Il comento sopra la Commedia di Dante Alighieri di Giovanni Boccaccio. Tomo III/Capitolo dodicesimo

Capitolo dodicesimo

../Capitolo undecimo ../Allegorie del dodicesimo capitolo IncludiIntestazione 20 maggio 2017 75% Da definire

Capitolo undecimo Allegorie del dodicesimo capitolo
[p. 61 modifica]

CAPITOLO DODICESIMO


Era lo loco, ove a scender la riva ec.

Continuasi il presente canto al precedente assai evidentemente; perciocchè avendogli mostrato Virgilio davanti la universal disposizione dell’inferno, e sollecitandolo a continuare il cammino; e mostratogli il balzo lontano a loro smontarsi, qui ne dimostra come a quello luogo pervenuti, qual fosse la qualità del luogo per lo quale a scendere aveano: e dividesi il presente canto in sei parti: nella prima, come detto è, dimostra la qualità del luogo per lo quale aveano a scendere, e cui sopra quello trovassero: nella seconda pone come scendessero, e alcuna cosa che di quella scesa gli ragiona Virgilio: nella terza descrive [p. 62 modifica]come Virgilio gli mostrasse un fiume di sangue, e che gente d’intorno v’andasse: nella quarta mostra, come Virgilio parlasse a’ Centauri che ’l fiume circuivano, e fossenegli un conceduto per guida: nella quinta dice, come seguendo il Centauro, esso dimostrasse loro le pene de’ tiranni e de’ rubatori: nella sesta e ultima, come avendo il Centauro passato l’autore dall’altra parte del fiume, se ne tornasse indietro: la seconda comincia quivi: Così prendemmo via: la terza quivi: Ma ficca gli occhi: la quarta quivi: Vedendoci calar: la quinta quivi: Noi ci movemmo: la sesta e ultima qui; Poi si rivolse. Dice adunque, Era lo loco: ove la lettera si vuole così ordinare: Lo loco ove venimmo a scender la riva, era alpestro, dice la riva intendendo per la ripa; e questo dico perciocchè molti fanno distinzione tra riva e ripa; chiamando riva quella del fiume, e ripa gli argini che sopra le fosse si fanno, o dintorno alle castella, o ancora in luoghi declivi, per i quali d’alcun luogo alto si scende al più basso, come era in questo luogo: e dice questo luogo essere alpestro, cioè senza alcuno ordinato sentiero o via, siccome noi il più veggiamo i trarupi dell’alpi e de’ luoghi salvatichi: e oltre a ciò dice, che tal, per quel, ch’ivi er’anco, cioè per lo Minotauro, che in quel luogo giacea come appresso si dimostra, Che ogni vista ne sarebbe schiva, a doverlo riguardare. E per più aprirne la qualità del luogo mi dimostra per un esemplo, e dice che egli era tale,

Qual’è quella ruina, che nel fianco

[p. 63 modifica]

Di là da Trento l’Adice percosse,

è questa una ruina, la quale si trova andando da Trento città di Lombardia, verso Tiralli su per l’Adice, la quale dalla sommità d’un monte discende tutta in su la riva dell’Adice: e la cagione di questa ruina del monte pare essere stata l’una delle tre cose, o l’essere stato il monte percosso nel lato dall’impeto del fiume, il quale scendendo dalle montagne propinque, viene ne’ tempi delle piove con velocissimo e impetuoso corso, e così percotendo il monte, il quale non è di molto tenace terreno, il fece ruinare come si vede: o veramente cadde parte del detto monte per alcun tremuoto che fu nella contrada, come assai ne caggion per lo mondo: o cadde per mancamento di sostegno. È in assai parti la terra cavernosa, e in queste caverne è quasi sempre acqua, la quale evaporando, e umettando le parti superiori delle caverne, sempre le rodono e indeboliscono; perchè avvien talvolta che premute molto dal peso superiore, non potendolo più sostenere, cascano, e così casca quel che di sopra v’era: e quinci talvolta procedono le voragini, le quali abbiamo udite o lette essere in alcun luogo avvenute: e avendo adunque l’autor detto, l’Adice percosse, pone l’altre due cagioni per le quali potè avvenire dicendo,

O per tremuoto, o per sestegno manco:

è il tremuoto causato da aere rinchiuso nel ventre della terra, il quale essendo molto, e volendo uscir del luogo nel quale è racchiuso, con tanta forza alcuna volta si muove dall’una parte all’altra della caverna, che egli fa tutte le parti circunstanti tremare; [p. 64 modifica]ed è talvolta il tremito di tanta potenza, che egli fa cadere gli edificii e le città, alle quali egli è vicino. Seguita poi l’autore a farne quel che intende, cioè chiara la qualità del luogo, e dice, Che da cima, cioè dalla sommità, del monte onde si mosse, quella ruina della qual parla,

Al piano, è sì la roccia discoscesa,

Ch’alcuna via darebbe, al venir giuso al piano, a chi su fosse, cioè sopra il monte, Cotal di quei burrato, Burrati spesse volte si chiaman fra noi questi trarupi de’ luoghi alpigini e salvatichi; e perciò dice che di quel burrato, cioè trarupo dove venuti erano, era la scesa, cotale qual del monte trarupato che dimostrato ha, E ’n su la punta, cioè in su la sommità, della rotta lacca, cioè ripa,

L’infamia di Creti era distesa,

cioè il Minotauro, la cui concezione fu sì fuori de’ termini naturali e abominevoli che all’isola di Creti, nella quale esso fu secondo le favole generato, ne seguì perpetua infamia, Che fu concetta, questa infamia di Creti, nella falsa vacca, cioè in una vacca di legno come appresso dimostrerò. È adunque da sapere, come di sopra nel quinto canto di questo libro, dove si tratta di Minos, è detto, che volendo Minos andare sopra gli Ateniesi a vendicare la morte d’Androgeo suo figliuolo, il quale essi e i Megaresi aveano per invidia ucciso, domandò a Giove suo padre, che gli piacesse mandargli alcuno animale, il quale, siccome degna vittima, a lui sacrificasse nella sua andata: al cui prego Giove gli mandò un toro bianchissimo e bello; il qual toro piacque tanto a [p. 65 modifica]Minos che esso non l’uccise, ma guardollo per averne allievi tra gli armeuti suoi: di che seguì che Venere, la quale odiava tutta la schiatta del Sole, perciocchè da cui era stato manifestato a Vulcano suo marito e agli altri iddii l’adulterio nel quale ella stava con Marte; fece che Pasife, moglie di Minos e figliuola del Sole, s’innamorò di questo toro così bello: e andato Minos ad Atene, pregò Dedalo, il quale era ingegnosissimo uomo, che le trovasse modo per lo quale essa potesse giacere con questo toro; per la qual cosa Dedalo fece una vacca di legno vota dentro, e fatta uccidere una vacca, la quale parea che oltre ad ogn’altra dell’armento piacesse a questo toro, e presa la pelle di quella, ne coperse la vacca del legno, e fece Pasife entrarvi entro, e stare in guisa, che estimando il toro questa esser la vacca amata da lui, si congiunse con Pasife; del qual congiugnimento dicono si creò, e poi nacque una creatura la quale era mezza uomo e mezza toro; Il quale cresciuto, e divenuto ferocissimo animale, e di maravigliosa forza, dicono che Minos il fece rinchiudere in una prigione chiamata laberinto, e in quella mandava a lui tutti coloro i quali voleva far crudelmente morire, e questo Minotauro gli uccideva e divorava. Ed essendovi, siccome in sorte toccato gli era, venuto Teseo figliuolo d’Egeo re d’Atene, e quivi dimorato alcun dì, e in quegli Adriana figliuola di Minos e di Pasife innamoratasi di lui, e avendo avuta la sua dimestichezza, e per questo avendo compassion di lui, gl’insegnò come dovesse fare quando giugnesse a questo Minotauro, e come dietro ad uno spago se [p. 66 modifica]ne tornasse fuori della prigione, la qual cosa Teseo fece: e giunto al Minotauro, il quale con la gola aperta gli si fece incontro, gli gittò in gola una palla di certa composizione viscosa, la quale mentre il Minotauro attendeva a divorare, Teseo datogli d’un bastone sopra la testa e uccisolo, secondo l’ammaestramento datogli da Adriana, dietro allo spago che portato avea tornandosene, e così uscito del laberinto, con Adriana e con Fedra sua sorella, occultamente partitosi di Creti, se ne tornò ad Atene: e così predetta questa favola, più lievemente comprender si può il testo che segue, il qual dice, E quando, quel Minotauro, vide noi, che venivamo, sè stesso morse, Siccome quei, si morde, cui l’ira dentro fiacca, cioè rompe e divide dalla ragione, dalla quale lasciato in sè medesimo bestialmente incrudelisce: ed è qui per questo bestiale animale primieramente da comprendere, qual sia la qualità de’ peccatori che nel cerchio dove discendono si punisca; la quale assai manifestamente si può comprendere essere bestiale, poichè per l’animal preposto al luogo convenientemente, sì per la generazione e sì per gli atti, la bestialità si descrive. Appresso è da comprendere, quello nella entrata di questo cerchio settimo opporsi all’autore, che negli altri cerchi superiori è dimostrato continuamente opporsi, cioè alcun demonio, il quale o con atti o con parole si sforzi di spaventar l’autore, e di ritrarlo per paura dal suo buon proponimento; dal qual senza dubbio più volte sarebbe stato rimosso, se i buon conforti e l’aiuto della ragione non l’avesse, nella persona di Virgilio, [p. 67 modifica]aiutato. Seguita adunque quel che Virgilio incontro alla rabbia, la quale questa fiera bestia mordendosi, a reprimere quella dicesse, acciocchè spazio desse di passare all’autore, e però dice: Lo savio mio Virgilio, in ver lui gridò, cioè parlò forte verso il Minotauro: forse

Tu credi, che qui sia ’l duca d’Atene,

cioè Teseo,

Che su nel mondo la morte ti porse?

come nella fine della favola detta di sopra si contiene: Partiti, bestia, del luogo dove tu se’ per impedire il passo a costui che mi segue, che questi, il qual tu vedi meco, non viene

Ammaestrato dalla tua sorella,

cioè Adriana, come venne Teseo, il qual t’uccise, Ma vassi, come è piacer di Dio, per veder le vostre pene, di te e degli altri. E queste parole dette, ne mostra l’autore per una comparazione quello che il Minotauro allora rabbiosamente facesse, e dice, Qual’è quel toro, che si slaccia, cioè sviluppa e scioglie da’ legami postigli da coloro che uccidere il vogliono, o che ferito l’hanno, in quella, ora,

C’ha ricevuto già ’l colpo mortale,

Che gir non sa, perciocchè avendo dalla percossa datagli intronato il cerebro, e perduta la ragione delle virtù sensitive, ed eziandio perduto l’ordine dell’appetito, il quale a niun determinato fine ora il sa menare, e perciò non va, ma qua e là saltella, come l’impeto del dolore il sospigne;

Vid’io il Minotauro far cotale,

cioè senza saper che si fare, o dove andare, andar [p. 68 modifica]saltando e furiando: E quegli, cioè Virgilio, accorto, gridò, cioè avvedutamente mi disse: corri al varco, donde vedi si può discendere, e il qual questa bestia poco avanti occupava:

Mentre ch’ è ’n furia, è buon, che tu ti cale,

quasi voglia dire, quando in furia non fosse, sarebbe più difficile il poter discendere e in ciò n’ammaestra, alcuno altro consiglio non esser migliore, quando l’iracundo in tanta ira s’è acceso che furioso è divenuto, che il partirsi e lasciarlo stare. Così prendemmo. Qui comincia la seconda parte del presente canto, nella quale si dimostra come discendessero, e alcuna cosa che di quella scesa gli ragiona Virgilio: dice adunque, Così prendemmo via, essendo il Minotauro in furia, giù per lo scarco, Di quelle pietre, le quali erano dalla sommità di quello scoglio cadute, come caggiono le cose che talvolta si scaricano, che spesso moviensi

Sotto i mie’ piedi per lo nuovo carco,

cioè per me, il quale andando le caricava e premeva, perciocchè era uomo, il che far non soglio non gli spiriti; e però dice nuovo carco, perchè non era usato per quel cammino d’andare persona viva, la qual quelle pietre col carco della sua persona premesse. Io già pensando: qui mostra Virgilio d’aver conosciuto il pensier dell’autore per avviso, non già che altra certezza n’avesse, e però dice: e que’ disse: tu pensi

Forse a questa ruina, ch’è guardata
Da quell’ira bestial, ch’io ora spensi.

Come sia potuta avvenire, avendo riguardo al luogo [p. 69 modifica]nel quale tu non estimi dover potere esser quelle alterazioni, le quali sono vicine alla superficie della terra: e oltre a ciò, perciocchè dice da quella ira bestiale, potrebbe alcun dire, se quello Minotauro era iracundo, non pare cbe l’autore il dovesse in questo luogo descrivere, ma piuttosto di sopra nella palude di Stige, dove punisce gli altri iracundi: ma questo dubbio assai ben si dimostra soluto per l’adiettivo il quale dà a questa ira chiamandola ira bestiale, la quale si dee intendere essere ira in tanto trapassata i termini dell’ira umana, che ella è trasandata nella bestialità, e per conseguente convertita in ostinato odio, e perciò altamente esser posta alla scesa del cerchio settimo, nel quale si puniscono i bestiali: ma Virgilio a solvere l’autore dal suo pensiero, il quale tacendo confessa esser per quella cagione che Virgilio dice, comincia continuandosi così,

Or vo’ che sappi, che l’altra fiata,
Ch’io discesi quaggiù nel basso inferno,

come di sopra è stato detto nel canto nono,

Questa roccia non era ancor cascata,

e perciò gli dimostra quando ella dovesse cascare dicendo:

Ma certo poco pria, se ben discerno,

immaginando, Che venisse colui, cioè Cristo, che la gran preda, cioè i santi padri, Levò a Dite, cioè al principe de’ dimoni; il quale quantunque abbia altri nomi, nondimeno talvolta da’ poeti è chiamato Dite, come appare per Virgilio nel sesto dell’Eneida dove dice, Inferni regia Ditis, del cerchio superno, cioè del limbo, il quale è il primo [p. 70 modifica]cerchio dell’Inferno; e perciò dice Virgilio, poco prima che venisse Cristo a spogliar il limbo, perciocchè secondochè noi fermamente crediamo, Cristo morì in su la croce all’ora nona del venerdì; nella quale ora, tra l’altre cose che apparvero maravigliose, fa che la terra tutta universalmente tremò, che per alcuno altro tremuoto mai non avvenne: e allora tremando tutta, tremò infino al centro della terra; per la qual cosa non dee parer maraviglia se alcune delle parti sotterranee cascarono: e questo tempo fu poco prima che Cristo scendesse al limbo, perciocchè l’anima di Cristo non iscese come del corpo di Cristo uscì, ma andò in paradiso, siccome assai chiaro ne posson dimostrare le sue parole medesime dette in su la croce al ladrone: amen dico tibi, hodie mecum eris in paradiso etc. È vero che poi la domenica mattina seguente in su l’aurora risuscitato da morte, egli andò al limbo, con insegna di vittoria coronato, perciocchè risurgendo, aveva vinta la morte, e allora spogliò il limbo: sì che egli fu tanto spazio di tempo dal terremuoto universale, allo spogliar l’inferno, quanto fu tra l’ora nona del venerdì e la prima della domenica; e questo è quel poco prima che Virgilio dice qui: poi seguita mostrando quello che Virgilio intende, e che io ho già dichiarato cioè, Da tutte parti, e in questo ne dimostra l’universalità del tremuoto, l’alta, cioè profonda, valle feda, puzzolente d’inferno, Tremò sì, cioè oltremodo, chi’io pensai, che l’universo, cioè il mondo tutto, Sentisse amor. Qua è da ritornarsi alla memoria l’opinione, la quale di sopra [p. 71 modifica]raccontai nel canto quarto essere stata dì Democrito, il quale tenne essere due principii a tutte le cose, cioè odio e amore, e questo sentiva in questa forma: egli diceva essere stata una materia mista di tutte le cose, la quale egli appellava caos, e in questa materia diceva essere i semi di tutte le cose; e quelle che produtte vedavamo, e avere certa e distinta forma dall’altre, essersi a caso separate da questo caos, e perseverare nelle loro generazioni e spezie, e questo diceva essere odio, in quanto le cose prodotte s’erano dal lor principio separate, quasi come da cosa non ben convenientesi con lei: poi diceva così, come ogni forma prodotta s’era da questo suo principio separata, così dopo molti secoli avvenire a caso tutte queste forme ritornarsi insieme, e riformare quel medesimo caos che altra volta era stato, e dal quale aveano avuto principio; e questo diceva essere amore, in quanto ciascuna cosa, siccome insieme riconciliate, si ritornava e univa col suo principio: e per questo dice Virgilio, che perchè egli sentì questo tremuoto universale, il quale mai più non avea sentito, nè avea udito da alcuno che sentito l’avesse, maravigliandosi credette che l’universo, cioè tutte le cose sentissero questo amore che detto è, e dovessersi ricongiugnere insieme, poi che ogni corpo fosse dalla propria forma risoluto: e quinci volendo mostrare, questa non essere sua opinione ma d’altrui, dice, per lo quale, amore, è chi creda, cioè Democrlto e i suoi seguaci,

Più volte il mondo in caos converso,

nella maniera che di sopra è detta: E in quel [p. 72 modifica]punto, che questo tremuoto universale fu, questa vecchia roccia, Qui, dove noi siamo, ed altrove, come appresso si dirà nel ventunesimo canto del presente libro, tal fece riverso, qual tu puoi vedere. Ma ficca gli occhi. Qui finita la seconda parte comincia la terza del presente canto, nella quale l’autor descrive, come Virgilio gli mostrasse un fiume di sangue, e che gente d’intorno v’andasse: e dice, che poi Virgilio gli ebbe mostrata la cagione della ruina di quella roccia, alla quale esso pensava, gli dice,

Ma ficca gli occhi avale, che s’approccia

La riviera, cioè il fiume o ’l fosso, del sangue, in la qual bolle, e questo perciocchè quel sangue era boglientissimo,

Qual che per violenza in altrui noccia,

rubando o uccidendo; e così appare questa essere la prima spezie de’ violenti, de’ quali di sopra è detto. La qual riviera del sangue come l’autor vide, così contra i vizii, da’ quali si può comprendere questa spezie di violenza esser causata, leva la voce, ed esclamando dice, O cieca cupidigia, cioè desiderio d’avere; e cosi apparirà radice di questa colpa, cioè del rubare, essere avarizia; il che assai di sopra, dove dell’avarizia si trattò, fu mostrato, il disordinato appetito d’avere inducere gli uomini alle violenze e alle ruberie: poi segue a dimostrarne l’altra radice dell’altra parte della violenza, la qual si fa nel sangue del prossimo dicendo, o ira folle, cioè pazza e bestiale, la quale è cagione dell’uccisioni che fanno i rubatori; perciocchè i rubatori, o da difesa fatta da colui che rubar [p. 73 modifica]vogliono, o da alcuna parola loro non grata commossi vengono all’uccisione, e così fanno violenza nelle cose e nelle persone del prossimo, segue adunque, Che sì ci sproni, e questo sproni, il quale è in numero singulare, si riferisce primieramente a quella prima parte della esclamazione, O cieca cupidigia, e poi si riferisce alla seconda parte, o ira folle, nella vita corta, cioè in questa vita mortale, la quale per rispetto della eternità, quantunque lunghissima fosse, non si potrebbe dire essere un batter di ciglia, E nell’eterna poi, cioè in quella nella quale così peccando, senza penterci, siamo in eterno supplicio dannati, sì mal c’immolle, cioè ci bagni, come appare nel tormento de’ miseri, i quali nel sangue bolliti sono: e vogliono alcuni in questo condolersi, l’autor mostrare d’essere stato di questa colpa peccatore; e però vedendo il giudicio di Dio, sentirne per paura compunzione e dolore. Ma poichè egli ha contro a’ due vizii, i quali son cagione della violenza, che nelle cose e nella persona del prossimo si commette, ed egli più appieno descrive la qualità del luogo, nella quale i miseri son puniti dicendo, Io vidi un’ampia fossa, cioè un fiume, in arco torta, Come quella, che tutto il piano, del settimo cerchio, abbraccia, col girar suo,

Secondo, ch’avea detto la mia scorta:

dove questo Virgilio dicesse, cioè che questo fiume o fossa abbracciasse tutto il piano, non ci è: vuolsi adunque intendere, lui averlo detto in alcun de’ ragionamenti di ciò da lui fatti, ma l’autore non [p. 74 modifica]l’avere scritto, E tra ’l piè della ripa, la quale circondava il luogo, ed essa, fossa, in traccia,

Venien Centauri armati di saette,

supple, e d’archi, perciocchè invano si porteria la saetta se l’uomo non avesse l’arco, Come solean nel mondo, quando vivevano, andare a caccia. Che animali sieno i Centauri, e come nati, e perchè qui posti, si dimostrerà dove si dirà il senso allegorico. Vedendoci calar. Qui comincia la quarta parte del presente canto, nella quale poichè l’autore ha dimostrata la qualità del luogo dove si puniscono i primi violenti, ne mostra come Virgilio parlasse a’ Centauri che il fiume circuivano, e come uno ne fosse lor conceduto per guida: dice adunque, Vedendoci, i Centauri; e dice vedendoci, perciocchè l’autore faceva muovere, e per conseguente sonare tutte le pietre di quel trarupo, donde discendeva giù, sopra le quali poneva i piedi, la qual cosa far non sogliono gli spiriti, mosse i Centauri per maraviglia a ristare, udendo ciò ch’usati non eran d’udire, calar, cioè discendere, ciascun, de’ Centauri, ristette,

E della schiera tre si dipartiro,

venendo verso loro, Con archi e asticciuole, cioè saette, prima elette, cioè tratte del turcasso o d’altra parte, ove per avventura le portavano: E l’un, di que’ tre, gridò da lungi: a qual martiro

Venite voi, che scendete la costa?

Ditel costinci, ove voi siete, se non, supple il direte, l’arco tiro: quasi voglia dire io vi saetterò. [p. 75 modifica]

Lo mio maestro disse: la risposta

Farem noi a Chiron, cioè a quel Centauro il quale è preposto di voi: e poi in detestazion della sua troppa domanda, con alcune parole il contrista, come di sopra aveva fatto il Minotauro, dicendo, Mal fu, per te, la voglia tua sempre sì tosta, cioè frettolosa. Poi mi tentò, e disse: quegli, al quale io ho ora risposto, è Nesso,

Che morì per la bella Deianira,
E fè’ di sè la vendetta egli stesso,

posciachè fu morto. Fu questo Nesso tra’ Centauri famosissimo, figliuolo d’Issione e d’una nuvola come gli altri; ed essendo insieme co’ fratelli in Tessaglia alle nozze di Peritoo, con gli altri suoi insieme riscaldati di vivanda e di vino volle torre la moglie a Peritoo; alla difesa della quale si levò Teseo amico di Peritoo, e un popolo il quale si chiamava Lapiti, e ucciserne assai: dalla quale zuffa fuggendo pauroso Nesso, gli disse un de’ suoi compagni chiamato Astilo, il quale sapeva vaticinare: Nesso, non ti bisogna cosi frettolosamente fuggire, perciocchè la tua morte è riservata da’ fati alle mani d’Ercole: per la qual cosa egli se n’andò in Calidonia, e qui allato ad un fiume chiamato Eveno abitando amò Deianira figliuola del re Oeneo di Calidonia: la quale, come appresso si dirà, essendo divenuta moglie d’Ercole, ed Ercole con lei insieme tornandosi verso la patria, trovarono per le piove fieramente cresciuto questo fiume Eveno; e vedendolo Nesso star sospeso per Deianira, pensò che tempo gli fosse prestato a dover potere avere il desiderio suo di Deianira; e fattosi [p. 76 modifica]avanti, quasi pronto a’ servigi d’Ercole, disse: Ercole, dove tu creda poter notando passare il fiume, io, dove ti piaccia, sopra la groppa mia ti passerò bene e salvamente di là Deianira: alla quale profferta Ercole fu contento: per la qual cosa notando Ercole, Nesso con Deianira velocemente passò il fiume, e cominciò velocissimamente a fuggire con essa; per la qual cosa Ercole turbato, e pervenuto all’altra riva, non correndo, ma con una delle sue saette il seguitò e ferillo; laonde Nesso sentendosi ferito mortalmente, perciocchè sapea, le saette d’Ercole tutte essere intinte nel sangue della idra la quale uccisa avea, e così essere velenosissime, pensò in vendetta della sua morte subitamente una strana malizia; e spogliatasi la camicia, la quale già era sanguinosa tutta del sangue avvelenato uscito dalla sua piaga, disse: Deianira, io non ho al presente che ti poter donare, in riconoscenza del grande amore il quale io t’ho portato e porto, se non questa mia camicia, la qual se tu serverai senza farla lavare, ed egli avvenga che Ercole in altra femmina ponga amore, dove tu possi fargli vestire questo vestimento, egli incontanente rimoverà il suo amore da ogn’altra femmina, e ritornerallo in te. Deianira credendo questo dovere esser vero, prese la camicia e guardolla: e ivi a certo tempo, avendo Ercole quasi dimentica lei, e amando ardentissimamente una giovane chiamata Iole, figliuola d’Eurito re d’Etolia, occultamente adoperò che egli questo vestimento si mise in dosso; e andato a cacciare in sul monte Oeta, e per la fatica della caccia riscaldatosi e sudando forte, col sudore bagnò il sangue [p. 77 modifica]secco; e quello liquefatto, gli entrò per i pori, e misegli una sì fatta rabbia addosso, che esso composto un gran fuoco, volontariamente per morire vi si gittò entro, e in quel morì: e così fece Nesso, dopo la sua morte, la vendetta di sè egli stesso. La bella Deianìra fu figliuola d’Oeneo re di Calidonia, e fu ragguardevole vergine per singular bellezza, tanto che molti giovani nobili la desiderarono e domandaron per moglie: ma dopo molte cose, essendo stata promessa ad Acheloo fiume, e ultimamente conceduta ad Ercole domandantela, nacque guerra tra Acheloo e Ercole: ma essendo Acheloo vinto da Ercole, ne rimase Ercole in pacifica possessione. Dice Teodonzio, che la guerra la quale fu tra Ercole e Acheloo fiume, fu in questa maniera: che rigando Acheloo Calidonia con due alvei, e per questo molto alcuna volta per le piove la provincia crescendo guastasse, fu ad Ercole addomandante Deianira, posta da Oeneo padre di lei questa condizione, che egli la poteva avere, dove recasse Acheloo in un solo alveo, e quello sì d’argini forti chiudesse, che egli crescendo non potesse guastare la contrada: la qual cosa Ercole con grandissima fatica fece: e così essendo vincitore del geminato corso d’Acheloo ebbe Deianira. Costei è quella di cui di sopra è detto, che ad Ercole mandò la camicia di Nesso. E quel, Centauro, di mezzo ch’al petto si mira,

È ’l gran Chirone, il qual nudrì Achille:

questo Chirone non fu de’ figliuoli d’Issione, ma fu secondochè ad alcun piace, figliuolo di Saturno e di Fillira, comechè Lattanzio dica che la madre di lui [p. 78 modifica]fosse Pelopea; e della sua origine si recita questa favola, che Saturno preso dalla bellezza di Fillira, e avendola presa, avvenne, secondochè dice Servio, che giacendo egli con esso lei, sopravvenne nel luogo Opis sua moglie, e perciò acciocchè da lei conosciuto non fosse, subitamente si trasformò in un cavallo; per la qual cosa Fillira, avendo di lui conceputo, partorì un figliuolo, il quale infino al bellico era uomo, e da indi in giù era cavallo; il quale cresciuto se ne andò alle selve e in quelle abitò, e in quelle nudrì Achille, come di sopra si disse, dove d’Achille si fece menzione nel quinto canto. Poi essendo stato dal padre creato immortale, ed essendogli stato da Ociroe sua figliuola profetante predetto, che esso ancora desidererebbe d’esser mortale, avvenne che avendolo visitato Ercole, per caso gli cadde sopra il piè una delle saette d’Ercole, le quali, come di sopra è detto, tutte erano avvelenate nel sangue di quella idra lernea la quale uccisa avea; ed essendo dalla detta saetta fedito e gravemente dal veleno tormentato, acciocchè compiuto fosse il vaticino della figliuola, cominciò a pregar gl’iddii che il facessero mortale, acciocchè egli potesse morire: la qual grazia gli fa conceduta, laonde egli si morì; e dopo la morte sua fu dagl’iddii trasportato in cielo, e fu posto nel cerchio del zodiaco, ed è quel segno il quale noi chiamiamo sagittario:

Quell’altro è Folo, che fu sì pien d’ira.

Di questo Folo niuna cosa abbiamo, se non che esso fu figliuolo d’Issione e d’una nuvola, come gli altri Centauri. Dintorno al fosso, nel quale i violenti [p. 79 modifica]bollono nel sangue, vanno a mille a mille, Saettando quale anima, de’ miseri dannati, si svelle Del sangue, cioè esce, più che sua colpa sortille, e per queste parole, e ancora per più altre seguenti, appare, che secondochè la violenza commessa è stata più e men grave, ha la giustizia di Dio voluto l’anime in quel sangue bogliente essere più e meno tuffate.

Noi ci appressammo a quelle fiere snelle,

cioè leggieri: e chiamale fiere, perciocchè sono mezzi uomini e mezze bestie, Chiron prese uno strale, cioè una saetta, e con la cocca, di quello, Fece la barba, la quale gli ricopriva la bocca, indietro alle mascelle; e ciò fece acciocchè essa non impedisse le sue parole.

Quando s’ebbe scoperta la gran bocca,
Disse a’ compagni: siete voi accorti,

Che quel di dietro, che era l’autore, muove, co’ piedi, ciò che tocca? andando,

Così non soglion fare i piè de’ morti,

cioè dell’anime partite da’ corpi morti.

E ’l mio buon duca, che già gli era al petto,

pervenuto, Ove le due nature, cioè l’umana e la bestiale, son consorti, per congiunzione, Rispose: ben, è vero che egli muove ogni cosa che tocca, perciocchè egli, è vivo, e sì soletto, come tu mi vedi,

Mostrargli mi convien la valle buia:

d’inferno, Necessità il conduce, in quanto come altra volta è detto, è di necessita in questa forma, nella quale va l’autore, andare a chi vuole uscire [p. 80 modifica]della prigione del diavolo, e non diletto, ce lo conduce, che egli abbia di veder queste pene e questi dannati.

Tal si partì da cantare alleluja,

e questa fu Beatrice, la quale lasciato il cielo, venne nel limbo a sollecitar Virgilio, che al soccorso dell’autore andasse, come di sopra nel secondo canto è stato detto: alleluja è dizione ebraica, e secondo alcuni è interjectio laetantis: ma Papia dice, che alleluja in latino vuol dire laude di Dio, o vero che ella abbia ad esprimere laudate Iddio: e oltre a ciò questa dizione s’interpetra in due modi, de’ quali è l’uno, cantate a colui il quale è, e così c’invita alla laude di questo Iddio il quale è; perciocchè per addietro cantavamo, essendo gentili, a quegli iddii i quali non erano: e l’altro modo è, Iddio benedici tutti in uno; e questo perciocchè tutti siamo insieme in uno per fede e umanità, e così siam degni d’essere benedetti da Dio. Altri ne fanno loro interpetrazioni, le quali sarebbon molto lunghe volendole tutte mostrare:

Che mi commise quest’uficio nuovo,

e disusato, d’accompagnare uom vivo per l’inferno, E dettogli questo, risponde alla domanda poco avanti fatta da Nesso, quando domandò, a qual martiro venite voi, mostrandogli che essi non discendono ad alcun martiro, e però dice, Non è ladron, costui il quale io guido: e dice ladrone, perciocchè nell’ottavo cerchio si puniscono i ladroni, nè io anima fuia, quasi dica, nè io altresì son ladrone, perciocchè noi quelle femmine le quali son fure noi [p. 81 modifica]chiamiam fuie: e poichè egli gli ha discoverta la lor condizione, ed egli il prega gli dia alcuno pedoto al cammino, e che trapassi l’autore al valico del fossato, e dice:

Ma per quella virtù, per cui io muovo
Li passi miei per sì selvaggia strada,

cioè per la virtù di Dio, Danne un de’ tuoi, Centauri, a cui noi siamo a pruovo, cioè allato; acciocchè da alcuno altro non possiamo essere impediti, e

Che ne dimostri là dove si guada, (questo fiume)
E che porti costui in su la groppa,

acciocchè al passar non si cuoca,

Che non è spirto che per l’aer vada,

come fo io e gli altri.

Chiron si volse in su la destra poppa,

udito il prego di Virgilio

E disse a Nesso: torna, e sì gli guida,

E fa’ cansar, cioè cessare, s’altra schiera v’intoppa, cioè vi si scontra di Centauri. Noi ci movemmo, Qui comincia la quinta parte di questo canto, nella quale avendo Virgilio certificati i Centauri della lor qualità, dice l’autore come seguendo il Centauro, esso dimostrasse loro le pene de’ tiranni e de’ rubatori; e comincia,

Noi ci movemmo con la scorta fida,

cioè con Nesso,

Lungo la proda del bollor vermiglio,

cioè del sangue il quale in quella fossa bolliva,

Ove i bolliti faceano alte strida,

per lo dolore il qual sentivano. Io vidi, in quel [p. 82 modifica]sangue bogliente, gente sotto infino al ciglio, cioè infitino a tutti gli occhi, E ’l gran Centauro, cioè Nesso, disse: e’ son tiranni, quegli che bollono, e che fanno così alte strida, per ciò, Che dier nel sangue, uccidendo ingiustamente il prossimo, e nell’aver, del prossimo, di piglio, rubando e occupando come non dovevano.

Quivi si piangon gli spietati danni,

di questi cotali tiranni, dati nelle persone e nell’avere del prossimo: Quivi, tra questi tiranni che io ti dico che piangono, è Alessandro, non dice l’autore quale, conciosiacosachè assai tiranni stati sieno i quali questo nome hanno avuto; e perocchè nel maggiore si contengono tutti i mali fatti da’ minori, credo sia da intendere, che egli abbia voluto dire d’Alessandro re di Macedonia; e perciò di lui sentendo, chi el fosse, e delle sue opere, succintamente diremo. Fu adunque questo Alessandro figliuolo di Filippo re di Macedonia e d’Olimpia sua moglie; comechè alcuni voglian credere, che egli non fosse figliuolo di Filippo, ma piuttosto di Nettabo re d’Egitto, il quale cacciato del suo reame e ridottosi a Filippo, venne nella dimestichezza d’Olimpia, e di lei generò Alessandro; e comechè questo non fosse subitamente saputo, in processo di tempo, essendo già Alessandro grande, venne in tanta sospezion di Filippo re, che egli addicò Olimpia, e prese per moglie una sua nepote chiamata Cleopatra; uè guari tempo visse, poichè, per quello che si credesse, per opera di Olimpia egli fu da Pausania ucciso, dopo la morte del quale rimase Alessandro, siccome suo figliuolo, re di [p. 83 modifica]Macedonia. Essendo giovane di grande e di ardente animo, primieramente i Greci ribellantisi si sottomise, e disfatta la città di Tebe, a dare compimento alla guerra contro a quegli di Persia, da Filippo suo padre cominciata, diede opera: e fatti uccidere quasi tutti i suoi parenti, di cui suspicava non movessero in Macedonia alcuna novità, essendo egli lontano, con quattromiladugento cavalieri, e con trentaduemigliaia di pedoni, non solamente Asia ma tutto il mondo ardì d’assalire; e pervenuto in Frigia, ed entrato in una città chiamata Gordia, e quivi nel tempio di Giove domandato il giogo del carro di Gordio, s’ingegnò di sciogliere i legami di quello; perciocchè udito avea che gli oracoli antichi avevan detto, che chi quegli sciogliesse sarebbe signor d’Asia: e non trovando il modo da sciogliergli, messo mano ad un coltello, gli tagliò, e così gli sciolse: quindi passato il monte Tauro, in più parti con infinita moltitudine di gente di Dario, e con Dario medesimo più volte combattè, e fu sempre vincitore; e avendo presa la moglie e’ figliuoli, e ultimamente sentendo Dario da’ suoi medesimi essere stato ucciso, prese Persia, e quindi ricevuto Egitto e Cilicia, e andato in Libia al tempio di Giove Ammone, e ingegnatosi con inganni di farsi reputare figliuolo del detto Giove, vinte molte altre nazioni trapassò in India: quivi vinto Poro re e molte nazioni, e più città edificate in testimonianza delle sue vittorie, e lasciati prefetti dove credette opportuno, andò ad Agesine fiume, altri dicono a Gange, per lo quale si discende nel mare Oceano orientale; e quivi soggiogate alcune nazioni, navicò agli [p. 84 modifica]Ambri e a’ Sicambri, i quali non senza suo gran pericolo vinti, messi nelle sue mani molti de’ suoi, i quali estimò più valorosi, sotto il governo di Poliperconte, il suo esercito ne mandò in Babilonia; ed esso pervenuto alla città d’un re chiamato Ambigeri, lui, ancora che molti con saette avvelenate n’uccidesse, vinse: e di quindi venendo alla seconda del fiotto del mare, pervenne alla foce del fiume chiamato Indo; e quindi per terra venendone se ne tornò a Babilonia, dove sposò Rosanne, l’una delle figliuole del re Dario. E mentre che esso tornava, gli fu nel cammino nunziato, come gli ambasciadori de’ Cartaginesi e degli altri popoli d’Affrica, e di più città di Spagna, di Gallia, d’Italia, di Sardegna e di Cicilia, lui attendevano in Babilonia, i quali spaventati dalle gran cose che da lui fatte si dicevano, desideravano la grazia e l’amistà sua, I Romani non vi manda rono; anzi ne fa Tito Livio nel libro ottavo ab urbe condita quistione, se esso fosse in Italia venuto, se i Romani avessero potuto resìstere alle sue forze o no; e per più ragioni mostra che i Romani, e si sarebber da lui difesi, e forse l’avrebbero cacciato. Quivi in Babilonia, da Cassandro figliuolo d’Antipatro, si crede gli fosse dato veleno, del quale infra pochi dì morì, e lasciò che il corpo suo ne fosse portato in Libia nel tempio di Giove Ammone, e quivi seppellito. Fu costui, quantunque vittorioso e magnifico signore, come assai appare nelle sue opere, occupatore non solamente delle piccole fortune degli uomini, ma de’ regni e delle libertà degli uomini: violentissimo, e oltre a ciò crudelissimo vendicatore, non solamente de’ nemici [p. 85 modifica]ma ancora degli amici, de’ quali già caldo dì ino e di vivanda, ne’ conviti e altrove molti fece uccidere: per le quali colpe si puote assai convenientemente credere, l’autore aver voluto s’intenda lui in questo ardentissimo sangue esser dannato, e Dionisio fero,

Che fè Cicilia aver dolorosi anni.

Furono, secondochè Giustino scrive, due Dionisii, l’un padre e l’altro figliuolo, e ciascun fu pessimo uomo: nè appar qui di quale l’autor si voglia dire; e però direm di ciascuno quello che scritto se ne trova. Fu adunque, secondochè Tullio scrive nel quinto libro de quaestionibus Tusculanis, il primo Dionisio nato di buoni e d’onesti parenti, e similmente d’onesto luogo di Siragusa di Cicilia, del quale essendo la madre gravida, vide nel sonno che ella partoriva un satirisco, perchè ricorsa al consiglio degl’interpetratori de’ sogni, le fu risposto, che ella partorirebbe uno il quale sarebbe chiarissimo e potentissimo uomo, oltre a ciascuno altro del sangue greco. E avanti che costui, nato, e già d’età di venticinque anni, occupasse il dominio di Siragusa e di tutta Cicilia, parve nel sonno ad una nobile donna siragusana, chiamata Imera, essere trasportata in cielo, e che le fossero quivi mostrate tutte le stanze degl’iddii; le quali mentre riguardando andava, le parve vedere appiè del solio di Giove un uomo di pelo rosso e litiginoso, legato con fortissime catene; per la qual cosa ella domandò un giovane, il quale le pareva aver per dimostratore delle cose celestiali, chi colui fosse, dal quale le parve le fosse risposto, [p. 86 modifica]colui essere crudelissima morte di Cicilia e d’Italia, e come egli fosse sciolto, sarebbe disfacimento di molte città: il qual sogno la donna il dì seguente in pubblico disse a molte persone: ma poi in processo di tempo, quasi come se liberato fosse dalle catene, e ricevuto Dionisio in signore de’ Siracusani, e tutti i cittadini a vederlo nella città venire corressono come si suole a così fatti avvenimenti, Imera similmente v’andò, e tantosto che ella il vide altamente disse: questi è colui, il quale io vidi legato a’ piedi di Giove: il che poi da Dionisio risaputo, le fu cagione di morte. E così avendo per la pistolenza, la quale aveva gli eserciti de’ Cartaginesi del tutto consumati, e da loro liberata l’isola, Dionisio occupata, secondochè scrive Giustino, la signoria di quella, primieramente mosse guerra a tutti i Greci i quali in Italia abitavano, e venne lor sopra con grandissimo esercito: e fatti molti danni, e vinti i Locrensi, e guerreggiando que’ di Crotone, avvenne che con lui si congiunsero in compagnia quelle reliquie de’ Galli i quali avevano Roma guasta: ma da questa guerra il richiamò in Cicilia un grande esercito di Cartaginesi venutovi; ed essendo da molti sinistri avvenimenti debilitato assai, da’ suoi medesimi fu ucciso, avendo già trentotto anni regnato: il quale, secondochè scrive Tullio nel preallegato libro, fu nel modo del suo vivere temperatissimo, e nelle operazioni sue fortissimo e industrioso; e con questo fu pessimo e malefico, senza alcuna giustizia, e crudelissimo occupatore dell’altrui sustanze, vago del sangue degli uomini e disprezzator degl’iddii, Ed essendo allevato con [p. 87 modifica]certi giovanetti greci, l’ usanza de’ quali il dovea trarre ad amarli, mai d’alcuno non si fidò, ma solo in quegli i quali eleggeva in servi ogni sua fede pose: ed essendo divenuto signore, in ferocissimi barbari commise la guardia del corpo suo; della quale fu tanto sollecito, che non volendo per tema nelle mani d’alcun barbiere rimettersi, fece le figliuole, ancora piccole, apparare a radere, e a loro rader si faceva: e poichè crebbero, sospettando, fece loro lasciare i rasoi, e prender gusci di ghiandi e di noci o di castagne, e quegli roventare, e con essi si faceva abbruciare i peli della barba e quegli del capo. E avendo due mogli, delle quali l’una ebbe nome Aristomache sua Siragusana, e l’altra Doride della città di Locri, ad esse non andava mai, che esso primieramente non cercasse che alcun ferro o altro nocivo non vi fosse. E avendo circondata la camera nella qual dormia d’una larghissima fossa, e sopra quella fatto un ponticello di legno levatoio, come in quella era entrato, e serrato l’uscio, così levava il ponte: e non avendo ardire di fidarsi nelle comuni ragunanze, quante volte in esse voleva alcuna cosa dire, tante salito sopra un’alta torre, diceva quel che voleva a coloro che di sotto dimoravano. E intra gli altri suoi commendatori e approvatori di ciò che diceva, conciosiacosachè uno nominalo Damocle, alcuna volta parlando della felicità di lui, raccontasse la copia delle sue ricchezze, la signoria, e la maestà e l’abbondanza delle cose, e la magnificenza delle case reali, e negasse alcuno esserne più beato di lui; gli disse Dionisio una volta: o Damocle, perciocchè io [p. 88 modifica]m’accorgo che la vita mia ti piace e dilettati, vuogli provare chente sia la mia fortuna? Al quale avendo Damocle risposto, sè sommamente desiderarlo, comandò Dionisio, che esso fosse posto sopra un letto di preziosissimi ornamenti coperto, e quindi comandò gli fosse apparecchiata una ricchissima mensa, e preposto per servidori fanciulli bellissimi, i quali sollecitamente ad ogni suo comandamento il servissero; e quindi gli fece apporre preziosissimi unguenti e corone, e intendere soavissimi odori, e apportare esquisite vivande: per le quali cose a Damocle pareva esser fortunatissimo. Ma Dionisio, nel mezzo di così ricco apparecchiamento, comandò che un coltello appuntatissimo, legato con una setola di cavallo, fosse appiccato alla trave della casa sopra la testa di Damocle, in maniera che la punta di quello sopra Damocle pendesse: per la qual cosa Damocle veduto quello, nè a’ bellissimi servidori, nè al reale apparecchiamento riguardava, nè stendeva la mano alle dilicate vivande, e già gli cominciavano a cadere di testa le preziose ghirlande: laonde egli caramente pregò Dionisio, che egli con sua licenza si potesse quindi partire, perciocchè più non volea quella beatitudine: in che assai bene mostrò Dionisio chente fosse la sua beatitudine, e degli altri che in simile fortuna eran con lui. Fu oltre a questo costui non solamente occupatore e violento de’ beni del prossimo, ma ancora sprezzatore degl’iddii e sacrilego. Esso, secondochè Valerio Massimo scrive, avendo in Locri spogliato e rubato il tempio di Proserpina, e con la preda tornando in Cicilia, e [p. 89 modifica]avendo al suo navicare prospero vento, disse ridendo agli amici suoi i quali con lui erano: vedete voi come buon navicare sia conceduto dagl’iddii a’ sacrilegi? E avendo tratto alla statua di Giove Olimpio un mantello d’oro il quale era di grandissimo peso, e messonele uno di lana, disse che quello dell’oro era la state troppo grave e ’l verno troppo freddo; ma quello che messo l’avea, era a ciascun de’ detti tempi più atto e così levava la barba dell’oro alla statua d’Esculapio, affermando non convenirsi vedere il figliuolo con barba, ove si vedea senza barba essere il padre. Similmente trasse de’ templi più mense d’oro e d’ariento, nelle quali secondo il costume greco era scritto, quelle essere de’ beni degl’iddii; dicendo quando le prendeva, sè usare de’ beni degl’iddii. E oltre a ciò, molti doni d’oro e care cose, le quali le statue degl’iddii con le braccia sportate innanzi sosteneano, poste sopra quelle da coloro i quali i lor boti mandavano ad esecuzione, prese più volte dicendo, sè non rubarle ma prenderle: stolta cosa affermando, non prender quei beni, per i quali sempre gli preghiamo, quando gli ci porgono. E questo del primo Dionisio basti aver detto. E venendo al secondo, scrive Giustino, che essendo il predetto Dionisio stato ucciso da’ suoi, essi medesimi che ucciso avevano il padre sustituirono a lui questo secondo Dionisio, il quale di tempo era maggiore che alcuno altro suo figliuolo; il quale come la signoria ebbe presa, per potere aver più ampio luogo alle crudeltà già pensate, in quanto potè si fece favorevole il popolo con più beneficii facendogli; e parendogli [p. 90 modifica]già quello avere assai, avanti ogni altra cosa tutti i parenti de’ fratelli suoi minori, e poi loro, fece tagliare a pezzi, per levarsi ogni sospetto d’alcuno che al regno potesse aver l’animo con titolo alcuno: e levatisi questi d’avanti, quasi sicuro si diede tutto all’ozio, per lo quale divenuto corpulento e grasso, e ancora in gravissima infermità degli occhi, intanto che nè sole, nè polvere, nè alcuna luce poteva sofferire, estimò per questo essere da’ suoi avuto in dispregio; e perciò, non come il padre aveva già fatto, cioè di mettere in prigione quegli di cui sospettava, ma uccidendo e facendo uccidere or questi or quegli altri, tutta la città riempiè d’uccisioni e di sangue. Per la qual cosa avendo i Siracusani diliberato di muovergli guerra, lungamente stette intra due, se egli dovesse piuttosto, o por giù. la signoria, o resistere con guerra a’ Siracusani: ma ultimamente fu costretto dalla sua gente d’arme, sperante d’arricchire della preda e della ruberia della città, di prender la guerra e di discendere alla battaglia: nella quale essendo stato vinto, e avendo infelicemente un’altra volta tentata la fortuna della battaglia: mandò ambasciadori a’ Siracusani, promettendo che esso diporrebbe la signoria, se essi gli mandassero uomini con i quali esso potesse trattare le convenzioni della pace: e avendo i Siracusani mandatigli a questo fare de’ migliori della città, esso ritenutigli in prigione, non prendendosi di ciò guardia i Siracusani, mandò subitamente la gente sua a guastare e a rubar la città: per la qual cosa i cittadini difendendosi per tutto, e vincendo la moltitudine dei [p. 91 modifica]cittadini la gente di Dionisio, e perciò esso temendo di non essere nella rocca assediato, se ne fuggì con ogni suo reale arnese in Italia: e siccome sbandito ricevuto da’ Locresi come compagno, siccome se giustamente in quella regnasse, occupò la rocca della città; e siccome in Siragusa era usato di fare, così quivi incominciò ad esercitare la crudeltà: e alla sua libidine faceva rapire le nobili donne de maggiori della città, e facevasi per forza menare le vergini avanti li giorno delle nozze, e quando quanto a lui piaceva tenute l’avea, le faceva rendere a’ parenti loro: oltre a ciò i più ricchi della città scacciava e rubava, o gli faceva uccidere; e facendo cose ancora assai più inique, poichè sei anni ebbe tenuta la signoria di Locri, non avendovi più che rubare, occultamente e per segreto trattato se ne tornò in Siragusa; dove essendo, più crudele che mai e peggio adoperando, fatta da tutti i cittadini congiurazione contro a lui, fu nella rocca della città assediato, dove costretto per patti fatti co’ Siracusani, lasciata la signoria, povero e misero n’andò in esilio a Corinto; e quivi per sicurtà della vita sua, datosi alle più infime e misere cose che potè, ne vilissimii luoghi e con vilissimi uomini dimorava male e vilmente vestito, e ultimamente si diede ad insegnare giucare alla palla i fanciulli; e in così fatta guisa vilmente adoperando e vivendo, pervenne al fine incognito della sua vita: per le quali malvagità e violenze, così nel sangue come nell’aver del prossimo, o del padre o del figliuolo che intender vogliamo, e perciocchè non come re ma come tiranni signoreggiarono, meritamente l’autore qui nel [p. 92 modifica]sangue bogliente, tra la prima spezie de’ violenti nel dimostra:

E quella fronte, c’ha il pel così nero,

È Azzolino. Costui chiama Musatto Padovano in una sua tragedia, Ecelinus, ed è quello Azzolino, il quale noi chiamiamo Azzolino di Romano, e così similmente il cognomina il predetto Musatto: e secondo scrive Giovanni Villani, egli fu gentile uomo di legnaggio: fu adunque costui potentissimo tiranno nella Marca Trivigiana, e per quello che si sappia, egli tenne la signoria di Padova, di Vicenza, di Verona e di Brescia, e molti uomini e femmine uccise, o fece andare tapinando per lo mondo; e massimamente de’ Padovani, de quali ad un’ora avendone nel prato di Padova rinchiusi in un palancato undicimila, tutti gli fece ardere, e di questa arsione si dice questa novella: che avendo egli un suo notaio o cancelliere che fosse, chiamato ser Aldobrandino, il quale ogni suo segreto sapea, e avendo preso tacitamente sospetto di lui, e volendolo far morire, il domandò se egli sapeva chi si fossero quegli che nel palancato erano legati: gli rispose ser Aldobrandino, che di tutti aveva ordinatamente il nome in suo quaderno il quale aveva appresso di sè: adunque, disse Azzolino, avendomi il diavolo fatte molte grazie, io intendo di fargli un bello e un gran presente di tutte l’anime di costoro che legati sono; nè so chi questo si possa far meglio di te, poichè di tutti hai il nome e il soprannome; e però andrai con loro, e nominatamente da mia parte gliele presenta: e fattolo menar là col suo quaderno, insieme con gli [p. 93 modifica]altri il fece ardere. Ultimamente avendo molte crudeltà operate, andando con molta gente per prender Milano, trovò al fiume d’Adda il marchese Pallavicino con gente essergli venuto all’incontro, e aver preso il ponte d’onde Azzolino credeva poter passare: per la qual cosa egli con la sua gente mettendosi a nuoto per lo fiume, furono da’ nemici ricevuti con loro grande svantaggio; e fu in quella zuffa gravemente fedito e preso Azzolino, e menatone in Casciano un castello ivi vicino, dove mai nè mangiar volle nè bere, nè lasciarsi curare; e così si morì nel 1260, e fu onorevolmente seppellito nel castello di Solcino. E perciocchè violentissimo fu, come mostrato è, il pone l’autore qui in quel sangue bellire e esser dannato, e quell’altro ch’è biondo,

È Opizzo da Esti, il qual per vero
Fu spento dal figliastro su nel mondo.

Questo Opizzo da Esti dice alcuno che fu de’ marchesi da Esti, i quali noi chiamiamo di Ferrara, e fu fatto per la chiesa marchese della Marca d’Ancona nella quale, più la violenza, che la ragione usando, fece un gran tesoro, e con quello e con l’aiuto dei suoi amici occupò la città di Ferrara, e cacciò di quella la famiglia de’ Vinciguerre con altri seguaci di parte imperiale; e appresso questo, per più sicuramente signoreggiare, similmente ne cacciò de’ suoi congiunti: ultimamente dice lui una notte esser costui stato da Azzo suo figliuolo con un piumaccio affogato: ma l’autor mostra di voler seguire quello che già da molti si disse, cioè questo Azzo, il quale Opizzo reputava suo figliuolo, non essere stato suo [p. 94 modifica]figliuolo; volendo questi cotali la Marchesana moglie d’Opizzo averlo cenceputo d’altrui, e dato a vedere ad Opizzo che di lui conceputo l’avesse: e perciò dice l’autore, Fu spento, cioè morto, dal figliastro: e perciocchè violento uom fu, quivi tra’ tiranni e omicide e rubatori il dimostra esser dannato. Allor mi volsi al poeta, per veder quello che gli paresse di ciò che il Centauro diceva, e se esso gli dovesse dar fede, e quei disse: Questi ti fia or primo, cioè dimostratore, ed io secondo. E vuole in questo affermar Virgilio, che al Centauro sia da dar fede a quel che dice:

Poco più oltre il Centauro s’afisse
Sovr’una gente che ’nfino alla gola
Parea che di quel bullicame uscisse.

Tenendo tutto l’altro corpo nascoso sotto il bogliente sangue; e chiamalo bullicame, da un lago il quale è vicino di Viterbo, il quale dicono continuamente bollire; e da quello bollire o bollichio essere dinominato bullicame: e perciocchè in questo bollire, quel sangue è somigliante a quell’acqua, per lo nome di quella, o pur per lo suo bollir medesimo il nomina bullicame.

Mostrocci un’ombra dall’un canto sola,
Dicendo: colei fesse in grembo a Dio
Lo cuor, che ’n su Tamigi ancor si cola.

A dichiarazion di questa parte è da sapere, che essendo tornati da Tunisi in Barberia il re Filippo di Francia, e il re Carlo di Cicilia, e Adoardo e Arrigo fratelli, e figliuoli del re Riccardo d’Inghilterra, e pervenuti a Viterbo, dove la corte di [p. 95 modifica]Roma era allora nel 1270, e attendessero a riposarsi, e a dare ancora opera che i cardinali riformassero di buon pastore la sedia apostolica, la quale allora vacava; avvenne che, essendo il sopraddetto Arrigo, il quale divoto e buon giovane era, ad udire in una chiesa la messa, in quella ora che il prete sacrava il corpo di Cristo, entrò nella detta chiesa il conte Guido di Monforte; e senza avere alcun riguardo alla reverenza debita a Dio, o al re Carlo suo signore, essendo venuto bene accompagnato d’uomini d’arme, quivi crudelmente uccise Arrigo predetto: ed essendo già della chiesa uscito per andarsene, il domandò un de’ suoi cavalieri ciò che fatto avea, il quale rispose: che egli aveva fatta la vendetta del conte Simone suo padre, il quale era stato ucciso in Inghilterra: e secondochè alcuni voglion dire, a sua gran colpa: a cui il cavalier disse: monsignore, voi non avete fatto alcuna cosa, perciocchè vostro padre fu strascinato: per le quali parole il conte tornato in dietro, prese per li capelli il morto corpo d’Arrigo, e quello villanamente strascinò infin fuori della chiesa; e ciò fatto, montato a cavallo, senza alcuno impedimento se n’andò in Maremma nelle terre del conte Rosso suo suocero: per lo quale omicidio l’autore il dimostra essere in questo cerchio dannato; e in quanto l’autor dicesse, fesse, intende aperse violentemente col coltello, in grembo a Dio, cioè nella chiesa, perciocchè la chiesa e abitazion di Dio; e chiunque è in quella, dee così essere da ogni secolare violenza sicuro, o ancora legge o podestà, come se nel grembo di Dio fosse: e seguita [p. 96 modifica]l’autore essere stato fesso, in grembo a Dio, da questo conte Guido,

Lo cuor, che ’n su Tamigi ancor si cola,

cioè il cuore d’Arrigo ucciso dal detto conte, il quale Aduardo suo fratello, seppellito tutto l’altro corpo con molte lacrime, seco se ne portò in Inghilterra, e quello, pervenuto a Londra, fece mettere in un calice d’oro; e fatta fare una statua di pietra, o di marmo che sia, o vero secondochè alcuni altri dicono, una colonna sopra ’l ponte di Londra, il quale è sopra il fiume chiamato Tamigi, pose nella mano della statua, o vero sopra la colonna, questo calice, a perpetua memoria della ingiuria e violenza fatta al detto Arrigo, e alla real casa d’Inghilterra; e quegli che dicono questa essere statua, vi aggiungono essere nel vestimento della detta statua scritto, o vero intagliato, un verso il quale dice così: cor gladio scissum, do cui sanguineus sum, cioè io do il cuor fesso col coltello a qualunque è colui di cui io sono consanguineo, cioè d’un medesimo sangue: e in questo pareva, e al padre e al fratello e agli altri suoi domandare della violente morte vendetta. E dice l’autore che questo cuore d’Arrigo, ancora in quel luogo dove posto fu, si cola, cioè onora, e viene da colo colis: e pertanto dice che egli s’onora, in quanto con reverenza e compassione, avendo riguardo alla benignità e alla virtù di colui di cui fu, è da tutti quegli che per quella parte passano riguardato.

Poi vidi gente, che di fuor del rio,

cioè a quel fiume bogliente,

Tenean la testa, ed ancor tutto il casso:

[p. 97 modifica]cioè tutta quella parte del corpo che è di sopra al luogo ordinato in noi dalla natura per istanza del ventre e delle budella, la quale da quella è divisa da una pellicola, la quale ugualmente si muove da ogni parte, cioè dalla destra e dalla sinistra, e quivi si congiugne insieme, donde il cibo digesto discende alle parti inferiori: e chiamasi casso, perciocchè in quella parte ha assai del vacuo, il quale la natura ha riservato al battimento continuo del polmone, col quale egli attrae a sè l’aere, e mandalo similmente fuori; per la quale esalazione persevera la virtù vitale nel cuore: e puossi in queste parole, e ancora in alcune altre che seguono, comprendere, secondo il più e ’l meno avere violentemente ucciso o rubato, avere dalla divina giustizia più e meno pena in quel sangue bogliente: poi seguita, E di costoro, i quali eran tanto fuori del bollore, assai riconobb’io, ma pur non ne nomina alcuno. Così, procedendo noi, a più a più si facea basso, cioè con minor fondo, Quel sangue sì, in tanto, che copria pur li piedi, a quegli che dentro v’erano: E quivi, dove egli era così basso, fu del fosso, cioè di quel fiume, il nostro passo, cioè per quel luogo passammo in un bosco il quale nel seguente canto descrive. E passati che furono, Siccome tu da questa parte, dalla quale venuti siamo, vedi,

Lo bullicame, che sempre si scema,

tanto che come tu vedi non cuopre più su che i piedi, Disse ’l Centauro, voglio che tu credi, Che da quest’altra, parte lungo la quale noi non [p. 98 modifica]siam venuti, a più a più giù prema Lo fondo suo, e cosí si fa più cupo, in fin ch’ e’ si raggiugne,

Ove la tirannia convien che gema,

cioè a quel luogo dove io ti mostrai essere Alessandro e Dionisio. E acciocchè egli sia informato di quegli che in quel profondo tutti coperti dal sangue sostengon pena, ne nomina alcuni dicendo, La divina giustizia di qua, cioè da questa parte da te non veduta, pugne, cioè tormenta,

Quell’Attila che fu flagello in terra,

Attila, secondochè scrive Paolo Diacono nelle sue croniche, fu re de’ Goti al tempo di Marziano imperadore: ed essendo egli, e un suo fratello chiamato Bela, potentissimi signori, siccome quegli che per la lor forza s’avevano molti reami sottomessi, acciocchè solo possedesse cosí grande imperio, iniquamente uccise Bela: e quindi venutogli in animo di levar di terra il nome romano, con grandissima moltitudine de’ suoi sudditi passò in Italia; al quale fattisi i Romani incontro, con loro molti popoli e re occidentali combatteron con lui; nella qual battaglia furono uccise tante genti dell’una parte e dell’altra, che quasi ciascun rimase come sconfìtto: e secondochè scrive Paolo predetto, e’ vi furono uccisi centottanta migliaia d’uomini. Per la qual cosa Attila tornato nel regno, inanimato più che prima contro al romano imperio, restaurato nuovo esercito passò di qua la seconda volta: e dopo lungo assedio prese Aquilea, e poi più altre citta e terre di Frigoli, e tutte le disolò; e passato in Lombardia, [p. 99 modifica]similmente molte ne prese e disfece: ma quasi tutte fuori che Modona, per la quale passò col suo esercito, e per i meriti de’ preghi di san Gimignano, il quale allora era vescovo di quella, non la vide infino a tanto che fuori ne fu, nè egli nè alcun de’ suoi; per la qual cosa, avendo riguardo al miracolo, la lasciò stare senza alcuna molestia farle. Similmente passò in Toscana, e in quella molte ne consumò; e tra esse scrive alcuno, con tradimento prese Firenze e quella disfece. Scrive nondimeno Paolo Diacono, che avendo Attila rubate e guaste più città in Romagna, e avendo il campo suo posto in quella parte dove il Mencio mette in Po, e quivi stesse intra due, se egli dovesse andare verso Roma, o se egli se ne dovesse astenere, non già per amore nè per reverenza della città, la quale egli aveva in odio, ma per paura dello esemplo del re Alarico, il quale andatovi, e presa la città, poco appresso morì: avvenne che Leone papa santissimo uomo, il quale in que’ tempi presedeva al papato, personalmente venne a lui, e ciò che egli addomandò ottenne: di che maravigliandosi i baroni d’Attila il domandarono, perchè oltre al costume suo usato gli avea tanta reverenza fatta, e oltre a ciò, concedutogli ciò che addomandato avea: a’ quali Attila rispose, sè non avere la persona del papa temuta, ma un altro uomo, il quale allato a lui in abito sacerdotale avea veduto, uomo venerabile molto e da temere, il quale aveva in mano un coltello ignudo, e minacciavalo d’ucciderlo se egli non facesse quello che ’l papa gli domandasse, Così adunque repressa la rabbia e l’impeto d’Attila, [p. 100 modifica]senza appressarsi a Roma se ne tornò in Pannonia; e quivi oltre a più altre mogli le quali aveva, ne prese una chiamata Ilditto, bellissima fanciulla: e celebrando nelle nozze di questa nuova moglie un convito grandissimo, bevè tanto vino in quello, che la notte seguente, giacendo supino, se gli ruppe il sangue del naso, come altra voha soleva fare, e fu in tanta quantità che egli l’affogò, e cosí miseramente morì. La cui morte per sogno fu manifestata a Marziano imperadore, il quale essendo in Costantinopoli, quella notte medesima nella quale morì Attila gli parve in sogno vedere l’arco d’Attila essere rotto, per la qual cosa comprese Attila dovere esser morto; e la mattina seguente a più de’ suoi amici il disse, e poi si ritrovò esser vero, che propriamente quella notte Attila era morto. Fu costui cognominato Flagellum Dei, e veramente egli fu flagel di Dio in Italia: e ciò fu estimato, perciocchè essendo ancora le forze degl’Italiani grandi, dalla prima battaglia fatta con lui, nella quale egualmente ciascuna delle parti fu vinta, non ardirono più a levare il capo contro di lui: laonde apparve, alle crudeli cose da Attila fatte in Italia, lui essere stato un flagello mandato da Dio a gastigare e punire le iniquità degl’Italiani, le quali in tanto ogni dovere eccedevano, che esse erano divenute importabili, Sono oltre a questo molti che chiamano questo Attila Totila, i quali non dicon bene, perciocchè Attila fu al tempo di Marziano imperadore, il quale fu promosso all’imperio di Roma, secondochè scrive Paolo predetto, intorno dell’anno di Cristo 440, e Totila, il quale fu suo successore, [p. 101 modifica]fu a’ tempi di Giustino imperadore, intorno agli anni di Cristo 529, perchè appare Attila stato dinanzi a Totila vicino di novanta anni; e oltre a ciò avendo Totila occupata Roma, e già regnato nel torno di dieci anni, fu da Narsete patrizio, mandato in Italia da Giustino, sconfitto e morto. E Pirro. Leggesi nelle istorie antiche di due Pirri, de’ quali l’uno fu figliuolo d’Achille, l’altro fu figliuolo di Eacida re degli Epiroti; e perocchè ciascuno fu violento uomo, e omicida e rubatore, pare a ciascuno questo tormento per le sue colpe convenirsi: ma perchè l’autore non distingue di quale intenda, come di sopra di Dionisio facemmo, cosí qui faremo di questi due: e primieramente narreremo del primo Pirro. Fu adunque, come detto è, il primo di questi due figliuolo d’Achille e di Deidamia, figliuola di Licomede re; ed essendo stato Achille morto a Troia per l’inganno d’Ecuba, e per la sua follia, che tirato dall’amore il qual portava a Polissena, figliuola del re Priamo, era solo e di notte andato nel tempio d’Apolline Timbreo; fu di costui cercato, e assai garzone fu menato all’assedio di Troia: e secondochè scrive Virgilio, siccome ferocissimo giovane, non degenerante dal padre, fu di quegli i quali entrarono nel cavallo del legno, il quale fu tirato a Troia per gl’inganni di Sinone: ed essendo di quello uscito, e già i Greci essendo in Troia entrati per forza, trapassò nelle case di Priamo, e nel grembo di Priamo uccise Polite suo figliuolo, e poi uccise Priamo altresì, quantunque vecchio fosse: e oltre a ciò, presa Troia, domandò Polissena, per farne sacrificio alla sepoltura del [p. 102 modifica]padre, e fugli conceduta: ed egli non riguardando all’età nè al sesso innocivo, crudelmente l’uccise. Poi essendogli fra l’altre cose, venuta in parte della preda troiana, Andromaca moglie stata d’Ettore, ed Eleno figliuolo di Priamo, e con questi per lo consiglio d’Eleno tornatosene per terra in Grecia; e trovando essergli stato per l’assenza del padre e di lui occupato il regno suo, occupò una parte di Grecia, la quale si chiamava il regno de’ Molossi, i quali dal suo nome primieramente furono chiamati Pirride, e in processo di tempo furon chiamati Epirote: e già qui fermato, secondochè alcuni scrivono, esso rapì Ermione figliuola di Menelao e d’Elena, stata sposata ad Oreste figliuolo d’Agamennone, e ad Eleno figliuolo di Priamo diede per moglie Andromaca, secondochè Virgilio scrive. Appresso questo, o che Ermione da lui si partisse, o che ella da Oreste gli fosse tolta, non si sa certamente; ma secondochè Giustino scrive, essendo egli andato nel tempio di Giove Dodoneo a sapere quello che far dovesse d’alcuna sua bisogna, e qui trovata Lasana nepote d’Ercole, la rapì, e di lei, la quale per moglie prese, ebbe otto figliuoli tra maschi e femmine. E in questi mezzi tempi, essendo rapacissimo uomo, o bisogno o fierezza di natura che a ciò lo strignesse, armati legni in mare divenne corsaro: e da lui furono, e ancor sono i corsari dinominati pirrate; e per certo tempo rubò e prese e uccise chiunque nelle sue forze pervenne. Ultimamente per fraudo di Macareo sacerdote del tempio d’Apolline Delfico, in quello fu ucciso da Oreste, forse in vendetta della ingiuria fattagli [p. 103 modifica]d’Ermione. Il secondo Pirro per più mezzi disceso del primo, e figliuolo d’Eacida, fu re degli Epiroti: questi essendo piccol fanciullo rimase in Epiro, essendo stato cacciato Eacida suo padre da’ suoi cittadini, per le troppo gravezze le quali loro poneva, fu in grandissimo pericolo di morte; perciocchè come gli Epiroti avevan cacciato Eacida, così di lui fanciullo cercavano per ucciderlo: e avvenuto sarebbe, se non fosse stato che da alcuni amici fu furtivamente portatone in Illirio, e quivi dato a nutricare e a guardare a Beroe moglie di Glauco re degl’Illirii, la quale era del legnaggio del padre; appo la quale, o per compassione avuta alla sua misera fortuna, o per le sue puerili opere amabili e piacevoli a Glauco e agli altri, venne in tanta lor grazia, che saputo là dov’egli era, non dubitasse Glauco di prender guerra con Cassandro re di Macedonia, il cjuale avendo il suo reame occupato, minaccevolmente il richiedea; e non solamente per servarlo sostenne la guerra, ma oltre a ciò non avendo figliuoli, lui si fece figliuolo adottivo; per le quali cose mossi gli Epirote, trasmutarono l’odio in misericordia, e lui raddomandato a Glauco, ricevettono d’età d’undici anni, e restituironlo nel regno del padre, e diedergli tutori, i quali infino all’età perfetta il governassero e guardassero: il qual poi molte e notabili guerre fece: e chiamato da’ Tarentini venne in Italia contro a’ Romani: e ancora chiamato in Cicilia da’ Siracusani, quella occupò. Ma riuscendo tutto altro fine alle cose che esso estimato non avea, senza avere acquistata alcuna cosa se ne tornò in Epiro; e quindi [p. 104 modifica]occupò e prese il regno di Macedonia, cacciatone Antigono re: poi avendo già levato l’animo a voler prendere il reame d’Asia e di Siria, avvenne che avendo assediata la citta d’Argo in Acaia, fu d’in su le mura della città percosso d’un sasso il quale l’uccise. Ora, come di sopra è detto, di qual di questi due l’autor si voglia dire non appare: ma io crederei che egli volesse piuttosto dire del primo, che di questo secondo; perciocchè il primo, come assai si può comprendere, per lo suo corseggiare e per l’altre sue opere, fu e crudelissimo omicida e rapacissimo predone: questo secondo, quantunque occupatore di regni fosse, e ogni suo studio avesse alle guerre, fu nondimeno, secondochè Giustino e altri scrivono, giustissimo signore ne’ suoi esercizii; e Sesto. Questi fu figliuolo di Pompeo Magno, ma male nell’opere fu simigliante a lui; perciocchè, poichè esso fu morto in Egitto, e Gneo Pompeo suo fratello fu morto in Ispagna; essendo già Giulio Cesare similmente stato ucciso, e Ottaviano Cesare insieme con Marco Antonio e con Marco Lepido avendo preso l’uficio del triumvirato, e molti nobili uomini proscritti, sentendo sè essere nel numero di quegli, raccolte le reliquie degli eserciti pompeiani, e ancora molti servi tolti dal servigio loro, e armate più navi, si diede come corsaro ad infestare il mare, e a prendere, e a rubare, e ad uccidere quanti poteva di quegli che delle sue parti non erano. E tenendo Cicilia e Sardigna, intrachiuse quasi sì il mare, che le opportune cose non potevano a Roma andare, di che egli la condusse a miserabil fame: col quale essendosi poi pacificati i [p. 105 modifica]tre predetti principi, poco perseverò nella pace; perciocchè raccettando i fuggitivi, i quali erano rimasi degli eserciti di Bruto e di Cassio, fu giudicato nemico della repubblica; per la qual cosa avendo trecentocinquanta navi armate, primieramente Menna suo liberto con sessanta navi da lui ribellato passò nelle parti d’Ottaviano: appresso Statilio Tauro combattè in naval battaglia contro a Menecrate, uno de’ duchi di Sesto, e sconfisselo: e Ottaviano Cesare ancora combattendo contro a' Pompeiani gli sconfisse: appresso M. Agrippa similmente tra Melazzo e Lipari combattè contro a Pompeo e contro a Democare e vinsegli; e nel terzo di trenta navi sommerse in mare o prese, e Pompeo si fuggì a Messina, e Cesare incontanente trapassò a Tauromena; e quivi nella prima giunta fieramente afflisse Pompeo e’suoi; e in quella rotta molte navi furono affondate; e Pompeo perdutavi molta della sua gente, se ne rifuggì in Italia; poi ancora ricolte insieme le sue navi, essendo Agrippa venuto in Cicilia; e Ottaviano veggendo l’armata di Pompeo ordinata, comandò al detto Agrippa che contro ad essa andasse, il quale atrocissimamente commessa co’ nemici la battaglia, vinse i Pompeiani, e nel torno di centosessantatrè navi prese e affondò, e Pompeo si fuggì con forse diciotto, con gran fatica scampato delle mani de’ nemici: che molte parole? Colui che poco avanti era signore di trecentocinquanta navi, con sei o con sette si fuggì in Asia. Ultimamente sforzandosi in Grecia di rifare il suo esercito, e quivi essendo venuto Marco Antonio, e avendo sentito come esso era stato [p. 106 modifica]vinto da Cesare, gli mandò comandando che con pochi compagni venisse a lui: ma Pompeo fuggendosi, fu da Tizio e da Furnio antoniani duci più volte vinto, e ultimamente preso e ucciso; dopo il quale miserabile fine, perciocchè violento rattore corseggiando e guerreggiando fu dell’altrui sustanze, e vago versatore del sangue degli uomini, in questo fiume di sangue bogliente, secondochè qui mostra l’autore, fu dalla divina giustizia dannato: ed in eterno munge, questo fiume cosí bogliente,

Le lagrime, che col bollor disserra,

cioè manda fuori, A Ranier da Corneto. Questi fu messer Rinieri da Corneto, uomo crudelissimo e di pessima condizione, e ladrone famosissimo ne’ suoi dì, gran parte della marittima di Roma tenendo con le sue perverse operazioni e ruberie in tremore: a Rinier Pazzo. Questi fu messer Rinieri de’ Pazzi di Valdarno, uomo similmente pessimo e iniquo, e notissimo predone e malandrino, per le cui malvage operazioni, l’autore qui il descrive esser dannato,

Che fecero alle strade tanta guerra,

pigliando, rubando e uccidendo chi andava e chi veniva. Poi si rivolse. Qui comincia la sesta e ultima parte del presente canto, nella quale l’autore, poichè ha descritto ciò che dal Centauro dice essergli stato mostrato, ed è stato da lui dall’altra parte mostrato, mostra come esso ripassato il fiume, se ne tornasse dicendo, Poi, che cosí ebbe detto, si risolse, al passo donde passato l’avea, e ripassossi ’l guazzo, cioè quel fossato del sangue.