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frà bernardino ochino 261

a ciascuno sopra modo. E stimo ch’egli sia per portarsene, quando egli si partirà, il cuore di tutta questa città seco. Di tutto ciò si hanno immortali grazie a V. S. che ce l’avete prestato». E al curato avea scritto: — Ricordatevi di forzare, se occorre, frà Bernardino a far uso di carni, e s’e’ non tralascia l’astinenza quaresimale, non potrà reggere alla fatica dei predicare».

Perocchè era dedito a quelle eccessive austerità, che non di rado inducono soverchia fiducia in sè stesso. Camminava a piè scalzi su per le roccie, nelle nevi, fra i bronchi, scoperta la testa, esposto a tutte le intemperie: limosinando di porta in porta: la notte appoggiavasi a un albero e vi si addormentava, sebbene i grandi avessergli preparato letti e mense. Vedendolo passare, colla grossa tonaca, colla lunga barba incanutita anzi tempo, coll’occhio spento e le guance scarnate dalla macerazione e l’aspetto di un martire, la gente s’inginocchiava, presa istintivamente da meraviglia e rispetto. — Dove andava (dice un contemporaneo), uscivagli incontro la folla; non bastavano le chiese agli uditori: ed egli arrivava sempre a piedi, chè nessun mai lo vide pur s’un giumento: se doveva entrar ne’ palazzi de’ principi, nulla mutava del rigor di sua vita, non vino mai, mai più d’una vivanda, gli sprimacciati letti abbandonava per dormire sul nudo pavimento»1. Sin l’infame Aretino, risoluto a far parlare di sè in qualsifosse modo, fingeva il convertito, e scriveva al papa da Venezia, il 21 aprile 1537, che il Bembo «avea dato mille anime al paradiso con l’aver trasferito in questa città cattolica il tanto umile quanto buono frà Bernardino»; e che esso «da quella sua tromba che si fa udire col frate apostolico, ha creduto alle ammonizioni della riverenza sua, le quali vogliono che questa lettera, in mia voce gettatasi ai piedi della Vostra Santità beatissima, le chiegga perdono della ingiuria fatta alla Corte dalla stultizia delle scritture mie, benchè tutto quello che io ne ho detto con la bocca e scritto con la penna l’hanno ordinato i cieli, acciò, se nulla mancasse alla beatitudine sopradetta, vi forniate di glorificare nella conversione Aretina»2.

  1. Graziani, De vita Commendonis.
  2. Giovanni Guidiccioni, uno de’ pochissimi poeti patriotici di quel secolo, ha un sonetto ove si lagna che l’aquila imperiale minacci e guasti l’Italia, e intanto

    Non vede i danni suoi, nè a qual periglio
    Stia la verace santa fè di Cristo
    Che (colpa io so di cui) negletta muore.