; ma voler praticar sti caga zibetto, sti cascamorti, sti sporchi, che va per le piazze e per le botteghe a vantarse de quel che xe e de quel che no xe; star le ore co lorial s’una carega sentai, senza far gnente, e solamente parlar in recchia, sospirar e voltar i occhi come spiritai. Beatrice cara, no sta ben, no par bon, no se puol, no se deve e no voggio.
Beatrice. Dunque, per quel ch’io sento, voi siete geloso.
Pantalone. No, fia mia, no son zeloso. No ve fazzo sto torto de crederve capace de mal. Zelosia vol dir sospetto, e chi sospetta, xe degno d’esser tradio. Parlo per quel che vedo; digo per quel che sento. El mondo xe composto più de zente cattiva, che de zente bona. Facilmente se crede più el mal che el ben. Chi sa el vostro contegno, no crederà che siè quella donna onorata che sè. Quella zente che pratichè, gh’ha poco bon nome, e dise el proverbio: Vustu saver chi l’è? varda chi el pratica. Onde adesso no ve parlo da mario, ve parlo da pare; lassè ste amicizie, muè37 conversazion: tegnì un altro stil, che sarà megio per vu.
Beatrice. Io vi voglio parlare con libertà, nè vi voglio adulare. Tutto farò, ma lasciar le mie conversazioni è impossibile.
Pantalone. Lassar le vostre conversazion xe impussibile? Adesso no ve parlo più da pare, ma da mario. Beatrice, o pensè a muar vita, o parecchieve (s’alza) a muar aria. Se ve abusè della libertà, saverò el modo de metterve in suggizion. V’ho fatto patrona della mia casa, delle mie sostanze, del mio cuor, ma no del mio onor; e no sarà mai vero, che vogia sopportar che una donna matta se metta sotto i pie la reputazign de casa Bisognosi. O ressolveve de far a modo mio, o ve farò morirt serada tra quattro muri. parte)
Beatrice. Ah giuro al cielo! Io serrata fra quattro mura? lo lasciar le conversazioni? Io dipendere dai capricci d’un vecchio pazzo? No, non sarà mai vero; e se tu mediti di farmi morire fra quattro mura, può essere che prima a me riesca di farti morire per le mie mani. (parte)
SCENA XIII.
Segue notte.
Camera con due porte in prospetto, con portiera, ed una sedia avanti.
Colombina, conducendo per mano Florindo, all’oscuro.
Florindo. Dunque mi assicuri che Arlecchino non ha errato?
Colombina. Ha fatto l’ambasciata puntualmente.
Florindo. Ed è la signora Rosaura che m’invita seco in questa notte?
Colombina. Sì signore, per l’appunto.
Florindo. Ma da me che vuole?
Colombina. Oh, lo saprete da lei.
Florindo. E la signora Beatrice che dirà?
Colombina. Essa non ne sa nulla; che se lo risapesse, guai a me!
Florindo. Non vorrei che nascesse qualche scandalo.
Colombina. Venite meco, e non dubitate.
Florindo. Ma tu mi porrai in qualche precipizio.
Colombina. Eh, per l’appunto. Qui a momenti verrà la signora Rosaura: ma avvertite di non iscoprirvi così subito, lasciate prima che vada a letto suo padre. Quando sarà tempo, v’avviserò io.
Florindo. Ma dove devo nascondermi?
Colombina. Qui, dietro questa portiera. lo conduce ad una delle due porte)
Florindo. Per amor del cielo, non mi tradire.
Colombina. Uh, siete pur pusillanime! Gli amanti devono essere coraggiosi nelle avventure amorose. Sento gente, nascondetevi qui.
Florindo. Amore, assistimi nell’impegno in cui sono. (si nasconde sotto la porta)
Colombina. Oh, vuol essere bella! Sinora l’affare va bene: attendiamo il resto. Ma dimattina voglio andar da mia madre: canchero, due mila scudi! Mia sorella non me la ficca.
SCENA XIV.
Rosaura col lume e smoccolatoio, e detti.
Rosaura. Colombina.
Colombina. Signora.
Rosaura. Questa sera non si cena?
Colombina. Oh sì, altro che cenare! Vostro padre ha gridato con la moglie; stassera non si cena.
Rosaura. Se egli ha gridato, non ho gridato io. Mi sento fame e voglio mangiare.
Colombina. Eppure non dovreste aver fame.
Rosaura. Perchè?
Colombina. Perchè siete innamorata.
Rosaura. Quanto a questo poi, l’amore non mi leva punto l’appetito.
Colombina. Ma se vedeste il vostro signor Florindo, lasciereste qualunque lauta mensa?
Rosaura. Oh, questo poi no; faccio più conto di una vivanda, che mi piace, di quanti Florindi vi sono. (Florindo fa de’ moti d’ammirare)
Colombina. Ma gli volete poi bene al signor Florindo?
Rosaura. Orsù, non mi rompere il capo con simili discorsi. Vammi a pigliare qualche cosa da cena; che io qui sedendo ti aspetto. (siede)
Colombina. Ora vado a servirvi. (vuol smoccolare il lume, e lo spegne) Oh diamine! mi si è spento. Aspettate che vado a riaccenderlo.
Rosaura. Fa presto, che ho paura a stare al buio.
Colombina. Vengo subito. (Povera bambina!) (da sè) (Parte, lascia il lume in terra spento.)
Rosaura. Guardate che sguaiata! Lasciarmi qui all’oscuro, a pericolo ch’io vegga qualche fantasma. Oimè! solo a pensarlo mi sento venir freddo. Farmi sentir non so che. Oh povera me! che sarà mai?
SCENA XV.
Colombina, tenendo per mano Lelio all’oscuro, e detti.
Lelio. Dubitavo che quello sciocco d’Arlecchino avesse equivocato.
Colombina. No no, ha detto bene. La signora Beatrice appunto v’aspettava. Trattenetevi in questa camera alcun poco, finchè il vecchio va a letto, e or ora verrà. sotto voce)
Lelio. Ma qui dove sono?
Colombina. State zitto e aspettate. (Ora la quaglia è nelle rete, convien scoprirla). (da sè, e parte)
Lelio. Io mi trovo nel bell’imbarazzo. Queste donne mi vogliono precipitare.
Rosaura. Eppure parmi di sentir gente. Io tremo da capo a piedi.
Lelio. E quanto dura questa faccenda?
Rosaura. E Colombina non viene.
Lelio. Vedo venir un lume. Sarà la signora Beatrice.
Rosaura. Questa sarà Colombina.
Lelio. Oimè, Pantalone! Dove m’ascondo?
(Corre per trovar luogo da celarsi, urta nella sedia dove sta Rosaura, e casca addosso a la medesima.)
Rosaura. Aiuto, misericordia.
SCENA XVI.
Pantalone col lume, e detti.
Pantalone. Eh, che non lo posso creder... Olàam! coss’è sto negozio? (vede Lelio vicino a Rosaura; Lelio s’alza e gli fa una riverenza) Servitor devotissimo. Brava, siora fia, pulito. Con tutta la vostra modestia, lo gh’avevi in traversaan l’amigo.
Rosaura. Ma io, signor padre, non ne so nulla.
Pantalone. Non ne so nulla? Oh che mozzina monzua! e vu, sior Lelio, adesso ho capio. Finzevi de vegnir per Pasquin, e vegnivi per Marforio.
Lelio. Signore, quest’è un accidente impensato.
Pantalone. Lo so anca mi che non aspettavi d’esser scoverto. Orsù, qua no gh’è tempo da perder. Irimproveri sarave inutili, e! mal xe fatto. Bisogna pensar al remedio. Deve la man, sposeve, e in sta maniera tutte le cose le anderà38 a so segno.
Lelio. Oh, signore, perdonatemi...
Pantalone. Coss’è sto perdonatemi? Me maraveggio dei fatti vostri; o sposè mia fia, o co sto cortello ve scannerò co fa un porco. mette mano)
Lelio. (Sono nel bell’impegno). da sè)
Pantalone. Animo, Rosaura, daghe la man.
Rosaura. Oh, io non lo voglio assolutamente.
Pantalone. No ti lo vuol? Ah, desgraziada, no ti Io vuol, e ti gieri de notte abbrazzada con ello? Presto, no perdemo più tempo; o reparè el mio onor colle vostre nozze, o lavarè le macchie39 col vostro sangue.
Lelio. (Fingerò di sposarla, per liberarmi da un tale imbroglio). (da sè) Giacche così volete, eccomi pronto a darle la destra.
Pantalone. Presto, ubbidisci, o te sgargatoao. minaccia Rosaura)
Rosaura. Ah povera me! Lo sposerò, lo sposerò. Ecco la mano.
Lelio. Ecco che io la sposo... (esce Florindo)
Florindo. Adagio un poco, signori miei...
Pantalone. Comuòdo40! un altro? Cosa feu qua, sior?
Florindo. Qui venni invitato dalla signora Rosaura.
Pantalone. A do alla volta? a Rosaura)
Rosaura. Vi giuro, non ne so nulla in coscienza mia.
Pantalone. (Oh adesso sì, che la prudenza de Pantalon ha squasi perso la tramontana). da sè)
Florindo. Signor Pantalone, confesso che la situazione in cui mi trovate, merita i vostri rimproveri ed i rigori del vostro sdegno, ma amore sia il difensore della mia causa. Amo la signora Rosaura, e se non isdegnate di avermi per genero, ve la dimando in consorte.
Pantalone. Cossa dise sior Lelio?
Lelio. Io gliela cedo con tutto il cuore.
Pantalone. E vu la tiolè, siben che sior Lelio giera qua a brazzadeiap. (a Florindo)
Florindo. Ciò poco m’importa. Un accidente non conclude.
Pantalone. Oh, el xe de bon stomego. E ti cossa distu? a Rosaura)
Rosaura. Io direi... ma mi vergogno...
Pantalone. Ah, ti te vergogni ah! Desgraziada, a do alla volta, e ti te vergogni?
Rosaura. Il cielo mi castighi, se ne sapeva nulla.
Pantalone. Via, animo, di’ su quel che ti vol dir.
Rosaura. Direi, che se avessi a maritarmi... oh, mi vergogno davvero.
Pantalone. (La me fa una rabbia, che la mazzaria). (da sè) Mo fenissila una volta.
Rosaura. Quando avessi a maritarmi, prenderei il signor Florindo.
Pantalone. (Manco mal che la l’ha dita). Orsù, ho inteso tutto. Sior Florindo, domattina la discorreremo.
Florindo. Dunque partirò...
Pantalone. No no, no la se la passa co sta disinvoltura. Quella xe la camera de mio fio, che za per sta sera no vien; là ghe xe un letto, questa xe una luse. (prende il candeliere che aveva Rosaura) La vaga a repossar, e domattina se parleremo.
Florindo. Ma signore...
Pantalone. Manco chiacoleaq. La vaga, se no la vol che se scaldemo el sangue.
Florindo. Per obbedirvi, anderò dove v’aggrada.
Rosaura. Signor padre, ho d’andare ancor io con lui?
Pantalone. Sentì, la povera vergognosa. E ti gh’averessi tanto bon stomego?
Rosaura. Credeva... basta, mi rimetto.
Pantalone. Sior Florindo, xe tardi, la resta servida.
Florindo. V’obbedisco. Addio, signora Rosaura. (entra in camera)
Rosaura. Serva, signor Florindo. (Quanto è bellino!) (da sè)
Pantalone. (Serra Florindo in camera colle chiavi) Questa xe fatta. A vu, siora, in te la vostra camera.
Rosaura. Senza cena?
Pantalone. Anemo, digo, no me fè andar in collera...
Rosaura. Senza lume.
Pantalone. Tiolè sto poco de mocolo. tira fuori un poco di cerino)
Rosaura. Ma io ho paura...
Pantalone. Fenimola, andè a dormir, siora melodiaar; che adessadesso...
Rosaura. Vado, vado, non mi sgridate, che mi fate svegliare i vermini. (entra nell’altra camera)
Pantalone. (La serra colle chiavi) Doman se descorrerà con più comodo.
Lelio. Signor Pantalone, io me ne posso andare.
Pantalone. Ve dirò, no meriteressi che ve fasse andar vivo co le vostre gambe, ma che ve fasse portar via in quattro. No lo fazzo, perchè gh’ho viscere umane in petto, e amo el mio prossimo come mi medesimo; anzi, in vece de trattarve mal, come meritè, ve vogio dar un averdmento da amigo e da fradello carnal. L’avvertimento xe questo: mia mugier e mia fia no le vardè nè poco, nè troppo; in casa mia no ghe stè più a vegnir; e sora tutto, del caso che xe successo sta sera, vardè de non parlar con nissun. Se ve trovè in lioghi dove ghe sia donne de casa Bisognosi, finzè de no cognosserle e tirè de longo; perchè se averè ardir de accostarve a casa mia, ve lo confido con segretezza, in t’un scalin della scala ghe xe un trabuchello, che, leveindo un certo ferro che so mi, se volterà sottossora, e ve precipiterà in t’un pozzo de chiodi e de rasadori; e se no vegnerè in casa mia, ma cercherè de trovarve in altri lioghi co mia mugier o mia fia, o se gh’avere ardir de parlar de sto accidente, gh’ho diese zecchini in scarsela da farve dar una schioppetada in te la schena, senza che sappiè da che banda la vegna. Ve lo digo con flemma, senza andar in collera; prevaleve dell’avviso, e regoleve colla vostra prudenza.
Lelio. Signor Pantalone, vi ringrazio infinitamente dell’avviso; me ne saprò prevalere. Sulla scala il trabocchetto...
Pantalone. E zoso el pozzo de chiodi.
Lelio. Dieci zecchini in tasca...
Pantalone. Per farve dar una schioppetada.
Lelio. Obbligatissimo alle sue grazie.
Pantalone. Patron mio riveritissimo.
Lelio. Rendo grazie alla sua cortesia.
Pantalone. È debito della mia servitù.
Lelio. Ella è troppo gentile.
Pantalone. Fazzo giustizia al so merito.
Lelio. Avrò memoria delle sue grazie.
Pantalone. E mi no me desmentegherò de servirla.
Lelio. Ci siamo intesi.
Pantalone. La m’ha capio.
Lelio. Ella non ha parlato ad un sordo.
Pantalone. E ela no l’ha da far con un orbo.
Lelio. Signor Pantalone, la riverisco.
Pantalone. Sior Lelio, ghe son servitor.
Lelio. (Trabocchetto! alla larga. Ma! pur troppo è vero. Tutte le donne sono trabocchetti). da sè, e parte)
Pantalone. Vogio andarghe drio. No vorave, che passando per camera de mia mugier, el trabucasse con ela. (parte)
Fine dell’Atto Primo.
- Note dell'autore
- ↑ Corte bandia: tripudio.
- ↑ Cagadonao, disgraziato.
- ↑ Mugier, moglie.
- ↑ Ben vegnuo, ben venuto.
- ↑ Care raise, care viscere.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: Fareste meglio andarvi.
- ↑ Cara fia, cara figlia: termine di tenerezza, che si usa con tutte le donne di confidenza.
- ↑ Carega, sedia.
- ↑ Putta, ragazza.
- ↑ Gh’ave rason, avete ragione.
- ↑ Novizza, sposa.
- ↑ Inmusonà, adirato.
- ↑ Sav. e Zatta: simil. (3) Sav. e Zatta: dixè ben ben.
- ↑ Oh che fio, per metafora, oh che briccone.
- ↑ Luse, torzo: lumi, torcia.
- ↑ Mi, io.
- ↑ Do amazzai, per metafora, due ganimedi.
- ↑ La macchina, per metafora, la cicisbea.
- ↑ Desmestegando, accostumando.
- ↑ Incocalio, reso stupido.
- ↑ Fio, figlio.
- ↑ Nassuo, nato.
- ↑ Canapioli, giovinastri.
- ↑ Ventoli, ventagli, ovvero roste.
- ↑ Darò sesto, darò regola.
- ↑ Proverbio.
- ↑ Proverbio. Se remena, si rimescola.
- ↑ Se sfredirà, si raffredderà.
- ↑ Proverbio.
- ↑ Gastalda, moglie del custode della casa di campagna.
- ↑ Con reverenza parlando, ironia, rispetto all’aver dato della signora alla madre di Colombina.
- ↑ Careghe, sedie.
- ↑ A ton, a proposito.
- ↑ V’ho tiolto, vi ho preso, cioè, vi ho sposato.
- ↑ Spuzzette, superbiette.
- ↑ Col deo, col dito. Procerbio.
- ↑ Redutto, ridotto.
- ↑ Muè, mutate.
- ↑ Olà, ammirazione.
- ↑ Traversa, grembiale.
- ↑ Te sgargato, ti scanno.
- ↑ A brazzadei, abbracciato, frase burlevole.
- ↑ Chiacole, chiacchere.
- ↑ Melodia, flemmatica.
- Note dell'editore
- ↑ Edd. Bettinelli, Savioli e Zatta: raffreddi.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: Io credo sia.
- ↑ Ed. Bettinelli: benchè nata.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: accomoda.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: sorte.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: Venite qui, venite qui.
- ↑ Bettin.: ancor.
- ↑ Sav. e Zatta: quanto.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: E tu, cosa.
- ↑ Sav. e Zatta: se el la.
- ↑ Sav. e Zatta: bon.
- ↑ Sav. e Zatta: de.
- ↑ Sav. e Zatta: obbedirle.
- ↑ Sav. e Zatta: andar cussì.
- ↑ Sav. e Zatta: a casa?
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: Gran.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: Gran.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: la felice.
- ↑ Sav. e Zatta: tanto.
- ↑ Sav.: isporca; Zatta: sporca.
- ↑ Savioli e Zatta tralasciano la seconda parte di questo periodo.
- ↑ Gabbiano.
- ↑ Sav. e Zatta: menestra.
- ↑ Sav. e Zatta: seco.
- ↑ È da notarsi che L'autore si dimenticò, o trovò qui inutile, di stendere per intero il dialogo.
- ↑ Sav. e Zatta: raffredderà.
- ↑ Mare, madre.
- ↑ Bettin., Sav. e Zatta: gli.
- ↑ Sav. e Zatta: tutto il bene.
- ↑ Zatta: poco.
- ↑ Sav. e Zatta: io tutte non me le.
- ↑ Vedovo.
- ↑ Sav. e Zatta: vôi.
- ↑ Sav. e Zatta: me l’avè.
- ↑ Sav. e Zatta: la porta.
- ↑ La piavola de Franza: la bambola 1 , che vien di Francia in Italia per la moda del vestire.[nota originale]
- ↑ Sav. e Zatta: la bamboccia.
- ↑ Sav. e Zatta: le ore colle ore.
- ↑ Sav. e Zatta: le cose anderà.
- ↑ Bettinelli aggiunge: mie.
- ↑ Bettin., Sav.: commodo.