Italiani illustri/Frà Bernardino Ochino
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Quando, molt’anni fa, io saliva la prima volta faticosamente versa la città di Siena, teatralmente assisa su que’ due sproni di poggi, ricorrevo col pensiero com’ella, riconosciuta repubblica indipendente nel 1186 da Enrico VI con diritto di zecca e libera elezione de’ consoli e del podestà, e giurisdizione su tutto il contado,- crescesse fra le agitazioni feconde che svolgeano l’attività individuale, la fede, il senso pratico, e fin il senso estetico. Perdute quelle libertà, che il secol nostro principesco vitupera o compassiona come i vecchi disapprovano il balioso ruzzare della gioventù; ridotta a città secondaria d’una provincia secondaria, pure ad ogni passo rammemora altri tempi o gloriosi o almeno memorabili; ed essendo, per postura, a minor contatto colla folla passeggiera e colla moltitudine aspirante o proponente, serba un’impronta di vetustà, tutt’altro che disacconcia alla cortesia de’ suoi abitanti, i quali, nell’indole come nella pronunzia, sono mezzi fra Toscani e Romani, fra la stirpe gentile e la gagliarda.
Mutate le cose, vi ritornavo colla strada ferrata, e dai bastioni contemplandola, — È la città degli eretici», dicevo ad uno di que’ patrioti all’antica, che non si sgomentano dell’essere beffati per municipali dagli idolatri dell’annichilante accentramento. Ed egli rimbalzandomi quella frase, soggiungeva: — È la città dei santi. Sena vetus civitas Virginis è intitolata, da quando il beato Tommaso Balzetti la fece votare a Maria, prima della battaglia dell’Arbia; e il vecchio nostro sigillo portava: Salvet Virgo Senam quam signat amoenam. E la gloria di Maria campeggia nello stupendo nostro duomo, dove mai non si finirebbe d’ammirare la vastità del piano (che pur è la sola traversa del tempio ideato), la varietà dei disegni, la finissima esecuzione, tanto superiori a quanto possano offrire altre arroganti capitali. Anche fuor di là, tutto è pieno di ricordi di santità. Qualunque porta per cui entriate, vi offrirà effigie di santi: sull’una la Beata Vergine incoronata, opera di Ansano di Pietro; sull’altra l’ammirato presepio del Sodoma. Ad ogni svolta incontrate dipinti i quattro antichi patròni, Ansano, Crescenzio, Vittore, Savino; aggiungete il beato Andrea Gallerani, fondatore dei frati della Misericordia; il beato Ambrogio Sansedoni, che parlava alto a Federico II; Gioacchino Pelacani e Antonio Patrizj, miracoli di carità pei poveri e per Maria; il beato Antonio che riformava i Serviti; il beato Tomasuccio che istituì i Gerolomini; il beato Giovanni Colombini, narratoci in una delle più ingenue e affettuose scritture del Trecento, e che, per la pazienza della moglie e pel leggendario, richiamalo dalle dissipazioni, e da gonfaloniere ridottosi mendicante volontario, con Francesco Vincenti istituì il nuovo Ordine de’ Gesuati, inducendo la cugina Caterina a fondar le Gesuate là nella contrada di Valpiatta. Il beato Bernardo Tolomei, dottore in ambe le leggi e cavaliere imperiale, erasi ritirato al deserto con Ambrogio Piccolómini e con Patrizio Patrizj, fondando gli Olivetani di Santa Maria di Montoliveto, in uno sterilume che oggi ride della più lieta coltivazione, come la chiesa di squisite pitture. Stefano e Giacomo, agostiniani di Lecceto, istituiscono i canonici regolari Scopettini. Pietro Petroni, certosino, morendo mandava dire al Boccaccio riparasse agli scandali del suo scrivere. E il nostro san Bernardino? Profusosi a cura de’ poveri nella peste, fu ammirato per le prediche e pe’ frutti che ne raccolse in tutta Italia. Pietà quasi domestica c’invita nel quartiere dell’Oca a venerare tanti ricordi ancora palpitanti di santa Caterina, la pia figliuola del tintore Benincasa, che afflitta di dolorose infermità e di tentazioni, ristorava l’anima colle preghiere e la carità; andava assistere i malati e suggerne le ulcere, colla semplicità stessa colla quale’ ai Fiorentini dettava la pace, in lei compromessa, o scriveva al papa che si restituisse da Avignone a Roma, o a Giovanni Aukwood che frenasse le sue bande di mercenari inglesi. Privilegiata del dono di convertir peccatori, trasse a pentimento due assassini già sul patibolo, e tutta la famiglia Tolomei, onde il papa deputò qui tre Domenicani sol per udire le confessioni di coloro ch’essa aveva convertiti. Aggiratevi per quel quartiere, e vi parrà ch’ella sia morta jeri, tanto ognun ne ragiona; ognun ne addita le orme: a lei le spose, a lei le madri dirigono voti e portano donativi. Pochi anni fa, alla granduchessa di Toscana che visitava il paese, le fanciulle offersero graziosi fiori, nell’artefare i quali sono abilissime, e volendo ella ricambiarle con un ricco donativo, esse la pregarono che invece ne facesse offerta alla loro santa Caterina. Nella cappella di essa, Pio IX, il 1857, veniva iti trionfo popolare, e vi riceveva al bacio del piede la conferenza di San Vincenzo di Paolo. Sono di questa città i papi Pio II, Pio III, Alessandro VII; delle vicinanze Giovanni I, Bonifacio VI, Gregorio VII, Alessandro III e moltissimi cardinali. Qui le arti belle fecero forse le prime prove di rinnovamento con Mino da Turrita, Guido, Duccio di Boninsegtia, Simon Memmi: come la poesia col Folcalchieri. Veneriamo tuttora la Madonna che portossi alla battaglia di Montaperti, ove i Fiorentini «fecero l’Arbia colorita in rosso»: e il sentimento cattolico si mantenne nella nostra pittura anche quando Roma e Firenze l’aveano sacrificato alla classica imitazione».
Questo ed altro mi dicea quel buon Senese: eppure è vero che da quella città ci vennero famosi eresiarchi, quali l’Ochino, i Soccini ed altri.
Domenico Tommasini fu un oscuro abitante della contrada dell’Oca, donde il soprannome di Ochino al suo figliuolo Bernardino. Questi, nato il 1487, vestitosi frate Osservante, n’uscì per mettersi a studiare medicina a Perugia, dove contrasse amicizia con Giulio De’ Medici, che fu poi Clemente VII; rientrato nell’Ordine, vi ottenne dignità, e ne agognava di maggiori; e forse sperò agevolarsele mettendosi ne’ Cappuccini, istituiti da soli dieci anni, e appena introdotti in Siena. Soffriva lotte colla carne: — Invano (egli confessa) io cercava mortificar il corpo con digiuni e preghiere. Alfine lessi la Scrittura, e gli occhi miei s’apersero, e Cristo mi rivelò tre grandi verità: che il Signore, col morire in croce, soddisfece pienamente alla giustizia del Padre, e meritò il Cielo a’ suoi eletti: che i voti religiosi sono invenzione umana; che la Chiesa di Roma è abbominevole agli occhi di Dio».
Ciò scrisse, e fors’anche pensò più tardi: per allora, sebbene creduto incostante di risoluzioni, acquistò tal rinomanza d’eccellente predicatore, che il cardinale Sadoleto lo equiparava a qualunque oratore antico. Il vescovo di Fossombrone scriveva ad Annibal Caro: — Ho udito in Lucca pochi di sono, fra Bernardino da Siena, veramente rarissimo uomo; e mi piacque tanto, che gli ho indirizzati due sonetti, de’ quali ve ne mando uno». Carlo V diceva: — Predica con ispirito e devozione tale, che farebbe piangere i sassi».
Pietro Bembo, che presto fu cardinale, poco amava i predicatori d’allora, esclamando, — Che ci ho a far io? mai non s’ode che garrire il dottor Sottile contro il dottor Angelico, poi venirsene Aristotele per terzo e terminare la quistione proposta». Ora, il 6 aprile 1536, da Venezia scriveva alla marchesa di Pescara: — Io sono pregato da alquanti gentiluomini di questa città ad intercedere V. S. che sia contenta a persuadere al reverendo nostro padre frate Bernardino da Siena che accetti di venir quest’altra quaresima a predicar qui nella chiesa de’ Santi Apostoli, a riverenzia ed onor di nostro Signore Dio. Tutta questa cittadinanza aspetta di udirlo infinitamente volentieri. Io mi terrò a buona ventura poter conoscere e udir quel santo uomo».
E il 23 marzo seguente; — Ragiono con V. S. come ho ragionato questa mattina col reverendo padre frà Bernardino, a cui ho aperto tutto il cuore e pensier mio come avrei aperto dinanzi a Gesù Cristo a cui stimo lui esser gratissimo e carissimo; nè a me pare aver giammai parlato col più santo uomo di lui. Io non voglio lasciare d’udire le sue bellissime e santissime e giovevolissime predicazioni, ed ho deliberato starmi qui mentre ci stava egli».
Poi al 4 aprile: — Il nostro frate Bernardino (che mio voglio da ora innanzi chiamare, a parte con voi) è oggimai adorato in questa città. Nè vi ha uomo nè donna che non l’alzi fino al cielo. Oh quanto vale, oh quanto diletta, oh quanto giova! Ho pensiero di supplicar Nostro Signore ad ordinar la sua vita di maniera, ch’ella possa bastar più lungamente ad onor di Dio e giovamento degli uomini; che ella non è per bastare, governandola sì duramente com’egli fa».
In fine il 23 aprile: — Mando a V. S. 111. le allegate del nostro reverendo frate Bernardino, il quale io ho udito così volentieri tutti questi pochi dì della presente quadragesima, che non posso abbastanza raccontarlo. Confesso non aver mai udito predicar più utilmente, nè più santamente di lui. Nè mi meraviglio se V. S. l’ama tanto quanto’ Ella fa. Ragiona molto diversamente e più cristianamente di tutti gli altri che in pergamo siano saliti a’ miei giorni, e con più viva carità ed amore, e migliori e più giovevoli cose. Piace a ciascuno sopra modo. E stimo ch’egli sia per portarsene, quando egli si partirà, il cuore di tutta questa città seco. Di tutto ciò si hanno immortali grazie a V. S. che ce l’avete prestato». E al curato avea scritto: — Ricordatevi di forzare, se occorre, frà Bernardino a far uso di carni, e s’e’ non tralascia l’astinenza quaresimale, non potrà reggere alla fatica dei predicare».
Perocchè era dedito a quelle eccessive austerità, che non di rado inducono soverchia fiducia in sè stesso. Camminava a piè scalzi su per le roccie, nelle nevi, fra i bronchi, scoperta la testa, esposto a tutte le intemperie: limosinando di porta in porta: la notte appoggiavasi a un albero e vi si addormentava, sebbene i grandi avessergli preparato letti e mense. Vedendolo passare, colla grossa tonaca, colla lunga barba incanutita anzi tempo, coll’occhio spento e le guance scarnate dalla macerazione e l’aspetto di un martire, la gente s’inginocchiava, presa istintivamente da meraviglia e rispetto. — Dove andava (dice un contemporaneo), uscivagli incontro la folla; non bastavano le chiese agli uditori: ed egli arrivava sempre a piedi, chè nessun mai lo vide pur s’un giumento: se doveva entrar ne’ palazzi de’ principi, nulla mutava del rigor di sua vita, non vino mai, mai più d’una vivanda, gli sprimacciati letti abbandonava per dormire sul nudo pavimento»1. Sin l’infame Aretino, risoluto a far parlare di sè in qualsifosse modo, fingeva il convertito, e scriveva al papa da Venezia, il 21 aprile 1537, che il Bembo «avea dato mille anime al paradiso con l’aver trasferito in questa città cattolica il tanto umile quanto buono frà Bernardino»; e che esso «da quella sua tromba che si fa udire col frate apostolico, ha creduto alle ammonizioni della riverenza sua, le quali vogliono che questa lettera, in mia voce gettatasi ai piedi della Vostra Santità beatissima, le chiegga perdono della ingiuria fatta alla Corte dalla stultizia delle scritture mie, benchè tutto quello che io ne ho detto con la bocca e scritto con la penna l’hanno ordinato i cieli, acciò, se nulla mancasse alla beatitudine sopradetta, vi forniate di glorificare nella conversione Aretina»2.
Mentre predicava a Venezia, «illustrissima città, teatro del mondo, emporio di tutto l’orbe, regina dell’Adriatico, vincitrice de’ nemici, miracolo d’Italia», l’Ochino vi ottenne una cella, che elevò a monastero de’ suoi Cappuccini. Nelle deliberazioni del concistoro, o vogliam dire consiglio municipale di Siena, al 21 giugno 1539 si stabiliva che, «essendo buono e molto utile alla salute delle anime che il detto frà Bernardino, che stamane nella gran sala del consiglio fece una salutare predica a tutto il popolo, rimanesse alcuni giorni a predicare nella cattedrale o in palazzo», che quattro illustri personaggi andassero da esso frate a procurare non partisse da Siena, e scrivessero al pontefice, se fa bisogno. Predicando nel 1540, ove in fatto introdusse la devozione delle Quarant’ore, che Siena fu la terza città a praticare; se non che, invece del Santissimo Sacramento, esponevasi il Crocifisso delle Compagnie.
Il Boverio, annalista de’ Cappuccini, non ha frasi sufficienti per lodare l’Ochino, «prudente, sagace, di bei costumi, esercitatissimo per lungo uso di molte cose, ingegno e grandezza d’animo ad abbracciar qualunque gran fatto; tanta compostezza esterna ed onestà, che mostrava apparenza non vulgare di virtù e santità; mirabile predicatore, coll’eloquenza guadagnava gli animi, sicchè fu una generale approvazione allorchè, nel terzo capitolo generale, fu eletto generale il 1538. E tolse ad amministrar l’Ordine con tanto consiglio, prudenza, zelo della regolare osservanza, e coll’esempio d’ogni virtù, che i frati s’applaudivano dell’elezione d’un tal uomo. Quasi sempre pedestre visitò i varj conventi: esortava con mirabile eloquenza alla povertà, all’osservanza della regola, all’altre virtù, e s’acquistò sempre maggior nome presso i suoi e presso gli esteri: grande autorità godeva presso re e principi, che l’usavano in difficilissimi consigli; il papa avealo in massimo onore; talmente era cercato, che bisognava ricorrere al papa per averlo predicatore, e le più grandi chiese non bastavano agli uditori, sicchè bisognava aggiungervi portici; e molti, levando le tegole dal tetto, calavansi di là per ascoltarlo. Predicando a Perugia nel 1540, calmò le nimicizie per quanto inveterate. A Napoli avendo dal pulpito raccomandata non so qual pia opera, l’elemosine offerte salirono a cinquemila zecchini».
E prosegue con incolta prolissità che, scaduto il triennio, fu rieletto, ma ricusò fermamente, finchè dalle istanze persistenti si lasciò vincere. E negli otto anni che fu cappuccino, mai non diede il più piccolo sentore di eresia.
Di fatto in quel tempo l’Ochino mostrava una pietà incolpabile, e possiamo offrire in testimonio alcune sue lettere, tali quali le abbiam desunte dagli archivj della sua patria.
«Molto magnifici signori; Non penso vi habi a esser difficile el persuadersi che molto volentieri verei in questa quaresima a predicar alla mia Siena, sicchome per una vostra o visto sarebbe intento di vostre signorie: resta solo che da chi può comandarmi io non sia impedito. Di me potran servirsi nel scrivere che a me el venire sarebe gratissimo, pur che sia con volontà di sua santità. Questo medesimo o expresso al reverendissimo monsignore Ghinucci; et perchè del tempo fuor della quaresima sua santità non è solita impedirmi, quando a vostre signorie paresse che io venisse in questo tempo innanzi alla quaresima, mi dieno un cenno del quando, che non mancarò, col non cessare ancora di tentare per la quaresima; il che sarà etiam più facile di ottenersi per esser lì; et se in altro posso si servin di mè, che per la singolare affetione li porto mi sarà facile tutto in Christo per il quale vivo e spero di morire. Resto col pregarlo che vi prosperi sempre con la sua grazia in ogni vostra felicità.
«Da Roma il 5 settembris 1540».
«Frater Bernardinus sen.».
«Molto magnifici signori; Non ho più presto resposto per non essere resoluto di sua santità. Oggi s’è contentata che io per lo advento venghi, e così mi sforzarò circa Ognissanti essere a Siena. Preghiamo el Signore ch’el mio venire non sia vano. Resta che vostre signorie in quanto posso mi comandino che non sarà cosa tanto difficile che lo amor non me lo renda facile.
«Il Signore vi conservi e prosperi nella sua grazia.
«Da Roma 27 settembris 1540».
«Molto magnifici signori Priori Governatori e Capitani miei osserv.; Mi dolgo, per la molta affetione e cordiale amor che porto ed alle signorie vostre e alla patria, di non poter soddisfar a quello che per debito me si conviene, e a quanto saria il volere di quelle. Io non harei già aspettato che mi havessin fatto istantia di venir costà a predicare, che (quantunque non sia secondo il merito di quelle) al primo cenno sarei venuto, ma mi trovo, da molti giorni indrieto, con un dolor grande di schiena, e con altre indispositioni, attalchè, si ben mi forzasse a venir, non potrei predicare, e per questo ho ricusato anche a molti, e mi sò fermato qui che, tra che curarò il mal, mi verrò rassettando le mie scritture; per questo le Signorie Vostre si degneranno per tal impedimento scusarmi, contentandosi di quanto è voler di Dio per la mia imperfetione; e di questo è il mio buon volere verso di tutti, e mi faran grafia avermi nella vostra protectione e cosi a quelle con tutto il core mi fo raccomandato.
«Dal luogo nostro di Firenze, il dì xjj di novembre del d4j».
«Molto magnifici signori; Sa Dio quanto piacere ho avuto in intendere de diverse parti e ultimamente per una vostra, el ben essere della mia diletta patria: desidero essere instrumento di Christo a honorarlo se fosse possibile in ogni loco, ma spetialmente come sarebbe justo ne la mia Siena: e tanto più me n’è cresciuto el desiderio quanto che intendo che comincia e reformarsi et mi desidera. Ma le Signorie Vostre hanno a sapere che io, poi partii da Venetia, ad istantia dell’illustrissimo dominio veneto, la santità di Nostro Signore per un breve mi a imposto che ritorni a Venetia, e li stia in lor satisfatione in fin tanto che di me altro non determina, però bisogna che acceptiate per ora la bona volontà e mi haviate per excusato. Trovandomi cosi legato, mi sforzarò ben quanto più presto potrò venir a visitarvi: e se in altro possa in Cristo servirvi, sapino che lo animo è prontissimo. El Signor vi conservi et prosperi sempre nella sua divina gratia.
«Da Verona, alli 20 maggio 1542».
«Molto magnifici signori; Per esser lo amor della patria justo e santo, e tanto più quanto è d’un bene universale e pubblico, cognosco che tanto più siamo obligati a amarla quanto siamo a Dio più proximi, però per esser frate non sò escluso da questo dolce vinculo, anzi tanto più strettamente ligato, quanto in me fusse più charità. Unum est che mi son congratulato del felice essere della mia patria, e o incominciato a honorarmene, però in Cristo, tanto ne sento dir bene, e desidererei presentialmente godermene, si chome del contrario in altre volte ne ho avuto molestia, e tanto più quanto per la vostra vedo el desiderio di Vostre Signorie e della città maxime quando credesse avere a giovare. Ma poi so qui a Verona ad instantia del clarissimo dominio veneto, o avuto un breve da Sua Santità dove mi impone che ritorni a Venetia, e li stia infin tanto che altro non determina: tal che so impedito, e bisogna mi haviate non solo per excusato, ma compassione, e tanto più quanto el venire mi sarebe più contento ch’el restare. Pregarò bene el Signore che, essendo suo onore, faci che Sua Santità osservi la promessa, e quanto più presto potrò me ne verrò alla mia Siena. Pregando Dio che la conservi e prosperi nella sua gratia e pace.
«Da Verona, alli 20 maggio»3.
Nel 1542, il senese Alessandro Piccolomini stampava in Venezia la Istituzione dell’uomo nobile, dove nel lib. I, c. 7 mette: — Se bene alcuni saranno che, per più liberamente servire a Dio, dal legame del matrimonio si guarderanno, non però da questa legge del giovare altrui sciolti saranno: anzi assai più degli altri legati fieno; appartenendosi loro, per mezzo dell’ammaestramento e delli esempi delle buone opere, continuamente cercare di giovare alla salute di questo e di quello; come, fra gli altri, fa oggi il sant’uomo frà Bernardino Ochino da Siena, molto in questo più prudente e savio che coloro non sono, i quali, come nemici di tutti gli altri et amici sol si se istessi, vanno a viversi racchiusi ne’ chiostri e per le folte selve dispersi, pensandosi d’imitare in tal guisa Giovanni battezzatore, e non accorgendosi che egli continuamente di predicare e mostrare altrui la via del cielo non restava».
Eppure sotto quelle apparenze l’Ochino covava un’estrema superbia, il desiderio di levar rumore, e la fiducia nel proprio intelletto avendo imparato dai libri di Lutero a cercare nelle sacre carte ciò che alla sua passione condiscendesse. Alleato da prima con quei pietisti che volevano riformare i costumi della Chiesa, ben presto aderì alla dottrina della giustificazione pel solo merito di Cristo, diffusa in Napoli dal Valdes, accettata anche in buona fede da pie e savie persone4. Dicono che, mentre predicava a Napoli in San Giovanni Maggiore nel 1536, il Valdes lo avvicinasse, e fomentandone l’immaginativa e l’ambizione, l’inducesse a insultare Paolo III, che non l’aveva ornato cardinale. Al vicerè Toledo fu rapportato che spargesse errori luterani, e quegli cercò che il vicario arcivescovile chiarisse la cosa; «ma perchè con l’austera vita che mostrava, con l’abito asprissimo, con il gridar contro i vizj ricopriva, il suo veleno, non si potè per allora conoscere se non da pochi la sua volpina fraude». Son parole del domenicano Caracciolo, il quale prosegue: «Pure vi fu alcun che se n’accorse, e fra i primi furono i nostri santi padri don Gaetano Tiene e don Giovanni; i quali poi più chiaramente se n’accorsero nel 1539 quando l’Ochino, predicando nel pulpito del duomo, andava spargendo molte cose contro il purgatorio, contro le indulgenze, contro le leggi ecclesiastiche del digiuno, ecc.; e quel che fu pessimo, soleva talora l’empio frate proferire interrogative quel che sant’Agostino dice negative, Qui fecit te sine te, non salvabit te sine te? dando a questo modo ad intendere tutto il contrario di quel che insegna sant’Agostino, cioè che sola fides sufficit, e che Iddio ci salva senza che noi facciamo opera alcuna per cooperare con Dio. Andavano attorno iscritti prima, e poi stampati i libri di costoro, come di tanti profeti, e già in pochi anni non solo i plebei ed ignoranti, ma anche molti signori e signore nobili, e molti religiosi e preti se n’erano infetti; e si facevano conventicole secrete tra loro, e si prestavano scritti l’un l’altro di cotali dottrine pestifere»5.
Giulia Gonzaga duchessa di Trajetto6, restava commossa dalle prediche dell’Ochino. Un giorno ch’ella usciva da San Giovanni Maggiore, il Valdes, vedendola agitata, la accompagnò lino al palazzo, mentre essa sfogavasi con lui parlandogli delle speranze, delle lotte, degli sconforti suoi. — Dentro di me sento una battaglia. Le parole di frate Ochino mi riempiono di terrore dell’inferno, ma temo le male lingue. Ochino mi dà l’amore del paradiso, ma sento al tempo stesso l’amor del mondo e della sua gloria. Come sottrarmi, a questo conflito a cui soccombo? Gol metter d’accordo le due inclinazioni o col sopprimerne una?»
Il Valdes la rassicurava che quell’agitazione era segno che l’immagine di Dio si ripristinava in essa. — La legge vi ha fatto la ferita, l’Evangelo ve ne guarisce. Solo temo che cerchiate regolar la vostra vita cristiana in modo, che quei che vi stanno intorno non si accorgano di cangiamento.... Voi dovete scegliere fra Dio e il mondo. Ed io vi farò conoscere la via della perfezione. Amate Dio sopra ogni cosa e il prossimo come voi stesso».
Ed ella: — Ma se ho sempre inteso che solo i voti monastici guidano alla perfezione».
E il Valdes: — Lasciate dire. I monaci non hanno perfezione cristiana se non in quanto hanno l’amor di Dio; non un soldo di più». E seguitò mostrandole l’unico mezzo per cui questa carità, che è la perfezione, si produce nel nostro cuore. — Le opere nostre son buone solo quando fatte da persona giusta. Come fuoco bisogna per dare il calore, così vuolsi la fede viva per produrre la carità. La fede è l’albero; la carità è il frutto. Ma per fede intendo quella che vive nell’anima, che viene dalla grazia di Dio. che attaccasi con confidenza illimitata a tutte le parole di Dio. Quando Cristo dice Chi crederà, fia salvo, il discepolo che crede non dee aver più il minimo dubbio sulla sua salute».
Come ella protestava di non cedere a chichessia quanto alla fede, il Valdes soggiungeva: — Badate bene. Se vi chiedono se credete gli articoli della fede, assicurate di sì: ma se vi chiedono se credete che Dio ha perdonato i vostri peccati, voi rispondete che lo credete, ma non ne siete sicura. Se accettate con piena fede le parole di Cristo, allora, anche provando pentimento dei vostri peccati non esiterete a dire con tutta sicurezza: Iddio medesimo ha perdonato i miei peccati».
Giulia l’interrogò qual fosse cotesta via della salute, e il Valdes rispondeva: — Tre vie conducono alla cognizione dell’onnipotenza di Dio. Il lume naturale che fa conoscere l’onnipotenza di Dio; l’antico Testamento che ci mostra il Creatore come terribile all’iniquità: finalmente Cristo, via luminosa e maestra. Cristo è amore: laonde quando conosciam Dio per mezzo di lui, lo conosciamo come un Cristo d’amore. Dio ha soddisfatto pel peccato: solo il Dio infinito potea pagare un debito infinito. Ma non basta crederlo: bisogna sperimentarlo. Ogni giorno, qualche momento consacrate a meditare sul mondo, su voi stessa, su Dio, su Gesù Cristo senza astringervi in modo superstizioso: fatelo in libertà di spirito, scegliendo la camera che vi par più opportuna; foss’anche quando vegliate nel vostro letto. Due immagini abbiate sempre davanti agli occhi: quella della perfezione cristiana, e quella della vostra imperfezione. Questi libri vi faranno avanzare in un giorno, più che gli altri in dieci anni. La stessa Scrittura, se non la leggete con tale umiltà di spirito, potrebb’essere un veleno per l’anima vostra. La predica ascoltate con umile spirito».
Giulia. — Ma se il predicatore è del gran numero di quelli che, invece di predicar Cristo, ciarlano cose vane e inutili, tratte dalla filosofia o da non so qual teologia: che contano baje e favole, volete ch’io li segua?».
Valdes. — Fate in tal caso quel che vi pare preferibile. I momenti più cattivi per me sono quelli che perdo a sentir predicatori quali voi li descrivete; onde rado mi succede».
Giulia. — Due parole ancora: qual uso fare della libertà cristiana?»
Valdes. — Il vero cristiano è libero dalla tirannia del peccato e della morte: è padrone assoluto delle sue affezioni; ma è anche il servo di tutti»7.
Nel 1441 avendo l’Ochino stampato alcune prediche, crebbe ne’ Veneziani il desiderio di riudirlo. Il papa vi assentì; pure essendogli già insinuato qualche dubbio, diede ordine di tenerlo d’occhio. In fatto predicando in Santi Apostoli, cominciò a spargere errori. Alcuni ne l’accusarono, e (non essendovi ancora il Sant’Uffìzio) il nunzio papale lo dimandò a chiarirsene, ed egli ebbe l’arte di spiegarli in buon senso; e diceva: — È più difficile convincere, uno d’eresia, che accusarlo d’oscura definizione di frasi teologiche». Esso nunzio l’anno prima avea fatto arrestare Giulio Terenziano teologo milanese, che predicava eresie: e a ciò parve alludere l’Ochino quando dal pulpito proruppe: — Che facciamo, o uomini veneti? Che macchiniamo? O città regina del mare, se coloro che t’annunziano il vero chiudi in carcere, mandi alle galere, come si farà luogo la verità? Oh potesse questa liberamente enunciarsi! quanti ciechi recupererebbero la vista!»
Pertanto il nunzio lo sospese, e riferì ogni cosa al santo padre; ma gliene seppero mal grado i Veneziani, ammiratori di quel bello ingegno, di modo che dopo tre giorni bisognò restituirgli la parola, ch’egli usò più cautamente8.
Da Venezia, il 10 febbrajo 1542, scriveva al marchese del Vasto:
— Illustrissimo signore; Non fu mai, nè manco sarà capitano più valoroso di Cristo. Imperocchè, dove gli altri vincono con potenti eserciti, per forza d’arme e d’artiglierie, e molti con inganni, astuzie o favori di fortuna, Cristo, venendo in questo mondo, solo soletto entrò in guerra, e disarmato d’ogni forza e favore del mondo, sendo in sulla croce, vestito solo di verità, umiltà, pazienza, carità e dell’altre sue divine virtù, con impeto d’amore, in una sola guerra ha superato per sempre non gli uomini del mondo, ma gl’infernali spiriti, la morte, li vizj, e tutti li nemici di Dio, e fatto la più bella e ricca preda dell’anime, per tanti secoli state già in si misera servitù, che mai si facesse o potesse fare. È ben vero che vi lasciò la vita, ma questo rende più mirabile il suo trionfo e la sua gloria. Però essendo si divino capitano, V. E. non si ha da vergognare, anzi da onorare d’essere nel numero delli suoi valorosi cavalieri, massime che le palme, corone, vittorie, trofei e trionfi delli suoi soldati senza comparazione sono più gloriosi che quelli del mondo. E si ricordi che prima, cioè nel sacro battesimo, fu ascritto alla milizia di Cristo, che a quella di Cesare; e mancar di fede a Cristo è cosa’ tanto più vile, quanto che Cristo, degli altri signori è più ricco, liberale, potente, pio, santo, giusto e pieno d’amore: e siccome furono empie quelle parole della turba, Non abbiamo altro re che Cesare, così divine quelle di Cristo, Rendasi quello ch’è debito a Cesare, ma non si manchi a Dio. Ed ora tanto più, quanto non si serve, anzi si disserve a Cesare ogni volta che s’ingiurasse Dio, dal favor del quale pendono gl’imperj e monarchie del mondo. Questo ho scritto, non perchè io non pensi che V. E. abbia sempre l’occhio aperto all’onor di Dio, siccome son costretto a credere e dalle vostre virtù, e dall’amor ch’io vi porto: ma vi veggo nelle altezze del mondo, dove li venti impetuosi delli rispetti umani sono potentissimi; talchè bisogna esser perfettissimi per vincere. Però l’impresa è conveniente alla grandezza e nobiltà dell’animo vostro. Gli altri vostri amici faranno festa, e magnificheranno le vostre vittorie del mondo: ed io, quando vincerete voi stesso, e non avrete per idolo il rispetto del mondo, anzi per grandezza di spirito gli sarete superiore, e non servirete al mondo, ma ve ne servirete in onore di Dio».
Terminata la quaresima, a Verona raccolse alquanti Cappuccini della provincia veneta, ai quali insinuò errori, poi prese a spiegare le Epistole di san Paolo; e tra gli altri, corruppe frà Bartolomeo da Cuneo, guardiano in quel convento, che divenne eretico. Essendo generale de’ Cappuccini, avea promesso a frate Angelo da Siena di fabbricare il loro convento con un lusso disdicevole alla professata povertà; onde i pii credettero che quel che seguì fosse castigo di Dio per questa vanità. Certo le anime pie già n’erano sgomente, e san Gaetano Tiene gli fece interdire la predicazione in Roma. Angelica Negri di Gallarate, saviissima donna, le cui lettere si leggevano ne’ refettorj, e che il marchese Del Vasto governatore di Milano volea ne’ suoi consigli e al letto di sua morte, udendo l’Ochino predicare a Verona, predisse cadrebbe nell’eresia.
E in fatto cominciò a mostrare disgusto dell’orazione, del coro, della messa, al punto che tutti ne prendeano scandalo: qualche monaco il rimproverò, tra cui frate Agostino da Siena gli disse lepidamente: — Andando ad amministrar la religione senza la preghiera, mi somigliate a chi cavalca senza staffe. Badate non cascare». Egli rispondea che non cessava di ben fare. Poi talmente si avviluppò in affari di principi, che non avanzava tempo a dire l’uffizio, e ne domandò la dispensa dal papa. Insieme prese famigliarità con eretici, ne gustava i libri, fantasticava innovazioni.
Il papa non sapeva indursi a crederlo traviato; e l’invitò a Roma coi maggiori riguardi, avendo divisato di ornarlo cardinale. Egli bilicossi lungamente tra rinnegare le sue dottrine, o esporsi alla morte sostenendole; e il Ghiberti, santo vescovo di Verona ove allora egli si trovava, lo indusse andare a consultarne il cardinale Contarini a Bologna. Giunto colà, il trovò sì gravemente ammalato, che non potè averne se non queste parole: — Padre, voi vedete a che stato sono ridotto: pietà di me; pregate Dio per me, e fate buon viaggio».
L’Ochino passò a Firenze a visitare Pietro Martire Vermiglio, e questi, che già era fisso nell’eresia, lo dissuase risolutamente dall’andare a Roma nè mettersi in mano del pontefice, bensì seguisse il consiglio del Salvatore, «Se siete perseguitati in un paese fuggite in un altro». Mosse dunque per Siena a salutare i suoi; e vedendosi o credendosi in pericolo di venir preso, si ricondusse a Firenze, e di là scrisse alla marchesa di Pescara, palesandole l’ansie sue. — Con non piccolo fastidio di mente mi trovo qui fuor di Firenze, venuto con animo d’andar a Roma, dove sono chiamato, benché da molti ne sia stato dissuaso, intendendo il modo col quale procedono; perchè non potrei se non negar Cristo, o esser crocifisso. Il primo non vorrei; il secondo sì, con la sua grazia, ma quando Lui vorrà. Andar io alla morte volontariamente non ho questo spirito. Dio, quando vorrà, mi saprà trovar per tutto. Cristo m’insegnò a fuggir più volte ed in Egitto ed alli Samaritani: e che andassi in altra città quando in una non ero ricevuto. Da poi, che farei più in Italia? Predicar sospetto, e predicar Cristo mascherato in gergo; e molte volte bisogna bestemmiarlo per soddisfar alla superstizione del mondo; nè manco scrivendo potrò dare in luce cosa alcuna. Per questi ed altri rispetti eleggo partirmi, e prontamente; che veggo che procedono in modo, da pensar che vorrebbero infine farmi rinnegar Cristo o ammazzarmi. Credo se Paolo fosse nel mio caso non piglierebbe altro partito.... Ho inteso che il Farnese dice che son chiamato perchè ho predicato eresie e cose scandalose. Il Teatino, Puccio9 ed altri che io non voglio nominare, dalli avvisi che ho avuti, parlano in modo, che se io avessi crocifisso Cristo, non so se si farebbe tanto rumore. Io son tale qual sa V. S., e la dottrina si può sapere da chi mi ha udito: mai predicai più riservato e con modestia che quest’anno, e già senza udirmi mi hanno pubblicato per un eretico. Ho piacere che da me incomincino a riformare la Chiesa. Temono infino un frate con l’abito: onde, udendo tanta commozione contro di me, penso sia bene cedere a tanto impeto. Dall’altra parte pensate se mi è aspro per tutti li rispetti che sapete. Considerate se sento repugnanza a lasciar tutto, e a pensare che si dirà. Cristo ha permesso e voluto ch’essi mi perseguitino così, a qualche buon fine. Mi sarebbe stato sopra modo gratissimo parlarvi, ed avere il vostro giudizio e di monsignor Polo, o una lettera loro. Pregate il Signore per me. Ho animo servirgli più che mai in la sua grazia.
- «Firenze, 22 agosto 1542»10.
Allora fu da Caterina Cibo duchessa di Camerino, colla quale pura teneva usata; e varcati gli Appennini, a Ferrara visitò la duchessa Renata, discepola e protettrice di Calvino, che lo munì di commendatizie per Ginevra. Erasi presi a compagni fra Ginepro, frà Francesco e Mariano da Quinzano frate laico, che sapea di francese e tedesco per essere stato militare; ed era sì caritatevole, che una volta, più non avendo altro da poter dare, al mendicante disse: — Non mi resta che questo mantello, e neppur esso è mio, sicchè non posso dartelo. Ma se tu me lo togli, io non mi opporrò». E sfibbiatolo, lasciò che il pitocco se lo pigliasse.
L’Ochino diede intendere a frà Mariano che zelo di Dio lo traesse a predicare fra gli eretici; e per entrare nel loro paese bisognasse deporre l’abito. Così va a Mantova, poi ad Aosta, e dice all’Italia un addio, che il Beverini stemperò in suo prolisso latino. Tosto che frà Mariano s’accorse della frode, procurato invano dissuaderlo, staccossene, e ritornò col sigillo della religione, consegnatogli dal desertore.
Nella prefazione alle Prediche di Bernardino Ochino da Siena, novellamente ristampate et con grande diligentia rivedute e corrette, senza anno e luogo11, l’Ochino ripete quel che disse al magistrato della sua patria. — Quando avessi possuto in Italia predicare Cristo, se non nudo siccome ce ’l donò il Padre e si dovrebbe, almanco vestito e velato come già in parte mi sforzava di fare a buon fine per non offendere i superstiziosi, non mi sarei partito. Ma ero venuto a termini tali, ch’et mi bisognava, stando in Italia, tacere, anzi mostrarmi inimico dell'evangelio o morire. Ed io non volendo negar Cristo, e non avendo speziale rivelazione nè particolar spirito d’andare volontariamente alla morte, per non tentare Dio elessi partirmi, siccome m’ha insegnato Cristo e con la dottrina e con l’esempio, il che fece anche Paolo ed altri santi. Quando verrà l’ora mia, Dio mi saprà trovare pertutto. So ben che, se il pio, santo e prudente considera quello che ho lassato in Italia, a quante calunnie mi sono esposto, e dove sono andato in questa ultima età, sarà certo che il mio partirmi non nacque da umana e carnai prudenza, nè anche da sensualità, siccome spero in Cristo che la mia vita dimostrerà.... Da poi adunque, Italia mia, che con la viva voce non posso più predicarti, mi sforzerò scrivere, ed in lingua volgare, acciò sia più comune, e penserò che Cristo, abbia cosi voluto acciò ch’io non abbi altro rispetto che alla verità».
Come l’Ochino arrivò a Ginevra, Calvino ne esultò, e scriveva a Melantone: — Abbiamo qui frà Bernardino, quel famoso, qui suo discessu non parum Italiam commovit». Subito si indissero preghiere per lui in tutta Italia; fra’ Cappuccini si prese gran cura di estirpar ogni seme che avesse potuto lasciare, e molti che se ne conobbero infetti, abjurarono. Frà Girolamo di Melfi, valoroso predicatore, corse dietro all’Ochino, ma non guari dopo periva in un incendio. Frà Bartolomeo da Cuneo fu incarcerato dal vescovo, e persistendo nell’eresie, fu condannato a morte. Frà Francesco di Calabria, vicario della provincia milanese, si purgò con penitenza rigorosissima.
Il papa, irritato anche da una lettera dell’Ochino, voleva sopprimere i Cappuccini, quasi con lui aderissero e n’avessero bevuto gli errori, ma ne fu dissuaso da ragioni, sopra le quali gli storici di quella religione tessono pompose dicerie. Claudio Tolomei nobile senese, appena seppe apostatato l’Ochino, gli diresse da Roma, il 20 ottobre 1542, una lettera, che s’ha a stampa, donde appare quanto senso avesse fatto quel passo tra un popolo che l’ammirava e stimava. Esposte le ragioni di perdurare nella Chiesa, dove unicamente è la verità, lo pregava almeno a tenersi tranquillo e non inveire contro la Chiesa cattolica.
— Ritornando alli di passati di villa in Roma, mi fu subito detto una nuova, la quale non solamente mi parve nuova, ma stolta, incredibile e spaventosa. Mi fu detto che voi, non so con quale istrano consiglio, siete passato dal campo de’ Cattolici agli alloggiamenti de’ Luterani, consecrandovi a quella setta eretica e scellerata. Tutto subito mi raccapricciai, e, come si dice, mi feci il segno della croce. Di poi, essendomi da quattro, da sei, e finalmente da ciascuno confermato il medesimo, fui costretto a mio malgrado a crederlo, parendomi aver udito assai più stravagante nuova, che se mi fosse stato detto che le colombe si convertissero in serpenti, o le caprette diventassero pantere. Ma pensando poi come Lucifero bellissimo angelo divenne diavolo, cominciai ad avvedermi che agevolmente potevano avvenire queste orribili trasformazioni; onde molti giorni sono stato in dubbio s’io dovevo scrivervi, oppur s’egli era meglio il tacere, ristringendo intra me stesso il dolore ch’io ho sentito e sento per questa vostra nuova e spaventevole mutazione; perciocchè da un lato mi pareva non poterci guadagnare scrivendo, poichè avete sì fisso il pensiero in questa nuova setta, e mostrato al mondo non solo con le parole, ma con l’opere ancora, il risoluto animo vostro; e più tosto temevo che voi col rispondermi non mi travagliaste la mente, ch’io sperassi di potervi ritirare indietro da questo viaggio che avete preso; perchè io so bene quanta sia la dottrina vostra, quali e quante sieno le fiamme della vostra eloquenza, le quali due cose agevolmente avrebbon potuto nella loro dolcezza invaghirmi, e invaghito in qualunque pericoloso luogo trasportarmi. Ma d’altra parte temeva tacendo di non essere poi costretto a far poco onorato giudizio di voi; che, non sapendo le vostre ragioni nè quale spirito vi abbia mosso a partirvi, io non saprei mai appresso molti che v’accusano, scusarvi abbastanza; e solo mi rimane un luogo volgare d’iscusazione, dicendo ch’io non posso credere che un frate Bernardino Ochino, mostratosi per uomo di molta prudenza, di bontà singolare, di somma religione, sia ora senza giusta cagione trapassato in una tale diversità di pensiero e di vita. La quale allegazione, sebbene forse a qualcuno parrà verosimile, nondimeno a me soddisfa poco, ed agli altri molto meno, parendo loro che l’innovar le cose stabilite nella religione, il disobbedire al suo superiore, il trapassar da’ cattolici agli eretici non sia cosa nè da prudente nè da religioso; e finalmente che il partirsi da questa santissima verità, la quale dai primi apostoli s’è di mano in mano insino ai nostri tempi conservata nella Chiesa romana; che il partirsene non sia lecito nè concesso in caso veruno; anzi si deve sopportare ogni pena per confessarla, per difenderla, laddove gli strazj si convertono in piacere, le carceri in libertà, i tormenti in gioja, la povertà in ricchezze, la morte in vera ed eterna vita, siccome già fecero tanti antichi martiri, i quali non si vollero mai discostare dagli articoli confessati dalla Chiesa cattolica, la quale è (come disse san Paolo) colonna e firmamento della verità. Quando dunque io sento che così si parla di voi, allora tutto mi conturbo, e mi attristo in tal guisa, che alla fine mi son risoluto scrivervene, pregandovi, s’egli è onesta preghiera, che mi rispondiate, e vi sforziate d’illuminarmi le tenebre di questa vostra non aspettata mutazione; perchè insino a tanto ch’io non ne ho altra luce, non posso se non credere che ella non abbia avuto la luce di Dio.
«Forse mi dirà qualcuno che voi vi siete partito d’Italia perchè vi siete stato perseguitato, e che in ciò avete imitato l’esempio di Cristo e di Paolo e d’alcuni altri santi, i quali, essendo perseguitati, si fuggirono dalle mani e dalle unghie de’ perseguitatori; e mi dirà che spesse volte gli accusati dal mondo sono iscusati da Dio, e i dispregiati dal mondo sono onorati da Dio. Ma io non so in prima come a ciascuno sia lecito il fuggirsene via contro i comandamenti e decreti del suo maggiore, al quale egli è sottoposto ed obbligato ad obbedire, siccome è intervenuto a voi; di poi non intendo qual sia stata questa persecuzione, nè qual sia questa accusazione, o qual disonore v’è stato fatto, onde vi fosse necessario il fuggire. Ben mi ricorda che in Italia eravate apprezzato, onorato, riverito, e quasi cosa divina adorato, e predicando voi il santo nome e la vera legge di Cristo, eravate con tanta divozione da tutta Italia ascoltato, che nè in voi maggior grazia, nè in lei miglior spirito si poteva desiderare. Nè per essere voi in tanto onore e riverenza nel mondo, eravate (come credo) in minor grazia di Dio; anzi in tanto maggiore, quanto maggior frutto facevate, ed ispiravate continuo amor di Dio nelle anime cristiane, siccome ancor fu il nostro primo padre e maestro san Francesco, il quale da’ popoli e da’ principi sommamente riverito, fu nondimeno cosi caro servo a Dio, ch’egli meritò d’esser segnato di quelle stimmate che soffrì il nostro signor Gesù Cristo in croce.
«Ma si dirà che nelle ultime vostre prediche alcune cose dette da voi furono avvertite, notate, riprese ed accusate, come piene di non sana nè cattolica dottrina. Che dirò io qui, se non che quella accusazione era giusta o ingiusta? Se ingiusta, di che temevate voi? perchè non piuttosto, chiamato, venivate a Roma, e qui dinanzi a questo giustissimo principe, il quale sommamente v’amava, avreste come oro nel fuoco raffinata quell’opinione che s’aveva della bontà e della virtù vostra? Ecco san Bernardino nato, pur nella vostra patria e dell’Ordine vostro, il quale accusato come idolatra, venne a Roma, e si purgò chiaramente; onde molto più venne gloriosa e lucente la santità della vita sua, e ne seguì maggior frutto nel popolo di Dio. Non poteva esser tanta la malignità dei vostri accusatori, che non fosse maggiore la forza della verità, sostenuta e difesa ancora da quel favore che era per voi, non pur in Roma, ma in tutta Italia.
«Ma se la loro accusazione era giusta, io non so quel che si possa dir qui, se non che, o per ignoranza o per malizia era sparsa da voi quella dottrina nel volgo; di che, per dire il vero, l’uno mi par malagevole, e l’altro quasi impossibile a credere. Ma sia stato pur o l’uno o l’altro. Se fu per ignoranza, grande obbligo avevate agli accusatori vostri, i quali accusandovi, erano cagione che voi doveste riconoscere il vero, e partendovi dalle tenebre dell’errore, potevate ridurvi nella luce della verità, la qual cosa non era altro che ridursi a Cristo, somma verità, fonte, principio ed origine -di tutti i veri; e se fu per malizia, reo pensiero è questo, nè so qual luogo da difendervi ci rimanga, quando che questo fine è biasimato nell’uomo, abbonito nel cristiano, condannato nel religioso, anatemizzato in colui che predica la parola di Dio: e crederei quasi che, chi si conduce a si reo effetto, già più non sia uomo, ma ch’egli siasi trasformato in demonio.
«Ben gli ricorderei che il pietosissimo Iddio non abbandona chiunque ricorre a lui, e che dolcissimi sono i frutti di quel santo sacramento della penitenza; onde non può scegliere la più vera via, nè pigliare il più vivo e saldo rimedio, che piangere come Pietro amaramente il peccato suo.
«Forse ancora mi si dirà che nè ignoranza è stato tutto ciò, nè malizia, ma una maggiore illuminazione nelle cose di Dio, e che Cristo v’ha aperte molte verità, delle quali insino a quel tempo gli piacque illustrar la mente di Paolo, e convertirlo dal giudaismo alla vera fede. Dunque Cristo insegnò o rivelò il contrario che ai suoi, ai successori degli apostoli, e insegnò loro la falsa dottrina? e cosi di somma verità si trasformò in istrana bugia? Dunque Clemente, Anacleto, Evaristo, Aniceto e quegli altri grandi spiriti di Dio furono ingannati, e insieme ingannarono altrui? Dunque Ignazio, nel cui cuore si trovò scritto il nome di Cristo, non ebbe da Gesù vera dottrina? Che dirò di tanti altri che successero di poi? Crederemo mai che Ireneo, Origene, Cipriano; crederemo che Atanasio, Didimo, Damasceno; crederemo che quei due gran lumi di Cappadocia, Gregorio e Basilio; crederemo che Ambrosio, Gerolamo, Agostino, Bernardo e tanti e tanti altri santissimi dottori della legge di Cristo abbiano tutti errato? e in luogo di mostrarci la luce ci abbiano inviluppati nelle bugie? Non può essere sano d’intelletto chi crede queste falsità, dicendoci massimamente Cristo, salvator nostro, che dove è il corpo quivi si congregano le aquile. Ma che più, Cristo adunque per molto tempo ha abbandonata la sua Chiesa, perchè, quando questa verità cattolica innanzi all’empio Lutero si credeva pertutto, se quel che si credeva non era vero, Cristo ci aveva abbandonati affatto: la qual cosa è orribile pur a pensare, dicendoci Gesù Cristo: Ecco ch’io sono con voi sino alla consumazione de’ secoli. Egli è necessario, credetemi, che in questo mare torbido e tempestoso delle varie opinioni ci sia una ferma stella, alla quale si riguardi, e la quale c’indirizzi al vero cammino della strada di Dio. Questa, siccome da molti santi e dotti uomini è stato mostrato, non è, nè può esser altro che la Chiesa romana, incominciata da Pietro, in cui Cristo prima fondò la sua Chiesa, e per continua successione de’ papi pervenuta intiera ai presenti tempi.
«Nè vi varrebbe contro ciò l’allegare luoghi della Scrittura, intesi ed esposti a vostro modo, perchè sempre (quanto a me s’appartiene) mi ricorderò di quel buono e fedele consiglio d’Origene Adamanzio il quale dice: Ogni volta che qualcuno vi mostra scritture canoniche contro quel che osserva ed usa la Chiesa, alla quale consente il popolo di Cristo, par che dica proprio, Ecco, in quelle cose è la parola della verità: ma noi non gli dobbiamo credere nè partirci dalla paterna ed ecclesiastica tradizione, nè ci si convien credere, se non come la Chiesa anticamente ci ha insegnato.
«Finalmente io dico che nissuno buono si partì mai dalla Chiesa cattolica, e nissuno che se ne partisse fu mai stimato buono; di che si possono tante vere ragioni allegare, che forse non è verità in dottrina alcuna, che sia di questo vero più vera. Onde, quanto più. in questa cosa ripenso, più mi trovo inviluppato nella difesa della vostra causa, e vorrei volontieri non v’amar tanto, per non sentire quel dolore ch’io sopporto ora, per cagione di questa vostra nuova calamità. Siami lecito con questo diverso, e forse non atto vocabolo,, temperare quello errore che nasce dalla volontà vostra.
«Ma poichè ancora in me vive quello amore, che già v’accesero le singolarissime virtù vostre, piacciavi almeno di darmi qualche consolazione col farmi sapere le ragioni del consiglio vostro: se non potessero levarmi il dispiacere affatto, potrebbono forse addolcirlo ed alleggerirmelo alquanto. Ben vi consiglierei che, se, come io credo,, vi siete partito d’Italia per salute della persona vostra, più timoroso forse che non bisognava, vi consiglierei, dico, che vi fermaste a questo segno dove or siete, ne trapassaste più innanzi; non predicaste, non iscriveste, non parlaste cose contrarie alla dottrina cattolica: anzi d’ogni cosa detta o fatta da voi, vi rimetteste umilmente al giudizio della Chiesa romana: perchè, facendo come vi dico, sarà solo ripreso in voi un timore nato da non troppo consiglio. Ma se vi governate altrimenti, coll’inasprir le cose ogni giorno, allora sarete d’una pertinace ostinazione e d’una ostinata eresia condannato. Nel primo caso standovi quieto ed umile, si solleverà tutta Italia nel favor vostro, vi desidereranno, vi chiameranno, pregheranno. E per voi, e con molto loro contento v’impetreranno ogni grazia. Ma seguendo voi il secondo, si spegneranno in tutti quelle reliquie d’amore che ancora in molti cuori si mantengono calde, e in loro luogo v’entreranno l’odio e lo sdegno e l’ira contro di voi. Io certo son ridotto a tale, che dove prima, come sapete, vi pregai molte volte che pregaste Iddio per me, al presente, conoscendo il contrario bisogno, non fo altro che pregare Iddio per voi, ed ora di nuovo umilmente lo prego che gli piaccia d’illuminarvi ed ajutarvi».
Il cardinale Sadoleto al cardinale Farnese, scriveva:
— Io non so se si vede e si conosce la gran piaga che ha fatto fra Bernardino alle cose della religione e della santa sede: la qual piaga è per allargarsi ogni di più e farsi grande: e credo che a medicarla, o almeno ad ostare ch’ella vada tanto avanti, io non sarò inutile medico».
Il cardinale Caraffa, che poi fu papa, deplorava quell’apostasia colle parole onde la Scrittura deplora la caduta dell’angelo Lucifero12.
— Ancor ci suonano nelle orecchie quelle tue splendidissime prediche, dei beni della continenza, della devozione alle cose sacre, dell’osservar i digiuni, de’ panegirici di santi, delle lodi di monaci, dell’onor della povertà: ancora ci stai davanti agli occhi co’ piedi scalzi, mal in arnese, mal acconcio; ancora hai freddo, hai fame, hai sete, sei nudo: ed or tra cibi e bevande, dilicature e letti fra molli coltri, in vulgari taverne, fra beoni, fra incestuosi, fra bestemmiatori, svergognato apostata soffri d’esser veduto? Dove son quelle tue magnifiche voci del disprezzo del mondo, della beatitudine delle persecuzioni, della costanza nelle cose avverse? Dove le acutissime tue invettive contro la cupidigia dei beni, la vanità delle ambizioni, le false insanie? Tutto è confuso, tutto disfatto. Dove tu stesso, che predicavi di non rubare e rubi, di non adulterare e adulteri? tu maestro distruggi tutta l’opera che dianzi insegnavi. Chi darà agli occhi miei una fonte di lacrime per pianger giorno e notte un bastone della Chiesa spezzato, un maestro di popoli accecato, un pastore mutato in lupo? Che hai tu a vedere colle barbare genti? Che colla straniera nutrice, che colla matrigna, che colla meretrice la quale uccise il proprio figlio, e cerca separare il figlio vivente dalla vera madre? Riconosci il seno che ti nutriva, la voce di quella che piange, e grida, Torna, diletto mio, come la capra e il cerbiatto sul monte degli aromi. Sarà mite per te la verga del sommo pastore; troverai un padre indulgente, qualor ti mostri figlio ravveduto. Ti commuovano il coro de’ santi, le preci de’ fratelli tuoi, le lacrime de’ figli; non deludere, non vilipendere quelli per cui Cristo è morto... Te non perseguita quella che odia il peccato non il peccatore, che a tutti porge le mamme, che a nessuno chiude il grembo. La Chiesa non può perseguitare Cristo in te, che da Cristo ti scostasti: non ti segua l’ambizione tua, non la tua iniquità, e non avrai alcuno avverso, non alcuno persecutore; sia una sola fede, e sarà una la pace: sia una confession sola nella Chiesa, e una la ragione dell’amicizia. Via i vitelli d’oro; via il culto sulle alture; non vi siano Roboamo e Geroboamo, Gerusalemme e Samaria; sia un solo ovile e un solo pastore».
Altri ancora scrissero all’Ochino, e fra essi l’inevitabile Muzio13, che essendo secolare, assaliva i dissidenti con maggior ferocia, come sogliono i volontarj negli eserciti regolari, senza ricordare che l’odio contro l’orrore dovrebbe ancora essere carità, e che l’indignazione delle anime cristiane è lontana sì dalla viltà che assolve il delitto, come dalla viltà che lo insulta. Al Muzio l’Ochino rispose colla lettera, che quasi intera produciamo.
— Bernardino Ochino senese a Muzio Justinopolitano S. e P. dove rende la ragione della partita sua d’Italia.
«Essendo giovinetto, ero in quest’inganno il quale ancora regna in quelli che sono sotto l’impio regno d’Anticristo, che pensava avessimo a salvarci per le nostre opere proprie, e che potessimo e dovessimo con digiuni, orazioni, astinenze, vigilie e altre simili opere satisfare alli peccati e acquistarci il paradiso, concorrendo però la grazia di Dio.
«Avendo adunque desiderio di salvarmi, andai considerando che vita dovessi tenere, cercando che le religioni umane fussero sante, massime per essere approvate dalla Chiesa romana, la quale pensavo, che non potesse errare. Parendomi che la vita de’ frati di San Francesco, nominati dell’Osservanza, fosse la più aspra, austera e rigida, però la più perfetta e a quella di Cristo più conforme, entrai in fra di loro, e benchè io non vi trovassi quello che m’ero immaginato, niente di meno non mi si mostrando per allora vita migliore, secondo il mio cieco giudizio stetti così in fin a tanto che incominciarono apparire al mondo i frati Cappuccini, e visto l’asprezza della vita loro, con repugnanza non piccola della mia sensualità e carnai prudenza presi l’abito loro e credendo d’aver trovato quello che cercavo, mi ricordo che dissi a Cristo: — Signore se ora non mi salvo, non so che farmi più. — Vedi se ero empio fariseo. Posso con Paolo dire (Galat. I) — Io profittavo nel giudaesimo, sopra molti di mia età troppo zelante delle paterne tradizioni e ammaestramenti. — Ma pochi giorni stetti con essi, che il Signore incominciò aprirmi gli occhi, e mi fece in fra l’altre vedere tre cose: la prima, che Cristo è quello che ha satisfatto per li suoi eletti e meritogli il paradiso, e che lui solo è la giustizia nostra; la seconda, che i voti delle umane religioni sono non solo invalidi ma empj, la terza, che la Chiesa romana, benchè di fuore resplenda agli occhi carnali, niente di meno è essa abominazione in cospetto di Dio. Or avendomi il Signore così mostrato chiaro, e avendo di ciò il testimonio delle Scritture sacre, immo e dello Spirito santo, facendo in me legge il suo offizio, caddi dalla cima della presunzione di me stesso, nel profondo della disperazione delle mie opere e forze, e vidi che, sotto spetro di bene, avevo sempre con Paolo perseguitato Cristo, la sua grazia e il suo evangelio, e che, quanto più con maggiore impetod’opere m’ero sforzato d’andare a Dio. tanto più m’ero allontanato. Però mi trovai in una gran confusione ma non restai lì, imperocchè Cristo mostrandomisi con la sua grazia, cadendo con Paolo dalla conlidenzia propria, respirai a Dio, e ponendo in esso le speranze mie, mi commessi in tutto al suo governo, poichè per me stesso ero sempre andato al contrario.
«E benchè varie cose mi venissino innanzi, niente di meno mi si mostrò alcun modo di vivere, nel quale potessi per allora più onorare Dio, che servirmi di quella maschera dell’abito, e di quella estrinseca e apparente santità di vita, in predicare la grazia, l’evangelio, Cristo e il suo gran benefizio. Questo dico, atteso e considerando quale e quanta era e è la superstizione d’Italia, e lo stato nel quale mi trovavo. E così incominciai a mostrare, che siamo salvi per Cristo. Vero è che vidi gli occhi d’Italia sì infermi, che, se avessi alla scoperta subito mostrato la gran luce di Cristo, non potendo tollerarla, l’avrei in modo tale offesa, che li Scribi e Farisei, i quali in essa regnano, mi arebbono ucciso. E giudicai esser bene, non così subito scoprirgli la gran luce dell’evangelio, ma a poco a poco per condescendere alla sua debile vista. Però contemperando le parole al suo lippo vedere, predicavo che, per grazia e per Cristo siamo salvi, che lui ha satisfatto per noi, e che egli ci acquistò il paradiso. Vero è che non scoprivo esplicatamente l’empietà del regno d’Anticristo, non dicevo, — Non ci sono altri meriti, satisfazioni, indulgenze che quelle di Cristo, nè altro purgatorio; — lasciavo simili illazioni farle a quelli che da Dio per grazia avevano vivo sentimento del gran benefizio di Cristo: non avrei ditto, — Voi sete sotto l’empio regno d’Anticristo, il quale fa residenza a Roma; i costumi della sua e vostra Chiesa sono corruttissimi, ma non manco la dottrina, le vostre religioni umane. Sono esse empietà, e non ci è altra vera religione che quella di Cristo; voi siete manifesti idolatri, e in pigliare i santi per vostri avvocati, offendete Dio, Cristo, la madre, è tutto il paradiso. — Non potevo esplicare simili verità, ma le tacevo aspettando che Cristo mi mostrasse quello che voleva fare di me. È ben vero che in secreto esplicai il vero a molti, delli quali alcuni che per tentarmi m’avevano domandato, ed altri per loro proprj interessi, manifestarono al papa e cardinali qual fusse la mia fede, mostrandosi contrarj di quello, che, già in camera parlando, avevano mostrato d’accettare per vero. Non mancarono anche persone le quali, mosse da invidia e si per la religione come per la predicazione si diedero intorno a dare il tratto alla stadera, con dire che predicavo eresie, e tanto con maggior veneno, quanto che in modo tale, che nessuno poteva puntarmi, nè pigliarmi in parola, e che, per il gran credito che avevo, avrei potuto un di fare qualche gran commozione in Italia con ogni minima occasione; massime perchè in fra i Cappuccini molti, e precipue i primi predicatori, aderivano alla mia opinione, e di continuo moltiplicavano quelli eh essi chiamano eretici perchè credono veramente in Cristo.
«Or ben sai che Anticristo con i suoi primi membri, temendo con Erode di non perdere il regno, e sapendo che quello di Cristo mina il loro, come quello che gli è contrariissimo, con Caifas conclusero che io morissi, e furono eletti sei cardinali e deputati a spegnere ogni lume, che più scoprisse le loro ribalde latroncellerie. Or con furia mirabile fui citato da Anticristo, e comandato che subito andassi alla sua presenza: fecero anco saper per tutto, che io era citato per eretico, sì come essi dicevano.
«Trovandomi in quel caso, consigliandomi con Cristo e con li pii amici, dissi in fra me stesso: — Tu sai che costui, il qual ti chiama, è Anticristo, il quale non sei tenuto obbedire. Costui ti perseguita a morte perchè predichi Cristo, la grazia, l’evangelio e quelle cose le quali, con esaltare il Figliuolo di Dio, distruggono il suo regno: però questa è una impresa a essi di stato. Puoi dunque esser certo che egli ti torrà la vita, si come ne hai avvisi e certezze.
«Un giorno più che fossi andato avanti, ero preso da dodici, i quali, la vigilia di san Bartolomeo, a cavallo circundonno il monasterio de’ Cappuccini fuor di Siena per pigliarmi, sì come pubblico; e non mi trovando corsero verso Firenze a fare il simile. Dicevo a me stesso. — Tu vai a morire scientemente volontariamente senza speranza di frutto, immo con scandalo de’ pii; tu vai a tentare Dio esponendoti alla morte senza particolare rivelazione, o spirito: tu sei micidial di te stesso: tu puoi e debbi con Paolo e con gli altri santi, immo con Cristo fuggire, sì come con l’esempio e con le parole ti fia insegnato fare in simil casi, dicendo, Se vi perseguitano in una città, fuggite in un’altra. Tu in obbedirgli con andare ad una certa morte, onori e approvi supremamente la sua autorità; con disonore sommo di Dio, tu mostri a tutto il mondo di averlo per vero e legittimo vicario di Cristo in terra, sapendo certo che egli è Anticristo; però dai gran scandalo al mondo con ingiuria di Dio. Cristo s’è servilo di te in fino a ora con questa maschera dell’abito e vita, acciocchè con minor sospizione della superstiziosa Italia potessi predicare la grazia, l’evangelio, il gran benefizio di Cristo: ora Dio si vuole servire di te in altro modo; vuole che alla scoperta scriva la verità, senza alcun rispetto umano, il che, perchè non potresti fare stando in Italia, però Dio ti ha condotto in questa necessità.
«Dipoi non potevo più tacere, vedendo così impiamente sotto spezie di pietà ogni di di nuovo crocifiggere Cristo: era necessario che io parlassi, si come sanno quelli che più familiarmente praticavano meco, e che io dannassi non solo i costumi, ma molto più l’empia dottrina del regno d’Anticristo, nè potevo vivere in fra quell’empie e diaboliche superstizioni, ipocrisie, idolatrie, inganni o tradimenti di anime. Ben sai che al partirmi repugnava il senso e la carnale prudenza, secondo la quale mi era difficile lasciare Italia con parenti e amici, gran credito, reputazione e nome; e scientemente espormi alle calunnie e infamie del cieco mondo, immo di tanti Farisei, i quali per invidia erano sì pieni di veneno che crepavano. Vedevo la bella occasione che avrebbono da sfogarsi. Mi suadeva la prudenza umana a più presto morire che vivere così infame, ma lo spirito rispondeva, che è somma gloria del cristiano vivere per Cristo e con Cristo, infame al mondo. M’adduceva anco lo scandalo, che ne piglierebbeno molti, ma vidi che era de’ Farisei, del quale, secondo Cristo, non dobbiamo curarci. Cristo anco fu e è scandalo al mondo, e quando gli empj per la sua morte sommamente si scandalezzarono, i pii supremamente s’edificarono. Se anco andando a Roma m’avessero morto, i Farisei sarebbono restati di me scandalezzati. Però il loro scandalo non poteva evitarsi. Ora non so qual persona sarà che abbi spirito, immo giudizio, che non veda che io feci ottimamente a partirmi, non potendo più col mio stare in Italia servirmi dell’abito, predicare, giovare alli miei fratelli in Cristo, immo nè vivere; e partendomi potendo scrivere e aprire la verità con speranza di frutto. E chi è quello di sano giudizio che il tal caso non potendo più servire a Cristo, dal regno d’Anticristo non si fosse partito? Obbediresti tu ad Anticristo s’ei ti chiamasse per torti la vita, potendo preservarti a onore di Dio, esaltazione del suo regno e confusione, vergogna, morte, annichilazione di quella fetente e sporca meretrice d’Anticristo? La quale benchè dentro sia piena di sporcizie, immo essa abominazione in cospetto di Dio (2 Thess. 2), nientedimeno è chiamata dal cieco vulgo Chiesa romana, solo perchè lisciata di colori mondani resplende negli occhi degli uomini carnali.
«So che dirai, — Quando così fusse, avresti ragione, ma non è vero che siamo giustificati per grazia e fede di Cristo, e non per l’opere nostre, nè voti delle religioni umane sieno invalidi e empj, nè anco che quella che i è chiamata Ghiesa romana sia la Babilonia d’Anticristo; che, quando così fosse, avresti in tal caso fatto ottimamente a partirti. — Or io ho chiarito tutto: nelli primi venti sermoni che già sono in luce, ho apertamente mostrata la giustificazione per Cristo; nelli altri venti che anco sono in luce, ho fatto vedere chiaro come i voti delle religioni umane e primi memori d’Anticristo sono invalidi e empj, e che non ci è altra vera religione al mondo che quella di Cristo, e negli altri seguenti che ora s’imprimono si vedrà come quella che avete per Chiesa di Cristo è la vera Babilonia, nella quale colui che tiene il principato è esso Anticristo, e voi l’avete per vicario di Cristo. Però lascia stare di impugnare più me e la mia partita giustamente fatta, e se puoi impugna la dottrina, che sono per difenderla con la grazia di Dio. Sì è potente la verità che, se ben si unissero tutti li diavoli a scrivermi contra, sarebbe forza che restassero confusi; ma siete ben voi ciechi, stupidi, insensati e stolti, da poi che dove i santi ebbero lume di Anticristo innanzi venisse e lo conobbero per tale, voi nè esso nè i suoi membri vedete, avendoli inanzi agli occhi e nel tempo nel quale si dimostra contrario a Cristo con somma impietà. E ben che Cristo abbi incominciato a scoprirlo per Anticristo, e dato di ciò lume a tanti, e singolarmente ai più nobili spiriti, i miseri e empj Farisei non solo non l’hanno in orrore essendo essa abominazione, immo l’adorano per Dio in terra e l’hanno esaltato sopra Dio siccome predisse Paolo. Sono innumerabili gli errori i quali avete imparati nell’empia scuola d’Anticristo per essere la sua dottrina impura, falsa, diabolica, nè avete altro scudo per difendervi se non col dire — Così ci hanno insegnato i nostri parenti e prelati con i membri d’Anticristo —; il che se basta per scusarvi in cospetto di Dio, lo lascio giudicare a voi. Lascia, lascia dunque le tenebre d’Egitto, partiti dall’intollerabil servitù e tirannide di Faraone; non ti lasciare ingannare dall’estrinseco splendore del mondano regno d’Anticristo; risguarda all’umil Cristo in su la croce, e pregalo che’l ti apra gli occhi e ti dia lume del vero, il che quando per sua grazia ti concedesse, non danneresti, immo approveresti il mio essermi in tal caso partito.
«Non potendo adunque giustamente dannare la mia mutazione se prima non gitti per terra l’invincibile e inespugnabile verità che si contiene nelli suoi sermoncelli, vedili un poco, e con animo puro, sincero e candido, che se resterai preso dal vero. Che temi al leggerli, se come buon cristiano hai nel cuore il testimonio dello Spirito santo e sei in verità? La quale, quanto è più discussa, resplende, e quanto più se gli approssima il falso suo contrario, tanto più si dimostra chiara. Sei forse di sì poco giudizio che, essendo come pensi in luce e chiarezza di fede, in ogni modo temi di non essere ingannato? Non è sì piccolo il lume della verità che ella non si possa facilmente discernere: ma se sei in tenebre sì come dimostri, dovresti tanto più cercare e non fuggire la luce della verità, quanto n’hai più bisogno, acciocchè insieme con gli altri fratelli eletti di Cristo e figliuoli di Dio rendiamo al nostro ottimo e divin Padre ogni laude, onore e gloria, per Gesù Cristo signore nostro.
- «Da Ginevra, 7 aprile MDXLIII».
Un’altra lettera l’Ochino inviò stampata ai signori della balia della sua città natale, in cui non si propone di far uria professione intiera e l’apologia della sua fede, ma s’arresta al canone della giustificazione, «dalla viva fede del quale pende tutta la salute della vera Chiesa di Cristo, e la mina dei regno d’Anticristo. Però per esso sono perseguitato e questo è ch’io credo, e confesso con Paolo (Rom. 8) che, essendo gli uomini, per il peccato del primo parente, figliuoli dell’ira e della dannazione morti e impotenti a rilevarsi e a reconciliarsi con Dio, Cristo giustizia nostra, mandato dal suo eterno Padre, con attribuirsi li peccati delli suoi eletti, e offerirsi in croce per essi, ha satisfatto pienissimamente, e in tutto placato l’ira di Dio; immo adottati per figli del suo eterno Padre e fatti suoi eredi, ricchi di tutti li divini tesori e grazie; e tutto per Cristo, per mera grazia e misericordia di Dio, senza che ’l meritassimo o facessimo alcuna opera, la quale in tutto o in parte fosse di tal grazia degna. Talchè, non perchè gli eletti aprano gli occhi e conoscono Dio, vanno a esso e operano in gloria sua opere sante, o si fanno forza di operare, però Dio gli accetta a braccia e gli ha eletti: ma perchè per mera grazia gli ha eletti in Cristo. Però li chiama internamente e tira a sè, n’apre gli occhi, gli dà lume, spirito e grazia, e li fa fare opere buone in gloria sua, in modo tale che, benchè l’empio sia libero in fare e non far molte opere umane e basse, niente di meno, infinchè per Cristo non è rigenerato, essendo prigione e servo del peccato, non può operarne divine e alte per non essere in sua libertà d’operare nè in tutto, nè in parte in gloria di Dio. E questo perchè non è in alcun modo in sua potestà l’avere spirito, lume sopranaturale, fede, speranza e carità, e l’altre virtù necessarie per operare a gloria di Dio. Immo l’empio, mentre che è empio, se ben facesse tutto quello potesse, non solo non amerebbe Iddio con tutto il cuore, e il prossimo infino alli inimici come se medesimo, ma non osserverebbe straccio della divina legge, nei modo che è obbligato. È ben vero che farebbe delle opere estrinseche, ma non a onore di Dio, sì come è tenuto; però non satisfarebbe a un minimo suo peccato o obbligo, nè meriterebbe appresso a Dio benefizio alcuno, nè si disporrebbe in modo alcuno alla divina grazia, immo in tutte quell’opere sue peccherebbe non per farle ma per non farle a gloria di Dio si come è obbligato. Nè per questo debbe l’empio mancare d’andare a udire la parola di Dio, di fare elemosine, orazioni e simili opere. Imperocchè in non farle peccarebbe molto più. Dio vuole che si passi per simili mezzi, e che se gli obbedisca nel modo possiamo riconoscere ogni grazia in tutto da Dio per Cristo e in nessun modo da noi.
«Ma dipoi che siamo liberi da Cristo dal peccato, e per fede rigenerati, se bene restano in noi le prave concupiscenze a esercizio di virtù, nientedimeno abbiamo un cuor nuovo, e tale che non gli consentiamo nè obbediamo, anzi gli repugniamo. Allora essendo veramente liberi, liberamente con spirito operiamo opere grate e accette a Dio, secondo le quali ci renderà, non perchè in sè siano degne di essere premiate, essendo anco quelle de’ giusti sempre imperfette, e non tali quali ci sarebbe debito e si converrebbe all’infinita bontà di Dio, benchè tali difetti non si siano imputati per essere noi già membri di Cristo. Ma i giusti saranno premiati secondo l’opere loro, in quanto che quelli che avranno fatto migliori opere, avranno tanto migliore lume della bontà di Dio, e con maggior fede abbracciato per suoi li tesori di Cristo; però se ne saranno insignoriti, li goderanno con maggior sentimento spirituale, e saranno più felici, ma non già per la degnità d’esse opere di Cristo, e per mera bontà e misericordia di Dio. Però, benchè possiamo satisfare alcuna volta ai debiti e obblighi che abbiamo con gli uomini, e appresso d’essi meritare qualche grazia, nientedimeno non possono in modo alcuno satisfare a uno de’ minimi obblighi e debiti, che abbiamo con Dio, nè meritare appresso a lui una minima grazia; immo di continuo crescono gli obblighi nostri; e rimosso Cristo, tutte l’opere nostre, passate alle bilancie della divina giustizia, sono degne di punizione.
«È pure Vero questo che, se avessimo a gloriarci dell’opere, io potrei gloriarmi sopra molti altri, imperocchè come Paolo facevo profitto nel mio giudaismo sopra molti miei coetanei: ma ora col medesimo Paolo, reputo come fango tutte l’opere e giustizie mie, nè cerco se non di possedere Cristo con fede per mio, ed essere trovato in esso ricco, non delle mie giustizie e opere, ma delle sue.
«In cospetto di Dio adunque non vedo altre satisfazioni che quelle di Cristo con fede per mio, ed essere trovato in esso ricco, non delle mie giustizie e opere, ma delle sue.
«In cospetto di Dio adunque non vedo altre satisfazioni che quelle di Cristo, nè altre indulgenze se non quelle che per lui abbiamo, e solamente in Cristo vedo esser purgati li peccati de’ suoi eletti e pienamente. E se Dio alcuna volta li castiga, non è per satisfarsi nè purgarli de’ peccati, o della pena ad essi debita, essendosi tutto adempito a sufficienza e superabbondanza in Cristo, ma per svegliarli, umiliarli, perseverarli e esercitarli in tutte le virtù, con farli ogni dì più perfetti. Non vedo anco altri, tesori spirituali e meriti, che quelli di Cristo, nè altre grazie e benedizioni e giustizie; e è empissima cosa patire e operare con intento di satisfare in cospetto di Dio a peccati o agli obblighi che abbiamo con lui, o con animo di meritare appresso a Dio. Perchè, è un dire, che Cristo non ha satisfatto in tutto, nè meritatoci ogni tesoro e grazia, ma che in parte siamo salvi per noi, con diminuire la gloria di Cristo, la quale per esso si debbe tutta dare a Dio, e non darne parte all’uomo, al quale non si conviene se non obbrobrio, confusione, vergogna e vitupero.
«Credo anco e confesso che al mondo non fu mai nè sarà altra vera, pia e santa religione se non quella di Cristo, la quale consiste in credere vivamente che siamo in tutto purgati da peccati per Cristo, e per lui reconciliati col Padre, giustificati, santificati, adottati per figliuoli di Dio, e fatti suoi ricchissimi e felicissimi eredi; e colui che questo crede con maggior fede, è meglio cristiano e religioso; tutte l’altre religioni nelle quali gli uomini cercano, credono e pensano di giustificarsi, purgarsi e arricchirsi da sè in tutto o in parte, sono empie, e tanto più quanto che più patono o si affaticono a questo fine con sotterrare il gran benefìzio di Cristo. Nè per questo, danno ritraggo dalle buone opere, immo nessuna cosa è che tanto ecciti e serva a bene operare sì come questa viva fede, che siamo salvi in tutto per Cristo, per mera grazia e bontà di Dio, e in nissun modo per nobiltà, dignità, bontà, o preziosità d’opere nostre.
«Aggiungo anco di più, che è impossibile farsi da noi un’opera veramente buona, grata e accetta a Dio se non abbiamo questa viva fede; imperocchè, mentre che l’uomo pensa almanco in parte potere satisfare e meritare da sè, non opera mai in tutto a gloria di Dio, e questo perchè, non sentendo il gran beneficio di Cristo d’essere salvo in tutto solamente per lui, resta sempre in amor proprio e confidenza di sè, però opera per interessi suoi.
«Ma quando in Cristo sente tanta bontà di Dio, che solamente per Cristo e per grazia crede esser salvo, allora non avendo più causa d’operare sè, e scoprendosegli supremamente la gran carità di Dio in Cristo, è sforzato a operare non da servo per timor di pena, o speranza di premio, ma da figlio per impeto di spirito e d’amore a gloria di Dio; e queste sono l’opere che gli sono grate. Credo anco e confesso essere una sola universale santa e cattolica Chiesa di Cristo, cioè la congregazione degli eletti e di quelli che credono in tutto essere giustificati per Cristo. Questo è quello che non può errare, in cose che importino alla salute, stante in essi lo Spirito santo. E se gli eletti qualche volta cascano, non però periscono, imperocchè Cristo è con essi sempre, e sarà in fin alla consumazione del secolo.
«Credo anco e confesso, che tutti gli eletti si salvino per Cristo e per mera grazia, e non per alcuna opera loro, nè in tutto, nè in parte; e credere così è l’unica fede, per la quale i veri e buoni cristiani sono differenti da tutte l’altre false fedi, religioni e sètte. Immo in questa fede consiste tutta la somma della cristianità. E di più credo e confesso, questo essere l’unico e vero evangelio di Dio, promesso per i profeti nel vecchio Testamento, predicato da Cristo, da Paolo, dagli apostoli e da santi. Di questa verità ne sono piene le Scritture sacre, e in particolari l’epistole di Paolo alli Romani e Galati. Questa è quell’evangelica verità, per la quale Cristo fu crocifisso, lapidato Stefano, e i profeti di Dio, gli apostoli e santi perseguitati, incarcerati, flagellati e morti. Per questa verità sono fuor d’Italia perseguitato a morte, e dagli anticristiani avuto per escomunicato, ma la causa è sì giusta che mi scusa per se stessa. Se erro in questo articolo, hanno anco errato dal principio del mondo infin a ora tutti quelli che in verità sono stati santi, precipue gli apostoli e singolarmente Paolo, immo e Cristo, e meritano tutti d’essere escomunicati, reprovati, e maledetti. Immo se in questo erro, si dovrebbono abbruciar gli evangelj, l’epistole di Paolo, e tutte le scritture sacre, imperocchè l’evangelo sarebbe un inganno, falsa la fede di Cristo, empia la religione, il che è impossibile. Le scritture sacre rendono testimonio di questa verità. Studiate con umiliarvi di cuore a Dio, e vi darà lume del vero. Ho incominciato e con la divina grazia seguirò di dare in luce sommariamente e vulgarmente quelle cose, che sono necessarie al cristiano, acciò siate inescusabili appresso a Dio. Direte, — Le tue opere sono proibite leggersi. — Rispondo, che questo è evidente segno ch’elle danno lume del vero, e essi non vorrebbono essere scoperti. In quelli miei sermonelli non v’è in sostanza altro che le proprie sentenze e parole delle scritture sacre. Però in proibirle, proibiscono ai popoli la parola di, Dio. Vedete se sono empj, e se se gli debba obbedire, e dall’altra parte, nelle pubbliche scuole e per i pulpiti lasciano leggere e predicare profana, eretica, empia dottrina, purchè non tirino l’acqua da’ loro mulini.
«La luce dell’evangelio non è si piccola, che, se siete in essa, abbiate da temere che io v’inganni, immo è sì grande, che secondo Paolo, è ascosta solamente a quelli che periscono; e se siete in tenebre, dovete farvi beffe di chi vi proibisce il lume. Non amo sì poco la mia patria, che io volessi ingannarla, immo li miei, ine stesso e Cristo. Se anco fossi io solo in credere e confessare il vero evangelio, e voi non mi credessi, avereste qualche apparente scusa; ma non vedete, che la maggior parte de’ Cristiani hanno aperto gli occhi al vero? massime i nobili, pii e veramente dotti spiriti? E se in Italia, in Francia e nella Spagna potesse liberamente predicarsi l’evangelio sì come in Germania, quasi ognuno accetterebbe, sì è potente la verità.
«Ma con tutto che sieno proibiti li libri cristiani e il predicarsi la pura parola di Dio, e di più puniti crudelissimamente quelli che confessano, o si mostrano amici dell’evangelio, nientedimeno, quanto sono più perseguitati, esprobati, incarcerati, bruciati e morti, più crescono. Se vedeste il numero de’ Cristiani segreti, che sono in Italia, in Francia e nell’altre parti del mondo, vi stupireste. S’ella non fosse opera di Dio si dissolverebbe, siccome disse già Gamaliel; ma la va sempre crescendo.
«Forse potete dire che questa sia dottrina nuova? È quella de’ profeti, di Moisè, di Cristo, degli apostoli e di tutti i santi; quella che incominciò al principio del mondo, è durata infino ad ora, e durerà sempre. Vero è che per un tempo è stata sepolta, e in modo tale che, quando al li tempi nostri Cristo incominciò a dare di sè un poco di lume, si verificò quello che già predisse quando disse, Credi, che quando verrà il figlio dell’uomo, cioè a manifestarsi in spirilo, troverà fede in terra? Come un folgore e un baleno che viene da Oriente, subito apparisce in Occidente, immo illustra tutto, cosi fa adesso l’evangelio. Dottrina nuova sono l’umane e diaboliche invenzioni e tradizioni che si predicano nel regno d’Anticristo, sforzandosi non di cattivare la loro carnale prudenza e sensualità alla parola di Dio, ma di tirare con gli argani fuori d’ogni sesto ai loro propositi le scritture sacre, con corromperle e depravarle, e con servirsi del nome solo di Cristo, della sua Chiesa e religione, imporlo di nuovo su la croce.
«Forse che il credere che siamo salvi solamente per Cristo, per mera grazia e bontà di Dio, è dottrina sospetta? Immo è sicurissima, talchè se bene non avesse il testimonio delle scritture sacre e dello Spirito santo, in ogni modo è sì chiara, che per se stessa si manifesta vera, santa e divina, perchè dà tutta la gloria a Dio, e all’uomo ignominia e confusione, e in queste due cose non si può nè eccedere, nè errare. Cristo, quando volle provare agli Ebrei, i quali calunniavano la sua dottrina, ch’ella era vera e santa e divina, lo dimostrò con questo mezzo, perchè ella dava tutta la gloria a Dio. Sospetta vi debbe essere la dottrina d’Anticristo, perchè esalta l’uomo con deprimere Cristo. L’omo non è altro che un empio e velenoso verme, e nella sua salute volle esser compagno di Cristo. Forse che non c’è stato predetto che Anticristo debba venire, e che il suo regno debba succedere all’imperio romano, sì come Paolo scrisse, che sarà uomo di peccato, figliuolo della perdizione, che sederà nel tempio di Dio, e si mostrerà al mondo come s’el fusse Dio? immo per questo si chiama Anticristo, perchè si metterà innanzi a Cristo, e si farà adorare in loco suo, estollendosi sopra Dio, e gli sarà contrario allora abbondando l’iniquità, essa abominazione starà nel loco santo.
«Ditemi, non abbiamo noi viste tutte le predette cose nella tirannide papistica? È stato anco predetto, non solo che l’opere loro saranno di Satana, ma che la dottrina loro sarà di demonj, e essi dicono che non possono errare. Paolo dice che l’uomo animale non intende le cose dello spirito; e loro, essendo carnalissimi e impiissimi, non solo presumono di volere giudicare, sindacare e dannare le cose divine e spirituali, anzi camminando alla cieca, vogliono che se li creda che non possono errare.
«È stato pur predetto che sarà allora tal tribulazione, che non fu mai la simile, e che sedurranno e inganneranno il mondo infin con segni, miracoli e prodigi mendaci e falsi; talchè, se quelli giorni non fossero abbreviati, ognuno si dannerebbe, infino agli eletti se fosse possibile; ma Dio abbrevierà per loro rispetto. È stato pur predetto e predicato, che la Chiesa debba reformarsi: non vi par forse che ne abbia bisogno non manco nella dottrina che ne’ costumi?
«Abbiamo anco incominciato a vedere verificarsi quello che già Paolo predisse, cioè che Cristo ucciderebbe Anticristo, non con le forze umane, ma con lo spirito della sua bocca, cioè con la sua parola, e che distruggerebbe e annichilarebbe il suo regno col mostrarsi in ispirito chiaro e illustre, e dar lume di sè alli suol eletti. Ditemi, si vede pur che già è incominciato a cadere il suo regno, E che sia il vero, dove è ora quel credito, quella reputazione, maestà, reverenzia, obbedienza, autorità, dominio, tirannide infin nelle coscienze, che i papi con ingannare il mondo, avevano ad un venticinque anni in là? Dov’è quella affluenza di popoli, i quali correvano a Roma dove sono tante loro rendite e entrate? Già il mondo si fa beffe delle loro indulgenze, giubilei, assoluzioni, benedizioni, censure e maledizioni; e se una scintilla sola da un sì poco tempo in qua ha dato tanto lume del vero, che credete faranno ora tante torcie accese? Al mondo non furono forse mai, dagli apostoli in qua, sì chiari spiriti, nè anco sì bene discusse le scritture sacre siccome ora; questa è opera di, Dio, il quale vuole sempre onore delle sue imprese.
«Vincerà dunque, però col sangue de’ martiri, il qual si sparge di continuo in diverse parti del mondo e si verificherà quello che disse Cristo ch’el suo evangelio sarebbe predicato per tutto il mondo: allora verrà la fine. Non vedete che non adorano già più Anticristo se non certi uomini carnali per interessi proprj, e gente data in reprobamento? E se ’l popolo ebreo non accettando Cristo quando venne in carne, non fu escusato appresso a Dio per dire, come i nostri prelati dicono, che non è il messia ma un seduttore, e ch’essi non possono errare, gli abbiamo a credere? e non dobbiamo volere essere più savj di tutti gli altri? se la nostra sinagoga e chiesa l’ha repudiato, siamo obbligati a fare il simile anco noi? Non saranno anco scusati quelli che ora non accettano Cristo, il quale si mostra in ispirito, nè gli gioverà il dire, si come molti dicono. Noi vogliamo credere secondo che ci hanno insegnato i nostri parenti, e secondo che abbiamo trovato credere gli altri; la nostra chiesa e i nostri prelati non possono errare; così non vogliamo saperne più di loro. Immo tanto manco saranno escusati, quanto che ora Cristo si mostra con maggior chiarezza, e quanto, che ora sono, in diverse parti del mondo, tante chiese, tanti popoli e nobili spiriti, che hanno ricevuto l’evangelio; e quanto la chiesa d’Anticristo è più corrotta in dottrina e costumi che non fu mai la sinagoga degli Ebrei, è possibile che non vediate la loro falsa religione essere piena d’umane invenzioni, ipocrisie, superstizioni, idolatrie e abominazioni? 0 quanto saresti felice, e si sarebbe per te se ti purgassi, Siena mia, da tante ridicole farisiache fastidiose, perniziose, stolte e empie frenesie, di* quelli che mostrano d’essere li tuoi santi, e sono essa abominazione presso a Dio, e pigliassi la parola di Dio e il suo evangelio nel modo che lo predicò Cristo, gli apostoli e quelli i quali in verità l’hanno imitato! Non vuoi fare qualche dimostrazione verso Cristo, essendo dotata di tanti nobili spiriti? vuoi forse essere l’ultima a conoscere Cristo? Apri, apri ora mai gli occhi al vero, acciò che conoscendo il Figliuolo di Dio per ogni tua giustizia, sapienza, salute e pace, vivendo a Dio sempre felice, gli renda ogni laude, onore, e gloria per Gesù Cristo signor nostro. Amen»14. Frà Caterino15, fu de’ più vivi battaglieri di quel tempo, e smaniato di trovare eresie, tanto che denunziò alla facoltà parigina molte proporzioni ereticali fin nell’opera del cardinale De Vio Ientacula, hoc est proletarissima plurimarum notabilium sententiarum novi testamenti liberate expositio. A vicenda, quando si tratto di elegger vescovo il Caterino, Bartolomeo Spina, maestro del sacro palazzo, recò in mezzo cinquanta proposizioni, tolte dalle opere di lui, dandole come ereticali: ma egli se ne difese. Ciò ad indicare come allora fosse divulgata l’accusa di eresie16.
Pensate se risparmiò la pestilente dottrina di fra Bernardino Ochino. Narrando di sè, dice che, dopo il primo libro adversus impia ac valde pestifera M. Lutheri dogmata, tacui multis annis, cum jam scriberent plurimi in hæereticos Germaniæ, donec venerunt qui, suppresso nomine, libellos lutheranam doctrinam continentes, in vulgus sparserunt. Quo tempore fratrem B. Ochinum, impium illum apostatam, dudum Italiæ concionatorem, suis coloribus parvo libello depinxi, ut nosceretur crudelis hypocrita, et simplicium animarum mactator, et libellum composui quem noncupavi Speculum hæreticorum contra Bernardinum Ochinum, primo editmn Romæ 1542. Poi nel 1544 stampò in italiano la Riprovazione della dottrina di Bernardino Ochino e d’alcune conclusioni luterane. Egli stesso, il 5 gennajo del 1543, da Roma scriveva alla balía di Siena:
— Magnifico e a me molto onorando magistrato; Essendomi venuta alle mani un’epistola, che Bernardino Ochino mandò alle magnificenzie vostre e a tutta la città, la quale ha fatto stampare in Ginevra, e vedendo in quella un perfetto veneno che vi porge per uccidere l’anime vostre, io, mosso da persone religiose e dai zelo della fede, e dall’obbligo che tengo con la mia patria in cose spirituali per la mia professione, ho scritto un breve trattateli contro questa epistola, e contra la sua pestilente dottrina, e hollo diritto a voi e a tutta la città, dedicato all’arcivescovo, acciocchè, se ha Siena un figliuolo secondo la carne che li porge con fallaci blandizie il veneno, non gliene manchi un altro che con salutifere verità lo scopra, e faccila cauta, perchè ne va qui il vero stato della vita eterna. Ricordo a voi quello che si promesse nell’ultima riforma nel primo capitolo, cioè di attendere di conservar la città contra l’eresie. La qual cosa se farete, posso sperare che la misericordia di Dio venga sopra la città, e se non l'osservarete, vi annunzio travagli nel mondo, e di poi la dannazione eterna. E questo mi sia testimonio e scusa dinanzi a Dio, che per me non è mancato di predirvi questa verità. Il Signore ve ne liberi. Degneretevi di far leggere il trattatello con comodità vostra, e di conoscere il vero, che sarà facile a chi non si vorrà accecare lui stesso.
«Non mi accade altro se non ricordarvi la giustizia, e levar le passioni, e attendere in prima all’onor di Dio, e a placarlo con vera penitenza in tempi tanto travagliosi e pieni d’ira nell’Onnipotente».
Poi il 7 marzo 1544 di nuovo;
— Mando alle signorie vostre il libretto vulgare già impresso contro la pestilente dottrina di frate Bernardino Ochino, con molto desiderio che quelle, come sono obbligate, sien vigilanti contra questa spirituale e maligna peste, tanto più che contra la peste corporale, quanto di questa spirituale ne seguita la morte eterna. Prego il Signore che in questi miseri e infelici tempi vi scampi, e tutta la città dagli imminenti pericoli e travagli, il che farebbe per sua misericordia se si provedesse prima col temere Dio e rendergli il debito culto, e di poi con osservar la giustizia senza rispetto proprio e affezione di parti, che son cagione della ruina de’ regni, e de le città. Non mi occorre altro».
Nell’indice delle Carte Cerviniane dell’archivio di Firenze, filza xxviii, vedo registrata una lettera di Aonio Paleario, e un’altra della marchesa di Pescara che concernono l’Ochino: ma non si trovano più.
Bensì trovai nella Biblioteca Magliabechiana (Cl. xxxiv, num. 2) manoscritta la risposta latina di don Basilio de Lapis cistercense a un’epistola dell’Ochino. Oltre usar tutti i modi per toccargli il cuore e indurlo a non nuocere a tante pecorelle che lo aveano seguito nella verità, il frate viene a confutare direttamente la sua dottrina sul matrimonio de’ preti, sulla supremazia del pontefice, sul sangue di Cristo come unico espiatore, sul libero arbitrio, sul culto delle immagini, i digiuni, i giorni festivi; la distinzione fra sacerdoti e laici, la confessione.
Avverte bene esser pazzia il dire che tutte le costituzioni della Chiesa siano cattive, giacchè ogni società fa leggi per il proprio meglio, niuna ne fa apposta di cattive: qui poi gli autori di tali leggi sostennero il martirio. Finisce con una patetica esortazione. Ad pacis termìnum et Domini hereditatem pervenire noti potes, quando pacem Domini cum tuo furore corrumpis; quando et nos fila tui non a te, sed tu a nobis continuo recessisti, non unitatem conservasti, non verbum Domini tennisti; sed quid ultra? finem dabimus et Dominum rogabimus ut te ac nos.... dirigat in semitis suis et porrigat gressus nostros in viam pacis, et te ipsum nobiscum in unitale ecclesia et vinculo pacis convertat, et in sinu suo te recipiat atque conservet.
L’Ochino a Ginevra fondò la prima Chiesa italiana17 e vi pubblicò varie operette, fra cui Cento apologhi18, lavoro sì accannito, che dicea di vergognarsene perfino lo Sleidan, storico e panegirista della Riforma. Eppure è ancor più sozza una lunga sua lettera, che serbasi a Firenze nella Biblioteca Laurenziana, contro Paolo III, colle amplificazioni in uso, e col tono a cui oggi ci riavvezzano i masnadieri della stampa. Avendo quel papa proibito le opere di lui, esso l’investe, non perchè speri correggere un vecchio ottagenario, ma per mostrare al mondo ch’e’non è vero pontefice, bensì creatura del diavolo. E tira via leggendone la vita, sin da quando giovinetta avvelenò la propria madre, e riuscì a sottrarsi dal processo. Seguono stupri in ogni grado, e libidini su persone, distintamente nominate. Molti assassini gli attribuisce, dai castighi meritati sempre schermendosi, e poi facendo giustiziare o incarcerare o bandire i proprj complici. La sua elezione fu un traffico ontoso. Dappoi tutto andò per simonie, per corruzione dei cardinali, per vendita d’impieghi, di donne, di giustizia. Il governo di lui non potrebbe essere peggiore. Gli rinfaccia le colpe e la fine di Pier Luigi, e d’aver lasciata dipingere in una cappella papale il Giudizio di Michelangelo, cha appena staria in una bettola. Lo imputa sopratutto d’astrologia e di necromanzia, molto difondendosi sopra questo punto per mostrare come la ragione divina e l’umana vietino l’interporre i demonj alle operazioni nostre, siccome usava Paolo III. E per patti col demonioè egli riuscito papa; quindi non è eletto legittimamente; laonde si esortano i principi a deporlo19.
Eppure l’Ochino fu filosofo e dialettico non vulgare. Insegnava non potersi giungere al vero colla ragione, ma essere necessaria l’autorità divina; e poichè la sacra scrittura non basta se un lume infallibile non ajuti a interpretarla, ed egli aveva ripudiata l’autorità della Chiesa, fu costretto rifuggire al misticismo e all’immediata ispirazione. — La ragione naturale, non sanata per la fede (dic’egli) è frenetica e stolta. Sicchè puoi pensare come possa esser guida e regola delle cose soprannaturali, e come la sua erronea filosofia possa essere fondamento della teologia, e scala per salire ad essa. Se la ragione umana non fosse frenetica, benchè abbia poco lume delle cose create, pure se ne servirebbe, non solo in elevarsi alla cognizione di Dio, ma molto più in conoscere con Socrate, non solo che non sa, ma che neppure può alcuna cosa senza la divina grazia. Dove ora è si superba, che con deprimere, sotterrare e perseguitare Cristo, l’Evangelio, la Grazia e la fede, ha sempre magnificato l’uomo carnale, il suo lume e le sue forze. E di più per essere frenetica è in modo cervicosa, che per fede non è sanata; non accetta per vero se non quello che gli pare, nè se gli può dare ad intendere una verità, se in prima sindacata dalla sua frenetica ragione, non è conforme al suo cieco giudizio. La filosofia adunque sta giù, bassa, nella oscura valle de’ sentimenti; non può alzare la testa alle cose altee soprannaturali, alle quali è al tutto cieca20.
«Potrebb’essere una persona, la quale avesse le scritture sacre e la loro interpretazione a mente, e per forza d’umano ingegno l’intendesse umanamente, e fosse senza fede, spirito e vero lume di Dio. Perciò ci bisogna spirito e lume soprannaturale, e che Dio col suo favore ci apra la mente, e ce le facci penetrare divinamente* Non abbiamo dunque ad avere le scritture sacre per nostro ultimo fine, nè per nostre supreme regine ed imperatrici: ma per mezzi e ancille che servano alla fede, allo spirito e alla vera cognizione di Dio, e molto più che le creature. Di poi, benchè nella Chiesa di Dio, per certificarci, formarci e stabilirci nelle verità divine, rivelate e soprannaturali, bisogna all’ultimo venire all’interno testimonio dello Spirito santo, senz’il quale non si può sapere quali scritture sieno sante e da Dio, e quali no»21.
Ma l’Ochino, che non avea consentito alla Chiesa universale, potea rassegnarsi alle opinioni individuali de’ nuovi dottori? Perocchè subito i fratelli uterini della Riforma pugnarono tra loro, e Lutero s’arrovellava contro ogni fede diversa dalla sua: Melantone, Carlostadio, Ecolampadio, Engelhard, Brenzio modificavano i dogmi, ciascuno a suo senno o a norma della costituzione del proprio paese; sbranamento inevitabile là dove a ciascuno è libero l’interpretare.
Contemporaneamente a Lutero, e senza sapere di lui, Ulrico Zuinglio, che aveva militato in Italia come cappellano di Svizzeri assoldati, insorse (1518) a Zurigo contro le indulgenze, e dietro a ciò sostenne che bisogna fondare la fede sulla Scrittura, non su dettati clericali; e repudiando i quindici secoli della Chiesa per ricorrere alle fonti, studiò il greco, si mise a mente le epistole di san Paolo, riprovò i pellegrinaggi; il pane e il vino della Cena essere meri simboli del sacrosanto corpo e sangue, e altri asserti che furono accolti in molta parte della Svizzera.
Veramente egli ha un’importanza storica piuttosto che dottrinale, non avendo lasciato opere di rilievo; e fu assorbito nell’azione di Giovanni Calvino, francese, che deplorando i disordini derivati dalla Riforma, pensò emendarli coll’andare più innanzi e fino ad un assoluto distacco, proclamando un antagonismo perpetuo alle tradizioni stabilite, che non vuol solo appurare, ma distruggere.
Ginevra avea cominciato il suo risorgimento dal rivoltarsi contro al duca di Savoja, che la supremazia feudale volea ridurre a signoria assoluta. N’era seguita la solita disordinata prepotenza dei riottosi, per rimediare alla quale Calvino ricorse al despotismo. Lutero aveva abbattuto la monarchia cattolica per favorire i vescovi tedeschi, Calvino sagrifica questa aristocrazia luterana alle idee repubblicane di Ginevra; e se i Luterani alzavano il principato per opporlo al papa, egli lo deprime per sottoporlo ai rivoluzionarj. Posta la scure alla radice, impugna il mistero, colloca la certezza nella rivelazione individuale: l’arbitrio non è libero, e per iscegliere il bene fa duopo d’una Grazia necessitante, e questa sola produce la giustificazione, senza che v’abbia parte la volontà dell’uomo; Iddio è padrone assoluto delle sue creature, e ab eterno ha destinato queste al paradiso, quelle all’inferno, qualunque siano le loro azioni. Il fedele dee mirare principalmente a tenere per sicura la propria salute; e per acquistare una tale sicurezza, crederla non fondata su opere od azioni umane, ma sulla volontà suprema ed eterna.
Niuna efficacia dunque rimane al battesimo, i figli degli eletti appartenendo per nascita alla società redenta; niuna alla penitenza, poiché chi una volta fu eletto non può ricadere; nella santa cena non sono transustanziate le specie, ma sotto que’ simboli il Signore comunica Cristo, per nutrire la vita spirituale. Abolito l’episcopato,, le comunità religiose scelgonsi un ministro, distinto dagli altri soltanto per l’abito nero; ne’ tempj nudi null’altro che il pulpito e una tavola, su cui esporre il pane e il vino; allontanato tutto ciò che era proprio de’ Cattolici, il culto resta non solo semplice ma nullo. Con quest’odio Calvino rendesi onnipotente, e stabilisce un ordinamento vigoroso, sotto al governo de’ pastori, ma uniti cogli anziani; tolta ogni separazione fra ecclesiastici e laici, fra la Chiesa e il coro.
Questi dogmi austeri, dove erano negate la bontà e la libertà dell’uomo, sosteneva egli con inesorabile intolleranza, non presentando la sua come una dottrina che ammette la discussione, o cerca accordo con altre credenze. I Calvinisti, come eletti di Dio, sono -autorizzati a schiacciare tutto ciò che si oppone alla loro esclusività; come ispirati, abborrono il ragionamento. Calvino ha il rigore del Vecchio Testamento, più che la mitezza del Nuovo: esigente, dittatorio, all’amministrazione ecclesiastica subordina la civile; moltiplica regolamenti fin sul vestito e sulla mensa, proscrivendo il lusso, gli ori, ogni squisitezza d’arti, per raffaccio alle frivolezze di Parigine alle magnificenze di Roma. Così profondato l’abisso fra il credo antico e il nuovo, Calvino sbigottì le anime timorate, e disingannò coloro che ancora fantasticavano un accordo; e quella risolutezza, quel sarcasmo, quell’irosa eloquenza contro Roma e la Sorbona e tutto il clero, trascinava, come tutto ciò che è violento.
Lutero e Calvino fra loro stessi lottarono, e viepiù i loro discepoli, che si sariano ben meravigliati se alcuno, come oggi si fa, avesse asserito che andavano d’accordo nella loro fede, e direbber meglio nelle loro fedi. Somiglianze hanno per certo, se non altra, l’avversione al cattolicismo. Lutero posò i canoni, Calvino li prese e ne dedusse rigorose conseguenze. Entrambi negarono il libero arbitrio, e sostenner l’impotenza naturale dell’uomo a conoscere il vero e volere il bene. Entrambi ne dedussero la giustificazione per la sola fede o l’inutilità delle opere. Entrambi sostituirono all’autorità esteriore della Chiesa l’autorità intima e individuale della coscienza per l’interpretazione della Bibbia. Entrambi, contradicendosi, limitarono quest’autorità della coscienza col redigere ed imporre confessioni di fede. Entrambi principalmente combatterono il primato del papa, il culto dei santi, l’espiazione postuma.
Ma del resto quanti dissensi! e come ostinatamente sostenuti! E Lutero esclamava: — Chi non adotta la mia dottrina non può salvarsi: chi crede ad altri che a me, è destinato all’inferno: al Vangelo da me predicato devono sottomettersi papa, vescovi, preti, monaci, re, principi, il diavolo, la morte, il peccato, e tutto ciò che non è Cristo». Calvino imprigionava e bruciava chi da lui dissentisse. L’Ochino stesso si trovò presto in disaccordo con Calvino, sicchè a Ginevra venne scomunicato e perseguitato. A piedi, come sempre, ripigliò dunque il cammino colla moglie che s’era presa, in cerca della verità, e di chi permettesse dirla. A Basilea, dov’erasi adunato uno degli ultimi Concilj, dove eransi rifuggiti Erasmo ed Hutten, disgustati degli eccessi, dove il Froben stampava scritti arditissimi, l’Ochino recossi per pubblicare i suoi sermoni: ad Augusta chiesto predicatore con ducento fiorini l’anno, moltissimi uditori attirava, sinchè la invasione di Carlo V gli lasciò appena tempo di salvarsi, fuggendo collo Stancari di Mantova.
A Strasburgo ritrovò il vecchio suo amico e compatrioto Pietro Martire Vermiglio, e con lui passato in Inghilterra, predicò ai rifuggiti italiani, ma cessata la tolleranza alla morte d’Eduardo VI, tornò in Isvizzera, e fu assunto pastore dagli emigrati di Locarno, i quali aveano ottenuto una chiesa e l’uso della propria lingua22.
Ma accusato di opinioni antitrinitarie e di consentire la poligamia, viene costretto ad una professione di fede, ed egli giura di vivere e morire nella fede di Zuinglio. Ma subito n’ha pentimento, in pulpito impugna alcuni dogmi di questo, e ne’ suoi Labirinti nega quasi tutte le verità cristiane: onde n’è sbandito, e neppure ottenendo d’indugiarsi fino alla primavera, di settantasei anni, nel cuor dell’inverno, con quattro figliuoli è costretto ripigliare il cammino dell’esigilo, verso la Polonia.
La prima volta che predicò ai fratelli italiani in Cracovia, «Non crediate (disse) venir oggi a veder altro che un vero apostolo di Gesù Cristo. E pel nome e la gloria di Cristo, e per chiarire la verità delle cose celesti ho io patito ben più di quello che sia di fede aver patito l’uomo o alcun degli apostoli. Ne, se a me non è conceduto come ad essi di far miracoli, meno fede dovete aver a me che ad essi, giacchè noi insegniamo le cose stesse dallo stesso Dio ricevute, ed è miracolo abbastanza grande l’aver noi sofferto quel che patimmo». Fin a tal punto spingeva la superbia!
Fu de’ più bei trionfi della Chiesa nel medioevo l’aver sostenuto l’indissolubilità del matrimonio, a fronte delle principesche lubricità. Ma già Lutero, per ingrazianirsi il landgravio d’Assia, aveva approvato la bigamia: ora l’Ochino, nel XXI de’ suoi Trenta dialoghi sostenne che un marito, il quale abbia moglie sterile, malescia, insopportabile, deve prima implorare da Dio la continenza; e se tal dono, chiesto con fede, non possa ottenere, può senza peccato seguire l’istinto, che conoscerà certamente provenire da Dio, e prendersi una seceonda moglie senza sciogliersi dalla prima23.
Era una bassa condiscendenza a Sigismondo, re di Polonia, inuzzolito di nuove nozze: e meritò all’Ochino lo sdegno di molti cattolici, e principalmente del cardinale Osio gran difensore del regno d’Ungheria. Il quale ne scrisse dissuadendo esso re, e mostrando qual pregiudizio ne deriverebbe a tutto il paese. — Non credo che nel nostro secolo siavi stato più pestilente eretico di quell’empio Bernardino Ochino, che osò fin richiamare in dubbio se esista Dio, e se si prenda cura delle cose umane. Ai consigli di questo scellerato dicesi che si ascolti nella patria nostra; i quali se avesser sèguito, fin gli elementi insorgerebbero contro di noi nè potrebber sì atroce delitto sopportare»24. Anche il protestante Bullinger inveiva contro l’Ochino, meravigliandosi che un vecchio scrivesse di tali cose, e tanto più ministro della Chiesa: nei dialoghi aver ritratto sè stesso, affinchè il conosca chi noi conobbe finora; «è uomo dotto in senso reprobo, ingrato contro il senato e i ministri, empio, malizioso per non dire bugiardissimo».
L’Ochino di rimpatto lagnavasi di esso, e — Non pensavo che il Bullinger fosse papa a Zurigo, e che non solamente a’ suoi precetti, ma ancora alle sue esortazioni s’avesse ad obbedire, e molto più che al senato». Teodoro Beza pure gli urlava dietro: — Ochino è uno scellerato, libidinoso, fautor degli Ariani, beffatore di Cristo e della sua Chiesa»: onde non fu raccolto a Basilea, nè a Mulhausen; e s’ascose in Moravia, dove, perduto due figliuole e un ragazzo dalla peste, morì nel 1564.
Tutt’altrimenti ne espone a lungo la fine il Boverio, quasi avvenisse in Ginevra, e che si confessò da un prete cattolico, e si ritrattò dinanzi a quanti lo visitavano. Di ciò istizziti, i magistrati di Ginevra ordinarono che, se persisteva, venisse ucciso, come fecero a pugnalate. Di un fatto così improbabile adduce molte testimonianze, ma non dirette. Egli fa gran caso che Teodoro Beza, nel libro intitolato Veræ imagines virorum illustrium impietate et dottrina, quorum labore Deus usus est, his extremis temporibus, ad veram religionem instaurandam ex diversis christianitatis regionious, dice: Petrus Martir (Vermiglio) in egressu suo ex Italia habuit socium Bernardinum Ochinum, monachum magni nominis apud Italos, et auctorem Ordinis Capucinorum (?), qui in fine se oslendit esse iniquum hypocritam, atque habuit alios qui omnino aliter se gesserunt.
Il Boverio argomenta che, se il Beza lo giudicò ipocrita, vuol dire che l’Ochino finì cattolico25. Ma ognun comprende che allude alle opinioni antitrinitarie del frate, per le quali i dissidenti fra loro rimbalzavansi ingiurie, non meno violente che contro i Cattolici.
- ↑ Graziani, De vita Commendonis.
- ↑ Giovanni Guidiccioni, uno de’ pochissimi poeti patriotici di quel secolo, ha un sonetto ove si lagna che l’aquila imperiale minacci e guasti l’Italia, e intanto
Non vede i danni suoi, nè a qual periglio
Stia la verace santa fè di Cristo
Che (colpa io so di cui) negletta muore.O messaggier di Dio, che in bruna veste,
L’oro e i terreni onor dispregi tanto,
E nei cor duri imprimi il sermon santo
Che te stesso e più’l ver ne manifesta,
Il tuo lume ha via sgombra la tempesta
Del core ove fremea, dagli occhi il pianto.
Contra i tuoi detti non può tanto o quanto
De’ feri altrui desir la turba infesta.
L’alma mia si fe rea della sua morte
Dietro al senso famelico; e non vide
Sul Tebro un segno mai di vera luce.Si crederebbe veder qui un assenso all’Ochino. Al quale pure dà lode perchè sappia commuovergli il freddo cuore.
Servo fedel di Dio, quel che divento
Allor è don delle tue voci sante.
Tu cui solo è dato
Spesso gl’infiamma (i miei spiriti) e lor mostra e rivela
Gli ordini occulti, e’l bel del paradiso.In lettera del 1538 da Carignano sua villa scrive ad Annibal Caro: — Ho udito in Lucca, pochi dì sono, frà Bernardino da Siena, veramente rarissimo uomo, e mi piacque tanto, che gli ho indirizzati due sonetti».
- ↑ Nel libro entrata e uscita del camerlingo dell’Opera (della metropolitana di Siena) del 1540, a fol. 122, sotto il dì 28 gennajo notasi che «furono pagate lire 32.5.4. a frà Bernardino di Domenico Tommasini detto Ochino, e per lui fatte buone a Giovanni Battista, fattore dell’Opera».
- ↑ Vedasi quanto ne dicemmo in Vittoria Colonna e in Aonio Paleario.
- ↑ Vita di Paolo IV, manuscritta.
- ↑ Fu famosa a’ suoi tempi per bellezza e ingegno, e di lei scrissero Ireneo Affò e Pompeo Litta. Fu accusata di eresia, come tant’altri suoi contemporanei: e citata da Pio V, ne morì di dispiacere, raccomandando al nipote Vespasiano di «non fare alcun risentimento contro chiunque oltraggiata l’avesse».
- ↑ Il Valdes conservò questo dialogo in forma ben più estesa, nel suo Abecedario spirituale, chiamato così perchè destinato a far conoscere gli elementi della perfezione cristiana. Ultimamente fu riprodotto nella Enciclopedia di Herzog.
- ↑ Boverio, Ann. de’ Cappuccini, tom. I, pag. 411.
- ↑ Puccio Antonio fiorentino, vescovo di Pistoja e cardinale.
- ↑ Manuscritto nella biblioteca di Siena.
- ↑ Il primo volume contiene cinquanta sermoni su varj soggetti, la giustificazione, il matrimonio spirituale, la confessione, le indulgenze, il purgatorio, il testamento, ecc. Il secondo tratta di Dio, e via via della Fede, Speranza, Carità.
- ↑ È riferita nella Storia dei Teatini di Giovanni Battista vescovo di Acerra.
- ↑ Girolamo Nuzio, che il nomo mutò in Muzio (1496-1576), aggiungendo justinopolilano perchè, sebben nato a Padova, era oriundo e cittadino di Capodistria, fu uno de’ più fecondi scribacchiami del suo tempo. Servì da secretario a varj personaggi, fra cui al marchese del Vasto, a don Ferrante Gonzaga governator di Milano, al conte Claudio Rangone, col quale passò in Francia; azzeccò risse con molti letterati, e si segnalò nella scienza cavalleresca, come chiamavano allora la teorica de’ duelli, i quali vedendo non si potevano abolire, pensò sistemare, dandovi un’infinità di regole minuziose, come interviene ogniqualvolta s’introduce il casismo.
Il celebre Flaminio, scrivendo a messer Luigi Calino di Brescia intorno al fiorire delle buone lettere dice: — Fra gli ingegni ho sempre numerato quello del nostro messer Muzio, del quale avendo concetto una bellissima speranza, come potrei fare che non mi dolesse sommamente vedendo che così nobile pianta, per essere mal coltivata, degeneri, e donde si aspettavano frutti soavissimi ed eccellentissimi, si raccolgono lambrusche e sorbe?» Innumerevoli sono le opere di costui, ed egli stesso dà il titolo di quelle che uscirono «dalla penna ad uomo, che dal XXI anno della sua età fino al LXXXIV ha continuamente servito, ha travagliato a tutte le Corti della cristianità, e vissuto fra gli armati eserciti, e la maggior parte del suo tempo ha consumato a cavallo, e gli è convenuto guadagnarsi il pane delle sue fatiche». In dieci canzoni celebrò separatamente il viso, i capelli, la fronte, gli occhi, le guance, la bocca, il collo, il seno, la mano, la persona della sua amata; insieme traduceva i testi greci per comodo della storia ecclesiastica del Baronio. Còlto da grave malattia nel 1552, protestò voler «dare al servizio di Dio questo poco tempo che avanza, rivolgendosi tutto agli studj sacri»: ma don Ferrante lo persuase a rimanere a’ suoi ordini. Morto che questo fu nel 1557, il Muzio passò ajo del principe Francesco d’Urbino, cui diresse un Trattato del principe giovinetto. Ne’ viaggi avendo osservato i costumi de’ Protestanti, non gli parvero quali dai lodatori erano vantati, e la loro dottrina confusione ed abusione; e accintosi a combattere la comunione del calice a’ laici, il matrimonio de’ preti e le altre novità, sostenne che non fosse necessario adunare un Concilio; dissuase Lucrezia Pia de’ Rangoni dall’abbracciare gli errori diffusi tra i Modenesi; ebbe dall’Inquisizione romana l’incarico di far bruciare tutte le copie del Talmud nel ducato d’Urbino, e d’informarla di quanto scoprisse di men religioso, principalmente a Milano. Ove udendo predicare Celso Martinengo, lo denunziò al Sant’Uffizio, e poichè questo non osava prenderlo, cilollo egli stesso ad esame, e lo incarcerava se non fosse fuggito. Di ciò i Milanesi gli presero un male a morte qual a persecutore, finchè non seppero che il Marlinengo era stato assunto pastore degli Evangelici in Ginevra, dove l’effigie del Muzio fu chiassosamente bruciata. Del Vergerio, vescovo di Capodistria, era stato amico d’infanzia; ma come questo sviò, non che lasciarsene sedurre, non ommise alcun tentativo per richiamarlo al vero, e frustrati i consigli amichevoli, scrisse contro di lui ai popolo di Capodistria (1550), e più dopo ch’ebbe apostatato.
Nei Tre testimoni fedeli, librando le dottrine de’ santi Basilio, Cipriano, Ireneo, convince di falsità Erasmo ed altri; a sostegno del sinodo di Trento scrisse principalmente il Bullingero riprovato; l’Eretico infuriato contro Matteo Giudice professore di Jena; la Cattolica disciplina de’ principi contro il Brenzio. L’Antidoto cristiano, la Selva odorifera, la Risposta a Proteo, il Coro pontificale, le Mentile Ochiniane, le Malizie Bettine (1565), la Beata Vergine incoronala, erano i bizzarri titoli d’opere sue, buttate giù con violenza e scarsa critica, svelenendosi colle persone, anzichè teologicamente incalzare l’errore; modo di farsi leggere dal vulgo, non di vantaggiare la causa del vero.
Pio IV avealo favorito; viepiù Pio V, che l’usò ancora a scrivere contro gli eretici, principalmente contro l’Apologia per la Chiesa anglicana del vescovo Jewel; poi contro le Centurie Magdeburgheai che pretese confutare in due libri di storia salerà (1571). La morte di quel papa lasciò il Muzio sprovisto, sicchè al duca Emanuele Filiberto di Savoja scriveva qualmente, in cinquantaquattro anni di servizio, non avesse saputo assicurarsi cinquantaquattro soldi di rendita. Fedele alle pratiche, frequentava la messa e i sacramenti, recitava ogni giorno i salmi penitenziali: eppure qualche sua egloga sente di carne, come confessa che in fatto di continenza era «ancor atto più ad esser ripreso che a riprendere». - ↑ La lettera dell’Ochino fu tradotta in francese e stampata senza indicazione di luogo, col titolo: Epistre aux magnifiques signeurs di Siene par B. Ochin du dit lieu, auxquels il rend raison de sa foy et doctrine. Avee une èpislre à Mutio Justinopolitan, par laquel il rend aussi raison de son deparlement d’Italie, et du changement de son ètat, translatie de la langue italienne. Super omnia vincit veritas. 1544, in-8°.
- ↑ Ambrogio Caterino, nel secolo era stato Lancellotto Politi senese, studioso delle leggi quanto solevasi nella sua patria, della cui libertà fu fervoroso difensore. Studiò anche dieci anni a Parigi, e di trenta resosi frate, mostrò elegante dicitura, chiarezza, metodo, leale esposizione delle objezioni, ampio sviluppo degli argomenti, estesa dottrina ma litigiosa, per la quale vedendo eresie dapertutto, s’abbaruffò anche co’ teologanti cattolici. Spirito indipendente, non si chinava ali autorità di san Tommaso o di sant’Agostino o d’altri: benchè domenicano, asseriva l’immacolata concezione di Maria; contro san Tommaso sosteneva che Gesù Cristo sarebbe venuto al mondo, quand’anche Adamo non avesse peccato; nei commenti sui primi capitoli della Genesi e sulle Epistole canoniche, non esita a combattere spesso i cardinale Cajetano, imputandolo d’interpretazioni umane e opinioni singolari; nel trattato della Grazia, asseriva potersi esser certi della giustificazione dottrina simi e alla luterana, che gli fu ribattuta; sulla predestinazione opinava che pochi fossero eletti assolutamente, ma per un gran numero il decreto fosse condiziona e; che, bambini morti senza il battesimo godono una felicità conveniente, e sopratutto non esser necessario che il ministro de’ sacramenti abbia l’intenzione di far cosa sacra, purchè ne adempia le cerimonie. Lettere di gran lode gli scriveva il Sadoleto, e trovava eccellente il libro suo sul peccato originale e sulla giustificazione, materia tanto difficile, intorno alla quale erangli rimasti certi dubbj, che a tempo più calmo intendeva comunicargli; pure diceva non aver letto nulla di più erudito e dove gran dottrina fosse accoppiata con tanta prudenza e vera religione.
- ↑ Il Pazzi scrive che il Caterino, già vecchio, nella Minerva di Roma più volte era veduto piangere: e chiesto del perchè, rispondeva, dolergli d’avere scritto con tanta acrimonia contro alcuni padri, e suggeritogli che colla stessa mano che avea ferito poteva medicare, taceva e piangeva.
Nei Libri V adversus Lutherum, egli diceva all’eresiarca: — Se la Chiesa non e che in ispirito, come si potrà riconoscerla sulla terra?»
Lutero rispondeva che la Chiesa è unicamente interiore, ma che i caratteri ai quali distinguerla sono il battesimo, la cena e sopratutto il Vangelo. Ma non sono questi appunto che fanno della Chiesa una istituzione visibile?
Il Caterino fu vescovo di Minore, poi arcivescovo di Consa ed uno dei più operosi al Concilio di Trento, ove i suoi discorsi erano volontieri ascoltati per una certa franchezza, per la quale pareva inchinare verso gli eretici, mentre era soltanto vaghezza di farsi nominare colle novità; «uomo (dice il cardinale Pallavicini) di somma reputazione ne’ suoi atti, di minore nelle sue opere, forse non favorito in esse dalla universale opinione altrui; ma nelle contese cogli eretici e nelle funzioni del Concilio non inferiore d’applauso a veruno de’ coetanei e de’ colleghi». Morì settuagenario nel 1553. - ↑ Nei manoscritti della Compagnia de’ Pastori a Ginevra, sotto il titolo Spectacles, professeurs, recteurs et ministres des Eglises étranger es qui sont dans la ville, leggesi a pag. 181: «Eglise italienne. Cette Eglise fut établie en 1542, octobre.... Bernardin de Servas, qui avait été religieux, préche à la chapelle du cardinal (d’Ostia) tous les dimanches». Certamente s’ha a leggere Bernardin de Senis.
- ↑ «Apologi nelli quali si scoprono gli abusi, superstizioni, errori, idolatrie et empietà della sinagoga del papa, e specialmente de’ suoi preti, monaci e frati, 1554». È l’opera più rara dell’Ochino, e contiene il solo primo libro, mentre la traduzione tedesca ne ha cinque.
- ↑ V’è apposta una nota che proibisce di lasciarla copiare. Anche senza di ciò, non l’avrei riprodotta, tanta n’è la bassezza. Credo alluda a questo un passo delle Legazioni di Averardo Serrislori (Firenze, 1853, pag. 88). «Certi predicatori a Zurigo hanno dato alle stampe un libello famoso contro Sua Santità, tassando i modi
e costumi suoi e de’ papisti: per il quale i cinque Cantoni cattolici si lamentano».
Crispino, librajo, scrittore e discepolo di Calvino, stampò L’Estat de VEglise avec les discours des temps depuis les apótres jusques au prèsent, 1581 in-8° piccolo; ove si trovano tutte queste diatribe contro papa Paolo III; fin ad asserire che manteneva 45,000 cinedi; ch’era astrologo, mago, indovino, ecc. - ↑ La seconda parte delle Prediche di messer Bernardino Ochino senese. Predica III.
- ↑ Ibidem. Predica IV.
- ↑ Quel che adesso è Canton Ticino, esteso dalle falde del San Gotardo e del San Bernardino fino ai laghi di Lugano e Maggiore, era stato sottratto al ducato di Milano, e fatto suddito degli Svizzeri. I tre Cantoni primitivi di Uri, Svitto, Unterwald aveano occupato i baliaggi di Lugano, Locamo, Mendrisio, Valmaggia; e da quei Cantoni venivano balii biennali a governare queste podestarie cisalpine, comprando quella carica a denaro, e rifacendosene col rivender la giustizia; e secondo che essi Cantoni ed i balii erano cattolici o protestanti, davano persecuzione o favore agli apostali. Giovanni Orelli di Locarno, famigliare e perpetuo commensale di Gian Galeazzo Sforza, ebbe relazioni col Savonarola e con altri trascendenti, e introdusse nella sua famiglia l’uso di argomentare sulle cose religiose.
Giovanni Muralto medico, loro compatrioto, inviato dal duca Sforza a Ginevra, vi conobbe il Serveto e alcuni profughi d’Italia, ne sorbì le idee, e le recò in patria, dove le partecipò agli Orelli e ad alcuni italiani rifuggiti, tra’ quali il conte Martinengo di Brescia, Guarniero Castiglioni da Castiglione varesotto, un Camozzi, un Visconti. Tutti trovavano ospitalità presso gli Orelli, ed alcuni ottennero il diritto di possedere e la cittadinanza. Uno speziale, che legava anche libri, ne ebbe alcuni di senso protestante, e cominciò a parlarne con persone per bene; poi un Piotta insegnò apertamente l’eterodossia, e divulgò gli scritti antitrinitarj di Serveto. Fra i profughi nostri, che, allettati dalla vicinanza, dal clima, dalla lingua, dai costumi ancora italiani, si fermavano in quei baliaggi, primeggiava il prete Giovanni Beccaria, nobile milanese, che ebbe possessi e cittadinanza a Locarno. A Roma avea conosciuti l’Ochino, il Carnesecchi, il Vermigli, e tornato a Locarno il 1534, vi diffuse gl’insegnamenti di questi, sotto il manto di una scuola di letteratura: anzi l’arciprete, che noi sospettava, l’invitò a fare alcuni sermoni, che piacquero assai. Legò amicizia cogli Orelli, con Giovanni e Martino Muralti, con Lodovico Ronco, e crebbe di proseliti, massime dopo tornato nel 1540 d’un viaggio in Francia, e fu secondato da Benedetto da Locamo minor conventuale, rinomato predicatore, da Cornelio di Nicosìa dell’Ordine stesso, e dal commissario protestante Gioachino Baldi di Glarona. Ma succeduto balio il cattolico Niccola Wirz nel 1548, impedì il propagarsi delle dottrine eterodosse; ordinò si osservassero le feste, i digiuni e le altre pratiche ecclesiastiche: poi volle si tenesse una pubblica disputa. Agli 8 agosto 1549, fra grati concorso di popolo, per quattro ore si disputò sul testo evangelico Tu es Petrus et super hanc petram ædificabo ecclesiam, poi sulla confessione auricolare, sul merito delle opere buone; e il commissario che vi presedeva, indignato delle risposte ambigue, finì coll’ordinare che il Beccaria fosse tratto prigione. Ma trenta giovani suoi adepti nel cavarono a forza; ed egli reputò prudenza ricoverare nella Mesolcina, Valle italiana sottoposta ai Grigioni; dove ammogliatosi, tenne a educazione figliuoli d’Italiani, che li volessero allevati nella Riforma.
Tale prossimità turbava i sonni del papa e del re di Spagna come duca di Milano. Pertanto Carlo Borromeo, che già aveva istituito il Collegio Elvetico a Milano onde preparare pastori a questi paesi, penetrò nella Svizzera in qualità di legato pontifizio, e a sua istanza i Cantoni cattolici posero argine a quel dilatarsi dell’eresia in Italia con severi divieti (1552) e pena dieci scudi a chi tenesse libri o scritti contro la fede cattolica; si minacciò fin di morte chi bestemmiasse le cose sacre; la pasqua del 1554 si ordinò che ogni persona dovesse effettivamente e vocalmente confessarsi e comunicarsi; chi moriva senza confessione restasse escluso dalla sepoltura sacra. Pure i novatori non desistevano; adunavansi principalmente nelle case dei Muralti, dei Duno, degli Orelli e del costoro cognato Francesco Bello di Gavirate, e domandarono d’avere un pastore riconosciuto e chiesa propria. Un catalogo del luglio 1554 novera ottantasei famiglie riformate, composte di centrentacinque membri, oltre i fanciulli e oltre i timidi e vulgari, che non son catalogati. L’OrelIi, il Muralto, il Duno recaronsi a Zurigo a chieder protezione dai Cantoni riformati, formolando la lor professione di fede, per cui accettavano il Credo, faceano Cristo unico mediator nostro; unici sacramenti il battesimo, da conferire senza le cerimonie papistiche; la Cena in cui è cibo e bevanda il corpo di Cristo.
Ma insistendo i Cantoni cattolici, il sindacalo raccoltosi in Locarno decretò che i novatori dovessero abjurare, o venir multati ne’ beni e nella vita. Se n’appellarono alla Dieta generale, dove la cosa fu compromessa ne’ Cantoni misti d’Appenzell e Glarona, e questi decisero che tornassero alla fede materna, o spatriassero coi loro averi.
Il 1 gennajo 1555 la popolazione di Locarno fu convocata nel castello del commissario per annunziarle questa sentenza, ed esortare i novatori a ricredersi. Poi sul fine di febbrajo ecco i rappresentanti dei sette Cantoni cattolici, dinanzi ai quali processionalmente, in abito festivo e coi figliuoli alla mano, comparvero i dissidenti in numero di cenventicinque, non contando varj assenti e i ragazzi, e avendo dichiarato di restare fedeli alla loro credenza, ebbero intimazione che pel 3 marzo si disponessero a spatriare.
Ottaviano Riperta vescovo di Terracina, nunzio apostolico, venuto colà a salutare in nome del santo padre gli ambasciadori svizzeri, non lasciò alcuna via intentata a convertir gli eretici, ma con poco fruito, e le stesse donne Barbara Muralto, Caterina Rosalina, Lucia Bello, Chiara Toma sostennero dispute con esso. Vuolsi ch’egli insistesse per più severo castigo; ottenne l’estremo contro il calzolajo Nicolò Greco bestemmiatore, e che fossero arrestati i più riottosi. Barbara Murallo doveva essere fra questi; ma la sua casa attigua al lago, in tempo delle fazioni era stata fabbricata in modo da poterne fuggire per una porta cieca. Comparso dunque il satellizio, ella, alzatasi di letto, chiese d’andar a vestirsi, e fuggì. Gli altri dovettero disporsi ad abbandonare la patria coi beni e le famiglie. Congedatisi dai lor cari e fin dai più stretti parenti e dalle mogli, censettantatre persone d’ogni età ai 3 di marzo varcarono il San Bernardino, indugiandosi alcun tempo a Rovereto nella Mesolcina, finchè prendessero accordo cogli Svizzeri. I Grigioni offerser loro libero ricetto, e in fatti l’accettarono un Besozzi, Leonardo Bodetto, Giovan Antonio Viscardi colle loro famiglie. I più si stabilirono a Zurigo, tam hilares, tam læti ac si ad nuptias aut festum aliquod properarent, dice il Duno. Questo locarnese vi si segnalò come medico, godette l’amicizia del famoso naturalista Gessner, stampò varie opere, e tradusse in latino alcune dell’Ochino e dello Stancario. - ↑ Telipoligamus. Quid vero mihi das consilii?
Ochinus. Ut plures uxores non ducas, sed Deum ores ut tibi continentem esse det.
Telipoligamus. Quid si nec donum mihi, nec ad se petendum fidem dabil?
Ochinus. Tum, si id feceris ad quod te Deus impellet, dummodo divinum esse instinctum exploratum habeas, non peccabis. Si quidem in obediendo Deo errare non potes.
B. Ochini senensis dialogi XXX in duos libros divisi. - ↑ Rescius, Vita Hosii, lib. III, cap. 6. L’Osio scrisse De hæresibus nostri temporis.
- ↑ Il Graziani nella vita del cardinale Comendone, ove molte cose pone intorno all’Ochino, dice al lib. I, cap. 9: — Ochinus Polonia excessit, ac omnibus extorris ac profugus, cuna in vili Moraviæ pago a vetere amico hospitio esset acceptus, ibi senio fessus, cum uxore ac duabus filiabus, fìlioque uno, peste interiit» . Esso Graziani attribuisce il merito dell’Ochino piuttosto alla dizione che al fondo. «Fuit vir non ineruditus, quamquam majori multo verborum quam rerum doctrina excultus, sed patrio sermone (nam latinas literas vix didicerat) in eo quod sciret adeo comptus, ornatusque et copiosus, ut mirum in modum captos specie ac nitore orationis teneret audientium animos. Nam hominum nostrorum plerique conciones, quæ, more antiquitus tradito, de divinis rebus in templis habentur, frequentant celebrantque, non tam quidem quo mentem præceptis cœlesti doctrina haustis instruant ad religionem, ad pietatem excitent, quam quod ducuntur orantis ingenio, et genere illo speciosæ et omnibus undique luminibus omnibus, undique floribus exornatæ atque expolitæ orationis delectantur. Cœterum inde nihilo meliores effecti, piane iidem abeunt, qui venerant». E prosegue descrivendo le arti della falsa eloquenza de’ predicatori. Pag. 126.
Il Sandio, nella Biblioteca Antitrinitaria, dà la nota di tutte le opere dell’Ochino. Noi rammenteremo, oltre le suddette prediche in tre volumi, a Zurigo 1555, e in-4° senza data, il Dialogo del Purgatorio, 1555; Sposizione sull’epistola ai Galati; Risposta alle false calunnie e impie bestemmie di F. A. Caterino, 1546; Prediche, novene. Laberinto del libero o ver servo arbitrio: prescienza, predestinazione e libertà divina, e del modo d’uscirne. Basilea s. a. tradotto anche in latino. A torto si disse che la traduzione latina de’ suoi Trenta dialoghi fosse opera del celebre Castalion. I primi sette furono stampati a Venezia nel 1542-43: Dialoghi VII del reverendo padre frate Bernardino Ochino senese, generale de’ frati Cappuccini: e trattano,
1. Del modo d’innamorarsi di Dio; fra la duchessa e Bernardino.
2. Del modo di diventar felice; fra la duchessa di Camerino e Bernardino.
3. In che modo la persona si debba reggere bene; Maestro e Discepolo.
4. Dialogo del ladrone in croce; fra Uomo e Donna.
5. Dialogo del convertirsi presto; fra Cristo e l’anima.
6. Dialogo del peregrinaggio per andar in paradiso; fra Angelo Custode e l’anime purganti.
7. Dialogo della divina professione; fra Uomo e Donna.
Vennero poi tutti pubblicati a Basilea nel 1563 da Pietro Perna. Nel XXVIII ragiona quo pacto tractandi sunt hæretici, e stabilisce si deva punirli di morte.
Altri ne giunsero colà quando il senato di Milano, informato che alcuni sudditi svizzeri, banditi da Locarno per causa di religione, si erano ridotti ad abitare nel dominio milanese, ordinò fra tre giorni dovessero abbandonarlo, sotto pena della vita.
I Zuricani fecero partecipi i poveri delle limosine pubbliche; permisero erigessero una chiesa italiana nel tempio di San Pietro, con proprio pastore, che fu Giovanni Beccaria, il quale si conformasse ai riti e ai dogmi del Cantone, giurasse obbedienza al magistrato e al sinodo: provvedendolo di cinquanta zecchini, cenquindici brente di vino, diciotto moggia di grano e due di avena; pel quale servizio mandavansi da Berna duemila cinquantanove fiorini, censessanta da Basilea, trentatre e mezzo da Bienne, altri da Losanna.
Pure il loro modo di vestire e il linguaggio e il vivere strano li facea ridicoli al vulgo. Poi presto gittossi zizzania fra il Beccaria e il Bullinger, onde quello cessò da pastore, e sottentrogli l’Ochino, che, a poco andare, come eretico ne fu cacciato. Anche Anton Maria Besozzi nel 64 fu posto in carcere per aver enunciato dogmi contrarj ai dominanti. Nè i Locarnesi ebbero più ministro proprio, e dovettero pagar la decima di tutte le eredità, contro quanto erasi prima stipulato.
Sobborgo degli Italiani fu detto quello dove prese stanza la comunità di Locarno in Zurigo, gli atti della quale erano tenuti da Lodovico Ronco. A Locarno per qualche tempo nessuno voleva comprare la seta, raccolta sui poderi di questi eretici: onde Francesco Orelli ne mandò di molta, invece di denaro, al fratello Luigi. Il quale ne aprì magazzino a Zurigo, e introdusse telaj e stoffe non più vedute colà: donde cominciarono il prosperamento di tale arte e le piantagioni dei gelsi. Le case dei Duni, degli Orelli, dei Muralti, de’ Pestalozzi produssero poi personaggi benemeriti della scienza e dell’umanità.