Il prato maledetto/II
Questo testo è completo. |
◄ | I | III | ► |
Capitolo II.
Di un nuovo Landerico, che andava in traccia di un’altra Fredegonda.
Marbaudo era un bel giovinotto bruno, gagliardo di membra, e mite d’animo, poi, così mite, che in certi momenti non pareva aver coscienza della sua forza. Agile e destro nei giuochi, com’era valido allo maggiori fatiche, aveva nello sguardo una grazia quasi infantile, e portava con un corto garbo le sue umili vesti di montanaro.
Quel giovane atleta, che pareva così timido alla presenza delle donne, era audacissimo nelle cacce sui monti, infestati allora da lupi, e nelle corse notturne per valli e foreste. Nell’inverno, quando un lenzuolo di neve si stendeva a più doppi su quegli ultimi sproni delle Alpi, le donne di Cosseria si radunavano alla veglia nelle grandi stalle di Dodone; e là, confortate dal caldo, in mezzo ai buoi che riposavano sui loro giacigli di paglia spesso rinnovata, al fioco lume di una lanterna sospesa al trave di mezzo, vecchie e giovani filavano allegramente. Non tutte, s’intende, riescivano a filare le due conocchie per sera, che sono l’obbligo e l’onore della buona filatrice. Le giovani, per esempio restavano troppo spesso incantate ai racconti di fate e di versiere che qualche vecchio faceva; o troppo spesso si fermavano a ridere, per qualche graziosa parola sussurrata al loro orecchio dai giovanotti, che stavano dalla parte loro, o seduti su d’una panca, o ritti con la spalla al muro.
Quando c’era Marbaudo (e c’era spesso, non dubitate), anch’egli raccontava le sue storie. E piaceva alle vecchie, che non offendeva mai, mutandole in vecchie streghe, come è vizio della gioventù, che non pensa di doverci arrivare anche lei, all’età dei capelli bianchi e arruffati, delle faccie grinzose e delle bocche sdentate. Nè piaceva meno alle giovani, perchè le maritava sempre a figli di conti e di imperatori, per l’intromissione cortese di spiritelli arguti e di fate benefiche.
Marbaudo raccontava bene, qualche volta un po’ timido e perplesso nella frase, ma sempre con accento commosso, dando colore di verità alle cose narrato. Ed anche Getruda stava a sentire con piacere i racconti di Marbaudo; gli rendeva giustizia, anteponendolo facilmente a tutti i giovani suoi pari; e là, in quella mezza luce della stalla, mentre egli narrava, non era troppo lontana dal credere che fosse anch’egli, come gli eroi delle sue favole, un figlio di conte, o d’imperatore, travestito da montanaro, e venuto a nascondersi in mezzo a quel popolo di contadini, per grande amore d’una bianca e bionda fanciulla, la cui bellezza gli sembrasse degna di ascendere ad un trono.
Aggiungete che era sempre molto lieta di poter ricordare che Marbaudo, abitando agli Arimanni, cioè lontano assai dalla casa di Dodone, doveva fare una gran corsa per venire lassù, e un’altra, egualmente lunga, ma assai più difficile, per ritornarsene agli Arimanni. Per solito, nelle grandi stalle del vecchio Dudone, la veglia finiva a mezzanotte. E allora l’animoso Marbaudo si congedava come tutti gli altri. Ma quelli abitavano nei pressi; e in pochi minuti, per sentieri battuti e conosciuti, si riducevano alle case loro; laddove Marbaudo, avviandosi allo scarso lume delle stelle, quando pure si vedevano stelle, doveva ritrovare per declivii di colline, per forre e burroni, un mutevole sentiero sulla neve vecchia, o indovinarne un altro sulla nuova, col pericolo continuo di sdrucciolare in qualche fossato, o di abbattersi nel lupo; cattivo incontro, in quelle ore; e pessimo, poi, se era un lupo mannaro.
— Marbott è un grande diavolo, — si diceva; — egli non ha paura nè dei lupi creati da Domineddio, nò dei lupi mannàri, sotto la cui pelle vanno in volta le streghe. Agli uni e agli altri sa assestare una buona legnata, e nel dubbio che non basti, v’aggiunge il i segno della santa croce. — Barrili. Il prato maledetto. 4
Come vedete, Marbaudo era ritenuto un diavolo, ma un diavolo di buon’indole, un diavolo buon cristiano, poichè sapeva all’occorrenza fare il segno della croce, che metteva in fuga i lupi mannari. Del resto, già fin di allora si dava del diavolo per celia, e s’intendeva di dire un brav’uomo, capace di cavarsi da ogni passo difficile. E così, quando si diceva il diavolo di Biestro, il diavolo degli Arimanni, s’intendeva sempre Marbaudo, che abitava agli Arimanni, e che veniva da Biestro.
La celia faceva sorridere il giovanotto, che ben sapeva, senza essere vano, di non somigliar punto, neanche lontanamente, a quella brutta figura antipatica che la leggenda ha regalata allo spirito delle tenebre. In due cose soltanto era un po’ diavolo: nell’andar molto in giro di notte, del che sappiamo oramai la cagione, e nel vederci molto bene di notte, cosa che può essere conseguenza naturale dell’altra. Infatti, è noto che un senso si aguzza e si perfeziona quanto più accade di esercitarlo.
Getruda, adunque, per cui Marbaudo faceva tutte quelle fatiche invernali, Getruda vedeva abbastanza di buon occhio Marbaudo. Per altro, non andava niente più in là; e questo intenderete facilmente, ora che conoscete il carattere, le inclinazioni e i sogni della bella figliuola di Dodone.
— Getruda, — le aveva detto un giorno Marbaudo, trovandola sola sull’uscio della casa paterna, — vuoi che ti parli col cuore in mano?
— Io non ho da voler nulla; — aveva risposto Getruda. — Sei tu che devi volere, se la cosa ti torna.
— Bene, diciamo dunque: permetti che ti dica una cosa? —
La fanciulla aveva assentito, con un lieve cenno del capo.
Non aveva gran voglia di accogliere una domanda, che già prevedeva; ma non le era punto spiacevole di sentirsi dire con le labbra dal più bel giovanotto della vallata, quello che tante volte le aveva detto con gli occhi.
Ma egli non si fermò ai preliminari che un cavaliere moderno avrebbe senza fallo attaccati, e in cui si può rimanere a lungo, con diletto non lieve di una bella ascoltatrice. Marbaudo non sapeva l’arte, o la dimenticava, per amore di sincerità ;e perciò venne difilato al punto essenziale per lui.
— Getruda bella, — diss’egli, proseguendo, — se tuo padre acconsentisse ai miei desiderii.... se tu non dicessi di no.... sarei il più felice tra tutti gli uomini che bevono acqua di Burmia. —
La fanciulla non avrebbe voluto andare così a precipizio verso la conclusione; intorno alla quale non aveva ancora disegni formati. A lei era piaciuto l’epiteto da cui era stato accompagnato il suo nome, e a quell’epiteto le sarebbe anche piaciuta la coda di un commento, di una amplificazione retorica. Che diamine! Non era Marbaudo un discorritore famoso, quando parlava davanti ad una numerosa udienza, nelle lunghe veglie d’inverno? E come andava, che non sapesse più mettere insieme una dozzina di belle frasi, quando si trattava di parlare da solo a sola con lei?
Mettete dunque che non fosse troppo contenta di quella scarsa prova d’eloquenza, e della forma interrogativa che le aveva data Marbaudo.
Per intanto, ella non rispose parola. Parve turbata, come da una domanda improvvisa, che troppo significhi dell’animo di chi la fa, e troppo voglia sapere dell’animo di chi l’ascolta. E turbata com’era, o come voleva parere, si lasciò cadere il fuso, che stava appunto allora girando tra le dita. Marbaudo si era affrettato a raccogliere il fuso, e lo aveva pòrto alla fanciulla; e la sua mano si era incontrata, per quell’atto, con la mano di lei. Il sangue gli aveva dato un tuffo nel cuore; nò più osando dimandare, si contentò della tacita risposta che Getruda avea dato, lasciando cadere il fuso, e permettendo che Marbaudo lo raccogliesse da terra.
Tutti i paesi e tutti i ceti sociali, si sa, hanno le loro consuetudini. Se fossero stati in Oriente, per contentare Marbaudo ci sarebbe voluto che la donna de’ suoi pensieri lasciasse cadere un tulipano; perchè sembra che laggiù le donne abbiano sempre un tulipano lì pronto, per lasciarselo sfuggire dalle dita. Sulla Burmia, al tempo delle rocche e dei fusi (il tempo che Berta filava, ahimè!), Marbaudo poteva contentarsi di un dolce turbamento, che faceva cadere un fuso dalle mani di una bella filatrice.
Il giovanotto si era allontanato, dopo aver messo in un sospiro il resto della sua dichiarazione. E la fanciulla era rimasta immobile al suo posto, seguendo lui che partiva, con un’occhiata lunga lunga: una di quelle occhiate che il moto delle labbra non accompagna, e che perciò dicono così poco; se pure non dicono per l’appunto che non si vuole dir nulla.
Poco dopo la partenza di Marbaudo, giungeva a Croceferrea il castellano Rainerio. Era a cavallo, e sempre accompagnato da un famiglio, armato fino ai denti, e per difesa del padrone e per mostra della sua autorità. Al fianco dei conti di marca si venivano formando queste nuove nobiltà, sorte dagli ordini servili e portate in alto dal favore della domesticità. Così ai fianco dei re già erano nati i conti; le cariche di palazzo, come furono chiamate in processo di tempo, divennero uffizi ereditarii, e quanto più s’allontanarono dal trono acquistarono forza propria, mutandosi in vere signorie indipendenti. E queste signorie, sul medesimo esempio delle origini loro, ne producevano altre, nei loro giudici, castellani e castaldi.
In questa guisa Rainerio s’incamminava a diventar nobile anch’egli. Già si poteva crederlo tale, per il comando che esercitava, c per il tono d’alterigia con cui trattava la gente. L’uomo, in verità, non è mai tanto per gli altri quanto egli stesso si tiene; ma per contro è certissimo che ad essere tenuto da più del vero, occorre incominciare a stimarsi molto da sè. I modesti non furono mai glorificati, gli umili non furono mai esaltati, se non forse in qualche pagina di libro, santo fin che volete, ma scritto in latino, e venerato anche, ma poco letto dal volgo.
Getruda sorrise al castellano, che era smontato da cavallo e veniva verso di lei, spianando le sopracciglia e componendo il volto ad una espressione di umanità signorile. Non era bello, il castellano Rainerio; aveva i lineamenti risentiti e duri, che davano alla sua faccia un aspetto sinistro; ma una barba nerissima, di cui aveva gran cura, accomodava bastantemente, accompagnandola, quella durezza di profilo aquilino, a cui rispondeva la imperiosità dell’occhio grifagno. Le sopracciglia del personaggio erano folte ed ispide, anche spesso corrugate; ma scendeva ad ammorzarne la terribilità castellana il berretto a testiera tonda, con l’ala arrovesciata torno torno, che somigliava abbastanza al cerchio baronale imitato dalla corona dei re merovingi. La statura era vantaggiosa e le membra gagliarde, a cui non istava male il giustacuore di cuoio, mezzo nascosto da una corta zimarra di scarlatto verde, aperta tanto sul petto da lasciar vedere la moneta romana imperiale, che pendeva, simbolo d’autorità, da una catenella d’oro massiccio.
Vi ho detto che le sopracciglia del fiero uomo si erano spianate, alla vista di Getruda. Le sue labbra si dischiusero a parole d’insolita cortesia, per rispondere al sorriso della fanciulla.
— Che fa la bella Getruda? — chiese egli, accostandosi.
— Tu lo vedi, mio signore; io filo alla conocchia, come porta il mio povero stato.
— Non lo dire, bella Getruda. È anche delle regine e delle imperatrici il filare, per conforto alla noia delle troppo lunghe giornate.
— Ma io, ser castellano, non sono imperatrice, nè regina, e filo per la tela di casa.
— E per il corredo di sposa, non è vero? — replicò Rainerio. — Beato a cui queste bianche mani fileranno la camicia di nozze! —
Getruda chinò la fronte, arrossendo.
— Quantunque, — soggiunse egli tosto, avvicinandosi ancora, e parlando sottovoce, — io non ti auguri, o Getruda, di ritrovare un marito, che sarebbe indegno di te. La tua bellezza è troppo grande per questa turba di aldioni; essa è fatta per risplendere in più alto luogo; per comandare, dovunque ella appaia, e non per obbedire, non per dar progenie di servi a figliuoli di servi. —
Il pensiero di Rainerio, anche espresso in quella forma, rispondeva ad un secreto pensiero della bella Getruda.
L’arditezza dell’espressione era molta, in verità, ma la scusava il carattere e il grado di colui che parlava. Il concetto, per intanto, era buono per lei; così bisognava ragionare, per giungere al cuore della bella ambiziosa.
Rainerio non era uomo da perdere il suo vantaggio, e da fermarsi a quel poco che aveva già detto.
— Getruda è bianca e bionda — soggiunse — ha l’occhio azzurro delle figliuole dei re. Non s’abbassi ai servi della gleba quell’occhio divino. Quella bocca tinta di porpora imperiale faccia felice de’ suoi sorrisi un potente che ne senta il pregio inestimabile e sappia metterla in vista, non d’altro geloso che della gloria maggiore a cui ella è chiamata. Chi sa? amata da un potente, potrà piacere ad un più alto signore. Il valore dell’uomo che ella avrà incominciato a distinguere e a premiare, potrà essere per lei il primo gradino del trono su cui un giorno dovrà risplendere.
— Che dice il mio signore? — mormorò la fanciulla. — Posso io, figlia d’aldioni, guardar così alto?
— Perchè no? — rispose Rainerio. — In più umile stato nasceva Fredegonda, di cui l’altro giorno, alla corte di Anseimo, fu narrata la storia. Fantesca delle prime mogli di Chilperico, innamorò delle sue bellezze il monarca, che a lei pospose perfino la nuova sua moglie, Galsvinta, figliuola del re dei Goti. Fredegonda non aveva solamente il volto, ma anche l’anima regale; e regnò sul cuore di Chilperico, e divenne sua moglie, e gli succedette nel comando del più bel reame che al mondo fosse. Chi aveva messo in luce costei? Landerico, un prode uomo e buon servitore del re; Landerico, che ebbe primo il sorriso di tanta bellezza, e senti che non poteva rinchiuderla per sè, nasconderla agli occhi del mondo, ma che doveva in quella vece lasciarla sfolgorare in alto, felice se fino agli estremi di sua vita qualche raggio pietoso ne piovesse ancora su lui. —
Fremeva ella a quei discorsi, di cui era così chiaro il significato e l’applicazione al caso suo; fremeva di paura e insieme di piacere, come quando in sogno ci avviene di cadere da una grande altezza, e temiamo di andar sfracellati sul terreno, che biancheggia nel fondo, ma sentiamo frattanto che l’aria greve ci sostiene e ci porta. Fremeva, dico, e guardava davanti a sè con occhio immobile e freddo, a cui rispondeva lo sguardo cupido, ardente, del nero castellano.
Rainerio si fece ancora più presso a Getruda, e saltando molta parte di dialogo, che del resto era stata fatta abbastanza chiaramente dagli occhi, così conchiudendo le disse:
— Pensaci, bella Getruda, e non impegnare il tuo cuore coi servi della gleba, tu nata per più allegro destino. Son io che te lo affermo, io già così alto, e ancor destinato a salire; per te, con te, se vorrai. —
Il vecchio Dodone appariva in quel punto, risalendo il poggio, da dietro un filare di viti. Getruda fu la prima a vederlo, e il gesto del suo volto avverti Rainerio dell’appressarsi del vecchio. Il quale, per altro, non parve darsi molto pensiero di una conversazione come quella, tra il castellano e la bianca Getruda. Rainerio faceva spesso la salita di Croceferrea; nè sempre gli accadeva di trovare il vecchio aldione davanti alla casa; nè mai mostrava desiderio di vederlo subito, restando volentieri a discorrere con la sua bella figliuola.
I castellani, si sa, son sempre di buon umore, quando parlano con le donne; gran mercè che vi siano donne, e piacenti di aspetto, nella casa del povero aldione, per render più umano, più facile ai perdoni e alle proroghe, un eterno ricevitore di tributi. Ammiccò dunque, il vecchio Dodone, con l’occhio piccolo e bianco sotto le ispide ciglia e sotto le palpebre aggrinzate; e il furbo ammicco si mutò in un sorriso melenso, quando Rainerio si mosse alquanto verso di lui, con la benignità dell’amicizia, non disgiunta dalla gravità del carattere padronale. Rainerio, infatti, era come un padrone, poichè esercitava tutti gli uffizi del padrone. Lassù il conte Anselmo non era salito mai; di rado lo avevano veduto in quelle valli, e Sempre da lontano, quando passava con grande cavalcata di amici e servitori, per dar caccia alla selvaggina di quelle boscaglie, coi falconi o coi cani da giungere.
Rainerio e Dodone ragionarono a lungo, presso un filare di viti, dove finiva il pergolato. E Getruda continuava a filare sull’uscio, guardando ora il castellano, che era un bell’uomo, come son belli dal più al meno tutti i signori per la gente del contado, ora spingendo gli occhi più in là, verso i faggi e gli abeti del Ronco di Maglio, che nascondevano a lei le terre ignote, le terre maravigliose, su cui Fredegonda aveva regnato, per il solo diritto della sua grande bellezza.