Il prato maledetto/I
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Capitolo I.
In cui si ragiona d’uomini, tempi e costumi d’avanti il Mille.
Siamo al tempo dei figliuoli di Aleramo; di quel celebre Aleramo, che non fu punto favoloso, ma intorno a cui sono spacciate tanto favole, dopo ciò che ne scrisse frate Jacopo d’Acqui, nel 1334, cioè a dire tre secoli e mezzo dopo la morte di lui. Forse il buon frate, ingannato da qualche somiglianza di nomi, o dal fatto che veramente Aleramo avesse sposata una figliuola di Ottone I, la qual cosa dovette parergli maravigliosa senz’altro, reputò necessario di regalare ai marchesi Aleramici un’origine simile a quella dei conti della Mirandola.
Costoro, come sapete, si vantavano di discendere da un cavaliere sconosciuto, ma di gran legnaggio, il quale aveva rapita e sposata una figliuola dell’imperatore Costantino. Alcun che di simile si raccontava d’altri signori e militi di confine, nell’antico impero di Bisanzio; dond’è facile argomentare che per tutte queste origini romanzesche si tratti d’una favola comune, raccontata in versi greci, e portata attorno per l’Occidente dai primi pellegrini di Terrasanta. Comunque sia, quel di Mirandola avendo rapita una figliuola di Costantino, Aleramo di Monferrato doveva rapire a sua volta una figliuola di Ottone I.
Ma i documenti fan contro alla cronaca romanzesca di frate Jacopo. Aleramo era figlio d’un conte Guglielmo, venuto di Francia a capo di trecento lance in aiuto del marchese Guido di Spoleto, da poi fatto imperatore; e già nel 934 si vede succeduto al padre nel dominio del vasto territorio donatogli in feudo da quell’imperatore, poichè fu coronato nell’anno 889 a Pavia.
Venuto di Francia, per seguir la fortuna del Carolingio, il conte Guglielmo era particolarmente indicato per far legnaggio feudale sul confine settentrionale occidentale d’Italia. Ed egli ed i discendenti suoi non vennero meno all’ufficio, dominando con varia fortuna dall’estremità del Monferrato sino al mare, tra Savona ed Albenga, e qua e là, nell’ampio territorio, spesso turbati nel pacifico possesso da rivolte di popoli, da contestazioni di vescovi, da privilegi di monasteri; tutte cose che non li lasciarono aver bene, costringendoli a frequenti concessioni, a donazioni, a sbocconcellamenti di dominio. Là dove meglio poterono, come in Acqui, in Casale, il loro ramo principale riuscì ad un vero principato ereditario, che fu di Monferrato, con titolo di conti e marchesi. Ugual titolo ebbero i discesi dal ramo minore, ma non eguale fortuna; e il feudo, non potendo trasformarsi in principato, corse le sorti di un patrimonio privato.
Ma qui non debbo raccontare la storia degli Aleramici Carrettensi. Mi preme soltanto di farvi sapere che il vecchio Aleramo, da una prima moglie, di cui s’ignora il casato, ebbe tre figli; e nessuno della seconda, che fu Gerberga, figliuola a Berengario II. Di quei tre figli, Guglielmo che aveva il nome del nonno paterno, morì innanzi il padre; Ottone, che noi possiamo ammettere così nominato da un supposto avo materno, fu il capostipite dei conti e marchesi di Monferrato; Anselmo ebbe la parte sua dell’eredità paterna nelle terre verso Appennino ed il mare.
Il conte Anselmo viveva ancora in Acqui, come ci aveva il fratello maggiore, e teneva nel feudo di Cairo un suo castellano, o gastaldo, a curare le sue ragioni, ad amministrare la giustizia, a levare i tributi in suo nome. Rainerio, che tale aveva nome il castellano, era l’uomo tagliato a bella posta per quell’ufficio. Nessuno era più duro, più superbo, più inesorabile di lui. Era anche un uomo litigioso, e se gli piacevano le belle donne e il buon vino, cose che il signore Iddio aveva messe in terra (diceva egli) a consolazione dei forti, non gli piaceva meno di farla vedere (anche questa era una frase sua) al vescovo d’Alba, che vantava diritti, non sempre timidamente comprovati, di decime, di pedaggi, di prestazioni forzate, sui dominii che il conte Aleramo aveva lasciato al terzogenito Anselmo.
La vita pei contadini era molto dura, a quei tempi. Non erano veramente schiavi per diritto di conquista, come sotto il dominio dei Longobardi; ma erano di fatto servi della gleba, poichè sulla terra vivevano, senza potersi muovere da quella; tanti erano gli obblighi loro verso il padrone, anzi peggio, verso parecchi padroni ad un tempo; come a dire il feudatario, il gastaldo, il vescovo, il monastero. Sovra tutti costoro era un padrone più forte, l’imperatore; poco disposto a favorirli, a proteggerli, quando era lontano; dispostissimo ad angariarli, quando per disgrazia loro veniva a passare sul territorio. Aggiungete il difetto di comunicazioni tra regione e regione, poichè le strade romane erano state distrutte, per custodirsi da barbari settentrionali o da pirati del mezzogiorno; la poca sicurezza dei luoghi, infestati da bande di malfattori; la diffidenza cresciuta tra popolo e popolo; la necessità finalmente, di tenersi stretti insieme tra abitanti di un medesimo borgo, all’ombra sinistra ed uggiosa, ma pur sempre custoditrice, di un castello padronale.
Così vivevano, e male, faticando assai, pagando a parecchi, temendo di pagare ogni anno di più, e a maggior numero di potenti. Non avevano che una speranza, per allora, e la esprimevano tra due sospiri, in una frase malinconica:
— Finirà il mondo, se Dio vuole, ed esciremo di guai.
Non vi ho detto, e vi dico ora, che correva l’anno 990, e ne mancavano ancora dieci al compimento della profezia.
Veramente non si dovrebbe dir profezia, ma piuttosto interpretazione troppo letterale del ventesimo capitolo dell’Apocalisse, dove l’apostolo Giovanni vide dopo mill’anni essere sciolto Satana dalle sue catene, libero di sedurre da capo le genti, per esser poi cacciato egli stesso nel fuoco, da cui le genti illuse e corrotte dovevano essere divorate. Quel passo apocalittico, rispondente a certe tradizioni ebraiche, parve ai primi Cristiani una promessa del regno di Cristo, non già di un regno celeste, ma a dirittura terrestre, mill’anni dopo la sua morte sul Golgota. Papia che fu vescovo di Frigia nel II secolo, narrò di avere avuta intorno a quella materia una rivelazione divina. Era divotissimo uomo, e gli credettero due altri, che la Chiesa santificò, Ireneo e Giustino. Nel III secolo ripetè la stessa dottrina Nepote, vescovo di Arsinoe, in Egitto; ma fu combattuto dall’ardente Origene, detto l’adamantino, e da uno de’ suoi più valorosi discepoli, che fu Dionisio, vescovo d’Alessandria. Dopo costoro, parve spenta la fede nel millennio, e non se n’ebbero più tracce fino ai principii del X secolo. Fu fatta rinascere allora per atterrire le plebi? o per abbattere l’orgoglio dei potenti della terra?
Comunque sia, fu detto allora e creduto che il millennio Apocalittico, durante il quale Satana sarebbe stato incatenato, dovesse computarsi dalla nascita di Cristo. Il felice periodo volgeva allora al suo termine; Satana, adunque, era vicino alla sua liberazione; sarebbe incominciato il regno dell’Anticristo, e, dopo un breve trionfo dei nemici della Chiesa, doveva seguire il giudizio universale, chiudendo il secolo tra le fiamme. Solvet sæclum in favilla.
Il pensiero della fine del mondo era così presente agli spiriti, che persino qualche notaio doveva lasciarcene testimonianza nei rogiti, introducendo nel suo formulario il famoso “properante mundi termine.„ E sicuramente c’era una ragione di farlo, se per l’affrettarsi di quel giorno dell’ira tanti ricchi si disponevano a guadagnare l’indulgenza, donando qualche porzione dei loro beni a chiese e monasteri.
L’effetto della dottrina millenaria fu tale, che, all’appressarsi dell’ultimo anno del X secolo, moltitudini sterminate di popolo disertavano i borghi e le ville d’Europa, per recarsi in devoto pellegrinaggio ai Luoghi Santi di Palestina, convinte com’erano che il monte di Sion sarebbe stato il trono di Cristo quando fosse disceso in veste di giudice, totum mundum judicaturus.
Qual meraviglia se, per propiziarsi il Dio di misericordia, i più tementi dell’ira ventura lasciavano alla chiesa il loro pericoloso fardello di beni terrestri? Forse allora la chiesa prese il costume di concedere loro quei beni a titolo enfiteutico; poichè dopo il Mille, passato senza fuoco nè fumo, vediamo tanti signori esser livellarii della Curia in ogni regione d’Italia, e da quelle famiglie di livellarii ecclesiastici prendere origine la nobiltà consolare in tante città della penisola.
Soltanto i poveri non avevano da lasciar nulla a nessuno; sarebbero andati davanti al giudice supremo semplicemente coperti delle loro miserie, sordida veste che d’ogni parte mostrava le carni ignude e le piaghe, a da credere che a molti potesse parer fortuna una fiammata generale, divoratrice e purificatrice. “Finirà il mondo, se Dio vuole, ed esciremo di guai.„
Ma pur troppo quella grande fortuna si doveva aspettare per dieci anni, sulle terre comandate dal castellano Rainerio. Nè quei poveri servi della gleba avevano speranza di aiuto contro le angherie del castellano. Il conte Anselmo, a cui avrebbero potuto richiamarsi di tante ingiustizie, passava qualche volta, superbo cavaliere, seguito da numerosa scorta, per andare a caccia verso le macchie di Croceferrea, o di Lagorotondo; e tristi i coloni sulle cui terre trascorrevano le sue cavalcate o le mute de’ suoi cani. Meglio era non vederlo, il conte Anselmo, perchè la sua presenza non faceva che aggravare i lor danni. “Piove sul bagnato!„ dicevano essi, malinconicamente, guardando i prati calpestati e i campi d’orzo su cui pareva esser passata la tempesta.
Qualche conforto avrebbe potuto darlo l’autorità ecclesiastica. I ministri del Dio di pace e d’amore ben erano chiamati dall’ufizio loro a dir parole d’amore e di pace. Ma preti e canonici della plebe di Cairo non avevano autorità su quei conti Aleramici, feroci d’indole, rozzi di costume, ancor freschi della conquista. La quale, per essere stata assicurata ad essi in una region di confine, sentiva poco, non solamente l’autorità ecclesiastica, ma anche l’autorità imperiale. A Cairo, del resto, e nelle terre circonvicine, erano ancora turbate le giurisdizioni vescovili. A qual diocesi appartenevano? a quella d’Alba, o a quella di Savona? L’una o l’altra domandavano il pagamento delle decime; or si pagavano a questa, ora a quell’altra, e spesso, per maggior disdetta, a tutt’e due. Ah, veramente, confusione tristissima, e desolazione dell’abominazione, come avrebbe detto Isaia! Venisse il giorno dell’ira, e la facesse finita!
Il lettore discreto ammetterà che fossero molti e gravi i mali di quella povera gente, se il pensiero della sofferenza presente era così forte da farle superare perfino i terrori del finimondo, da farle desiderare il regno dell’Anticristo, con la rispettiva pioggia di fuoco, sotto il cui flagello ricchi e poveri, padroni e servitori, avrebbero perduta egualmente la vita.
Pure, in quel finimondo che invocava come tanti altri, uno di quei poveri sofferenti avrebbe perduto assai più della vita, o, per dire più esattamente, qualche cosa che gli era più cara della vita. Marbaudo era il suo nome; e ad onta di quel nome, che gli scribi del tempo latinizzavano in Marbotus, Marabotus, l’uomo che lo portava non era d’origine Salica, come potrebbe a prima giunta sembrare.
Nella povertà onomastica del calendario di allora, e dovendosi pur chiamare in qualche modo la creatura umana assai prima che ottenesse il battesimo (cerimonia fatta allora a lontani periodi, e per molti insieme, anche già avanti negli anni), i nomi personali erano imposti a capriccio, come venivano in mente, per ricordi di esempi vicini, e senza che i genitori pensassero punto a mantenere nel nome del figliuolo la distinzione di schiatta. Così avvenne che intorno al mille avessero nomi goti, longobardi, salici e borgognoni, tanti e tanti figliuoli di sangue italico, che poi, chiamati per alcuna ragione in giudizio, dichiaravano di vivere sotto la legge romana. La dichiarazione della legge sotto cui uno viveva, era a que’ tempi la testimonianza più nota della sua origine. Molti Romani, cioè nati sotto legge romana, ridotti da tanti secoli di varia dominazione straniera in uno stato di servitù, o poco dissimile dalla servitù, sarebbero stati felici di poter dichiarare, davanti ai giudici, di vivere sotto la legge medesima dei loro padroni. Ma essi non erano Arimanni, purtroppo, non erano uomini liberi, e il giudice lo sapeva meglio di loro. Inutile adunque il mentire; bisognava dire la verità, anche se dicendo la verità tutta quanta si fosse quasi certi di non ottenere che una mezza giustizia.
Or dunque, se Marbaudo fosse stato chiamato davanti a Rainerio, quando il terribile castellano, assistito da uno scriba, rendeva giustizia in nome del suo signore per quelle piccole questioni che il conte Anselmo lasciava in cura alla sua alla saviezza, Marbaudo avrebbe dovuto dichiarare di vivere sotto la legge romana. Ma in cuor suo avrebbe anche soggiunto: “Che romana d’Egitto! qui si vive, pur troppo, sotto la legge del più forte, e non c’è Roma che tenga.„
Marbaudo era nativo di Biestro, piccolo ceppo di case, a quei tempi, nascosto dietro la vetta dei monti, a mezzogiorno di Cairo; ma era sceso a vivere più sotto, in riva alla Burmia, a mezza strada tra i prati di Ferrania, dove ancora non era sorta l’abbazia di tal nome, e la terra di Cairo, che allora incominciava a riprendere per opera feudale un poco di quella importanza che aveva avute in altri tempi sotto il dominio romano. La casa dov’egli viveva, insieme co’ suoi vecchi, aveva nome dagli Arimanni, e il nome ricordava che là era vissuta una famiglia di liberi uomini dell’epoca longobarda. Ma di quei liberi uomini solo il nome era rimasto; i nuovi abitatori di quella casa non erano che poveri aldioni, chiamati colà, trapiantati per comando del signore, a far fruttare un manso, o podere, del conte Anselmo; il qual manso era certamente uno dei più ubertosi della vallata. Ma non c’era pericolo che i parenti di Marbaudo ci diventassero ricchi. Lavoravano come bestie da soma, e i lor sudori andavano a vantaggio del padrone, senza dar loro altro guadagno che la sicurezza del pane quotidiano. Pure, per i tempi che correvano, era già molto aver quello, e la sorte di quella famiglia di contadini destava l’invidia di tutto il vicinato; come a dire di tutti gli aldioni di San Donato, di Ferrania, di Croceferrea, e via discorrendo.
Croceferrea, che mi è accaduto di nominare, e che già incominciava a chiamarsi brevemente Cosseria, traeva il suo nome della croce di ferro che segnava lassù il confine tra le due diocesi di Alba e di Savona. Fra luogo assai contestato, in quel tempo; la curia di Alba voleva la sua parte di decime, e la curia di Savona non voleva rinunziare alla sua. Gli Aleramici, come più vicini, e desiderosi di avere su quel monte un baluardo della loro nascente fortuna, si erano impadroniti della terra e negavano volentieri ad Alba ed a Savona i loro respettivi diritti. Evidentemente i figliuoli d’Aleramo sentivano poco timore del finimondo. E non ne sentiva affatto il castellano Rainerio, che faceva frequenti apparizioni lassù, e frequenti atti di dominio in nome del suo signore e padrone.
Che cosa pretendevano infine da Cosseria quei vescovi lontani, i quali non avevano mai fatto nulla per mantenervi la loro autorità, nel tempo che Cosseria era diventata una sterile e nuda costiera di tufo? La presenza degli Aleramici, offrendo sicurezza ai lavoratori della terra, aveva ridato un nuovo aspetto di coltivazione a quei poggi. Che decime alle curie vescovili? che diritti alla Chiesa? Cosseria entrava nell’àmbito delle terre assegnate da Guido imperatore al conte Guglielmo, assicurate dai successori suoi al marchese Aleramo suo figlio, e, per virtù di giusta divisione tra fratelli, al conte Anselmo suo nipote.
Addio, dunque, diritti di possesso, vantati a gara dalla diocesi di Savona e dalla diocesi d’Alba! Dice il vecchio proverbio curiale che tra due leticanti un terzo gode. Ma questi gode ancor più, se i due leticanti sono lontani, deboli per giunta, o per povertà di ragioni, o per difetto di documenti, o per le stesse difficoltà di qualsivoglia giudizio, quando il giudice è lontanissimo, oppure si trova maledettamente frastornato da cure più gravi. Ora sappiate che il giudice tra Alba e Savona, o tra tutt’e due le diocesi leticanti e il terzo gaudente, non poteva esser altri che l’imperatore. Ma ben altro aveva da fare, per allora, il giudice coronato.
Poc’anzi, l’imperatore era stato Ottone II, cui davano troppi pensieri, da principio la rivalità del cugino Enrico di Baviera, proclamato imperatore contro di lui dal vescovo di Frisinga, e poi la guerra dei Greci, richiamati in Italia, contro di lui, da papa Bonifazio VII. A lui, morto in giovane età, succedeva Ottone III, un bambino, la cui minorità doveva essere insidiata dalle rinnovate pretensioni di Enrico di Baviera, e turbato l’impero dalle guerre continue dei grandi vassalli. Erano tempi grami, e poco poteva provvedere ai lagni di lontani supplicanti il tribunale del sacro Palazzo.
Così, nell’assenza temporanea d’ogni autorità superiore, la giustizia era amministrata in ultimo appello dai conti. E i figli d’Aleramo, come conti di marca, o di confine che vogliam dire, non riconoscevano autorità giudicante sopra la loro propria, che esercitavano tuttavia nel nome dell’imperatore. E dormivano, perciò, le piccole questioni di due diocesi confinanti; e all’una e all’altra, per causa dei loro medesimi contrasti, erano egualmente negate le decime dei luoghi contestati.
Eccovi un esempio, Dodone coltivava un bel podere, sul territorio di Croceferrea. Egli sapeva, per averlo udito dai suoi vecchi, che quella domus culta, o terra coltivata, che egli teneva, era stata fondata dalla curia d’Alba, di cui egli per conseguenza era aldione, o dipendente, come lo erano stati i suoi vecchi. Ma il podere era stato notevolmente accresciuto, e la curia di Savona poteva sostenere che fosse stato accresciuto sul territorio suo. A quale delle due apparteneva oggimai il podere? Dodone avrebbe dichiarato volentieri che quel podere era il suo; ma ben sapeva che questa pretensione non gli sarebbe stata riconosciuta per buona da alcuno, e meno dal conte Anselmo, che giudicava a suo modo e si appropriava volentieri gli oggetti del litigio. Un bel vantaggio Dodone incominciava ad avercelo; non pagava ad Alba nè a Savona le decime; vedessero d’intendersi col conte a cui egli, come povero aldione, obbediente all’autorità più vicina, dava il frutto delle sue fatiche, e da cui finalmente otteneva aiuto e protezione nei momenti di bisogno.
Rainerio, come potete immaginare, confortava con la sua autorità la logica del vecchio Dodone. Era egli che dava l’aiuto e la protezione in nome del conte; egli che rinunziava liberamente ad una parte di tributo, quando gli era dimostrato che quella parte dovesse andare a benefizio del fondo, a restaurare la casa, a rifar la ruota del mulino, o la pescaia per il martinetto. Ora per questo, ora per quest’altro lavoro, aiuto, o consiglio, il castellano era spesso a Croceferrea, dal suo protetto Dodone; vedeva coi suoi occhi tutto quanto bisognasse per migliorare quella tenuta, da lui chiamata la perla dei possedimenti di conte Anselmo; e vedeva anche, e guardava molto un’altra perla, che era la figliuola di Dodone, la bella Ingetruda, che noi, imitando gli abbreviatoci volgari del tempo, chiameremo Getruda.
Vi ho detto che era bella; aggiungerò che era alla della persona, e bionda di capegli, e bianca di carnagione. Veramente, più che bionda si poteva dir rossa; ma ci sono tante gradazioni nei colori, che l’occhio non può sempre distinguere il punto di mezzo, e giudicare se quella tal gradazione penda di qua o di là, tra il biondo smorto e l’acceso. Anche la bianchezza della carnagione appariva qualche volta offesa da una mezza tinta ferrigna; ma poteva essere effetto d’abbronzatura del sole, e dopo tutto, se fosse stato effetto di lentiggini, non è detto che le lentiggini scemino bellezza ad un viso di donna, o possano far meritare il nome di bruna ad una bianca figura. Gli occhi di Getruda erano grandi, colmo il petto e la vita snella, tonde le braccia e stupende le mani. Si capiva, al primo vederla, che Getruda non lavorava molto nei campi, quantunque fosse nata per quella vita faticosa. Dodone amava la figliuola, e la figliuola non amava il rozzo lavoro in cui si erano incallite le mani e curvate le spalle del padre.
Una donna che non lavora, che fa? Pensa naturalmente, ed è anche naturale che pensando ami. Pure, guardate che stranezza! Getruda non amava. Di questo che io vi affermo per scienza mia, avrebbe potuto farvi testimonianza il canonico Ansperto, della chiesa di Santa Maria di Cairo, a cui la ragazza confidava qualche volta i segreti di un’anima fiaccamente cristiana.
E non istate a credere che fosse fiacca la fede solamente in lei. Questo era il difetto del secolo, e le pratiche religiose non avevano allora la regolarità e la frequenza di tempi a noi più vicini. La confessione, per esempio, non era ufizio regolare di pietà, ma solamente si usava come rimedio per casi gravi, o si considerava una libera consultazione di circostanze solenni. Fino al secolo XIII i fedeli non ebbero dalla Chiesa altro obbligo di confessarsi, fuorchè il bisogno, variamente sentito, della propria coscienza. L’uso era assai trascurato, nei tempi di barbarie, o di mezza barbarie, che corsero dalla caduta dell’Impero romano all’apparir dei Comuni. Solo nel 1215 il quarto Concilio Lateranense reputò necessario d’imporre ad ogni fedel cristiano, sotto le pene più rigorose, l’obbligo di confessarsi almeno una volta all’anno.
Ma se quest’obbligo doveva essere stabilito per il sesso forte, ancor troppo imbevuto della ferocia medievale, è lecito di credere che il sesso debole usasse accostarsi più di sovente al tribunale della penitenza. “Devoto femineo sexu„; con queste parole lo celebrava la liturgia cristiana, che non aveva ragioni per dire lo stesso degli uomini. Gran mercè se gli uomini, i quali si accontentavano di assistere ai divini uffizi dall’ingresso della chiesa, non impedivano alle donne loro di chiedere consiglio nei casi gravi e conforto nelle afflizioni ai ministri dell’altare. I quali, poi, al tempo di cui narro, andavano distinti dal comune degli uomini per istudio di lettere, e per quel po’ di dottrina che vien dallo studio, in una società generalmente rozza e ignorante.
Così, accostandosi qualche volta al tribunale di penitenza, secondo il costume del suo sesso, la bella Getruda ascoltava i consigli del canonico Ansperto, e si sentiva dire due o tre volte l’anno che il demonio non tenta la creatura soltanto con le immagini d’amore, ma ancora e peggio con quelle della vanità e dell’ambizione. Queste, a detta del venerando ministro, avevano già perduto più donne, che per la parte sua non avesse fatto l’amore. Il quale, come sentimento naturale dei figli d’Adamo, e nella sua essenza non reo, poteva anche volgersi a bene; laddove dall’ambizione e dalla vanità, particolarissimi sentimenti del grande ribelle, non era a temer altro che male, affanno e delusione in questa vita, desolazione e dannazione nell’altra.
— Tu non ami, figliuola, e fai bene, — diceva Ansperto alla bionda Getruda. — Così ti prepari, obbediente e pura, ad amar l’uomo che tuo padre ti destinerà. Ma poichè il cuore è libero, e la tua mente può troppo esaltarsi alle lodi del mondo, io ti esorto a non voler guardare troppo alto. È voce comune che una donna possa ascendere ad un trono. Ma i troni, figliuola mia, son pochi, e il favore dei potenti non è sempre volto a ricompensare la virtù, molto meno a rispettarla e custodirla dove la trovi, accompagnata al fugace dono della bellezza. Iddio sceglie le creature che vuole inalzare, e le sceglie tra le modeste e le umili. Sii modesta ed umile, Getruda; abbi sempre davanti agli occhi l’esempio della fanciulla di Nazaret. —
Piaceva alla bianca Getruda di sentir dire che una donna può ascendere ad un trono. È così bello, un trono! E guardava a mala pena la gente, e non dava retta a nessuno dei tanti che le bisbigliavano dolci parole; perchè nessuno aveva un trono da offrirle, e neanche un posto onorevole sui gradini di un trono. Non è a dire che la segreta ambizione dell’animo suo la rendesse cieca a tal segno da non poter più distinguere nessun pregio in quei poveri aldioni del suo ceto, che a tanta ambizione avevano pur dato ansa con le loro paroline soavi, e più coi loro estatici silenzi. Erano parecchi, i bei giovanotti, a Cosseria, e via via lungo le due valli di Cairo e Millesimo. Ma su tutti riportava la palma quello di Biestro, sceso coi suoi ad abitare al piano, sotto Cosseria, nella casa degli Arimanni.