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Quando, molt’anni fa, io saliva la prima volta faticosamente versa la città di Siena, teatralmente assisa su que’ due sproni di poggi, ricorrevo col pensiero com’ella, riconosciuta repubblica indipendente nel 1186 da Enrico VI con diritto di zecca e libera elezione de’ consoli e del podestà, e giurisdizione su tutto il contado,- crescesse fra le agitazioni feconde che svolgeano l’attività individuale, la fede, il senso pratico, e fin il senso estetico. Perdute quelle libertà, che il secol nostro principesco vitupera o compassiona come i vecchi disapprovano il balioso ruzzare della gioventù; ridotta a città secondaria d’una provincia secondaria, pure ad ogni passo rammemora altri tempi o gloriosi o almeno memorabili; ed essendo, per postura, a minor contatto colla folla passeggiera e colla moltitudine aspirante o proponente, serba un’impronta di vetustà, tutt’altro che disacconcia alla cortesia de’ suoi abitanti, i quali, nell’indole come nella pronunzia, sono mezzi fra Toscani e Romani, fra la stirpe gentile e la gagliarda.

Mutate le cose, vi ritornavo colla strada ferrata, e dai bastioni contemplandola, — È la città degli eretici», dicevo ad uno di que’ patrioti all’antica, che non si sgomentano dell’essere beffati per municipali dagli idolatri dell’annichilante accentramento. Ed egli rimbalzandomi quella frase, soggiungeva: — È la città dei santi. Sena vetus civitas Virginis è intitolata, da quando il beato Tommaso Balzetti la fece votare a Maria, prima della battaglia dell’Arbia; e il vecchio nostro sigillo portava: Salvet Virgo Senam quam signat amoenam. E la gloria di Maria campeggia nello stupendo nostro duomo, dove mai non si finirebbe d’ammirare la vastità del piano