Il caos del triperuno/Selva terza

Selva terza

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Selva seconda De aurea urna qua includitur Eucharistia
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SELVA TERZA



Unus adest triplici mihi nomine vultus in orbe:
tres dixere Chaos, numero Deus impare gaudet.


F ortuna, con soi larghi e pronti           G iri
R otandosi, nel volto ad altri                 R ide,
A d altri pur par sempre che s’ad          I ri.
N on so, Grifalco mio, che me ne          F ide:
C ostei veggio ch’a molti spenna le       A le
E dal ciel tratti in terra li col                  L ide,
S i come Borea fa de le ci                        C ale.
C he temer lei, s’un Dio nel ciel ad       O ro
O ver s’in terra un Mecenate o              N oro?

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Or sbuco giá qual nottula di tomba,
ed oltra quella spera, onde la pioggia
descende e per augel rado si poggia,
date mi son le penne di colomba.
Tant’alto salirò, che mi soccomba
chi ha ’l giro di trent’anni, e ’n l’aurea Loggia,
ove ’n se stesso un Trino Sol s’appoggia,
fia tempo ch’ai convito suo discomba.
Quivi non sotto enimma, non per velo
ch’abbia su gli occhi Móse, non per mano
posta al forame di l’eburneo ventre,
non piú a le spalle no, ma in vista piano
l’Altissimo vedrò quanto sia, mentre
si turba entro lo ’nferno e ride il cielo.

MAGNANIMVS TEMPLVM

HOC MVSIS GRIFALCO LOCAVIT

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PREFAZIONE


Lo animale ragionevole, lo quale per vivere o soperstizioso o lascivamente, ovvero che per falsa dottrina avvezzato e abituato non piú sente lo errore suo, ma cieco ed oblivioso nel grembo de la regina de’ peccati e difetti, che è la ignoranzia, sede e dorme, costui non pur di bestia peggiore, ma un’ombra, anzi uno niente si pò chiamare, come quello che non ode, non sente, non vede, non tocca piú di se stesso lo essere. Or dunque trovasi egli nel Caos, e a lui non è fatto ancora il mondo: dilché per divina pietade apparegli una fiammella d’intelletto, e cosí a poco a poco entra egli in cognizione di queste cose per lui da Dio criate e talmente vi affigge il core, che distinguendo e scegliendo va lo smisurato beneficio da Dio a lui dato. Ma non troppo egli vien poi rassicurato da questa nostra umana e corrotta natura, che non caschi o poscia egli cadere in alterigia, vedendosi essere di tante belle cose tiranno. Però l’anima, d’ogni macchia purgata, è nello stato che giá fu Adam (intendendosi questo allegoricamente) avanti lo gustato pomo: la natura gli è ancora incorrotta; non vi è lo tempo, non vi è la morte. Vero è che nel paradiso terrestre de la purgata conscienzia potrebbe ella facilmente con lo arbore del libero arbitrio fallire: o sia nel tornare a la soperstiziosa vita lasciando lo vangelo, secondo Livia; o sia per lo tribuire a soi istessi meriti la acquistata grazia, secondo Corona; o sia nel voler comprendere e diffinire la incomprensibil ed infinita potenzia di Dio, dando opera al studio de li nostri moderni teologi infruttuosamente per noi affaticati, secondo Paola. [p. 339 modifica]

TRIPERUNO.

Quel spaventevol mar, che a’ naviganti «Molle ostentat iter via lata, sed ultima meta | Praecipitat captos volvitque per ardua saxa». Virg.
promette l’Epicuro sí soave,
solcai gran tempo in feste, gioie e canti,
fin che la gola, il sonno e l’ozio m’ave
travolto in bande ove d’acerbi pianti
nel scoglio si fiaccò mia debol nave,
che aperse a l'acque il fondo ed ogni sponda
e ’n preda mi lasciò de’ pesci a l'onda.

E l'ignoranzia d’ogni ben nemica,
tosto che ’n grembo a morte andar mi vide, Mors peccati.
corsevi come donna ch’impudica
con vista t’ama e col pensier t’ancide.
Quindi svelto mi trasse ove s’intrica
nostr’intelletto in quel sogno, ch’asside
fra le sirene, e dormevi egli in guisa,
che sua spezie da sé resta divisa.

Vago mi parve sí l’aspetto loro, Ignorantia inter delitias.
che froda in tal sembianza non pensai;
ma ciò che splende poi non esser oro
tardo conobbi e subito provai.
Un d’angeliche voci eletto coro
entrato esser mi parve, e poi mirai
cangiarsi e’ bianchi volti in sozze larve,
e il lor concento in stridi ed urli sparve.

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Ed una nebbia orribile, che adombra
la ragion, lo ’ntelletto e l’altro lume,
m’avea offoscato sí ch’inutil ombra
io mi trovai for d’ogni uman costume
e in stato di color cui sempre ingombra
la dolce sete a l’oblioso fiume;
ché, come egli son vani e fatti nulla,
tal vien chi in ignoranzia si trastulla.

D’onde s’ardisco dire che ’n niente
m’avea travolto la regina cieca,
taccia chi ’n l’altrui fama sempre ha ’l dente
né dica il mio cantar favola greca.
Ma Dio, com’ora fece a me, sua mente
svella dal stesso nuvol che l’accieca
e scotalo dal sonno (ah troppo interno!)
che puoco fummi ad esser pianto eterno.

Però ti rendo mille grazie, e lodo,
lodar quanto può mai potèsta umana,
te, dolce mio Iesú; te, fermo chiodo
de l’alta fede ch’ogni dubbio spiana;
te, dico, che disciolto m’hai quel nodo
il qual ci lega e fanne cosa vana;
te, sommo autor di tal’ e tante cose,
che ’l suo tesor per noi lá suso ascose. Thesaurus coeli quem neque tinea neque erugo demolliuntur.

Né lingua voci né ’ntelletto sensi
muova giammai senza ’l tuo nome sacro,
nome, che sempre, o canti o scriva e pensi,
spero pietoso e temo giusto ed acro.
Iesú, te dunque invoco per l’immensi
chiodi amorosi, ch’alto simulacro
t’han fatto in terra al popolo cristiano!
Or mentr’io scrivo scorgimi la mano;

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scorgi la man non piú cruda, rapace,
non piú del mondo posta in servitute;
la man che particella, se ’l ti piace,
scriver desia de l’alta tua vertute,
la quale d’ogni senso uman capace
mi ricondusse al poggio di salute,
e nel tuo nome pareggiar vorria
mio basso stile un’alta fantasia.

TRIPERUNO


Il grave sonno, in cui m’era sepolto Omnium honestarum rerum ignava perditaque neglegentia.
quanto di bono vien dal primo cielo,
ruppemi orrendo grido, qual in molto
scoppio far sòle il fulgurante telo.
Apro le ciglia e, quando ebbi distolto
da’ sensi un puoco l’importuno velo,
dritto m’innalzo, guato e nulla veggio,
perch’era il mondo ancora d’ombre un seggio.

Anzi né ciel né terra né ’l mar era,
né averli mai veduto mi sovvenne;
non verno, estate, autunno, primavera,
non animai de’ peli, squamme o penne;
non selve, monti, fiumi, non minera
d’alcun metallo; non veli né antenne,
mercé ch’era del Caos in la massa
d’ogni ombra piena e d’ogni lume cassa.

Né piú sapea di me stesso, né manco
di chi vaneggia in forza di gran febre, «Consuetudo cui non resistitur facta est necessitas». Aug.
star o insensibil pietra o trar del fianco,
aver maschile o sesso muliebre,
esser o verde o secco o negro o bianco:
sí m’eran folte intorno le tenèbre!
Pur sempre non vi stetti, ma ecco d’alto
un sol m’apparve, onde ne godo e salto.

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Perché, sí come il pullo dentro l’uovo,
bramando indi migrar, si fa fenestra
col becco donde v’entra il raggio nuovo,
e poscia da le spoglie si sequestra;
tal io, mentre me stesso in l’ombre covo,
luce spontar mi vidi a la man destra,
ch’empí la notte, onde ratto m’avvento
lá col desio che ’l corso far sòl lento.

Inusitato e subito conforto
ardir m’offerse al cuor ed ale al piede.
Lungo un sentier de gli altri men distorto
affretto i passi ovunque l’occhio il vede.
Oh avventurosa fuga, che a buon porto
giunger mi fece d’un tal pregio erede!
Ben duolmi che, narrarvi ciò volendo
mentre son carne, in van mie rime spendo!

Di luce un gioven cinto, anzi un’aurora, «Natura Dei est invisibilis: potest tamen videri in aliqua spetie quam ipse elegerit». Aug.
ch’appare spesso a l’alma cieca e frale,
ecco si mi presenta e mi ’ncolora
col viso piú che ’l sol di luce eguale.
Onesto e lieto sguardo, che ’namora
ogni aspro e rozzo core, onde immortale
so ben che a tal beltá l’avrei pensato,
se allor io fussi, quel ch’oggi son, stato!

Que’ soi begli occhi ch’abbellâr il bello,
quanto su ne risplende e giuso nasce,
raccolsi a la mia vista, e fui da quello
non men depinto che quando rinasce «Etenim Deus noster ignis consumens est». Paul.
Proserpina in obietto del fratello
e de’ soi rai, benché luntan, si pasce.
Né il lume pur, ma un amoroso ardore
sentiva entrarmi dolcemente al core.

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Pur come avvenne a Piero, in sua presenzia
la vista persi, il senno e le ginocchia.
Chi sopra uman valor si fa violenzia
portar tal peso, vinto s’inginocchia.
Veggendomi egli a terra, di clemenzia
pingesi ’l volto e con pianto m’adocchia:
poi, sollevando i lumi al ciel, tal voce
muosse, ch’anco m’abbruggia e mai non cuoce.

FIGLIO AL PADRE


O tu, che ’ntendi te, te, qual son io, Deus Pater se ipsum intelligit et amat; quae intelligentia Filius est, amor vero Spiritus Sanctus.
quant’alto sei, quant’eccellente e saggio,
lo qual in nulla cosa mai non manchi,
sublime sí, che sotto e sopra quello
che sei pensar non puossi, e quest’è ’l mio
non mai dal lume tuo smembrato raggio,
io non di te né tu di me ti stanchi
mirar quanto ti sia e mi sii bello;
né quel spirito snello
e fuogo che fra noi sempre s’avvampa
ed or in dolce lampa
or in colomba formasi, minore
di noi giammai procede né maggiore.
Padre, Figliol e l’almo Spirto un Dio
eterno siamo, fuor d’ogni vantaggio.
Tre siam un, ed un tre, securi e franchi
che l’un vegna de l’altro mai rubello;
non cape in noi speranza né desio,
non spazio tra ’l comun voler né oltraggio.
Io del tuo lume e tu del mio t’imbianchi;
né dal nodo che tien l’alto suggello
unqua, Padre, mi svello.
Però d’ogni bontá nostra è la stampa,
che l’amorosa vampa

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del Paracleto imprime; onde ’l «Motore
del Tutto» siamo detti e «Creatore».
Or di quel nostro incomprensibil rio,
cosí soave a l’umile coraggio
(s’umile mai verrá ne’ spirti bianchi
conoscitor di noi), l’uomo novello
nasce d’animo e sangue santo e pio,
ch’avrá del mondo in man tutto ’l rivaggio. «Non enim potest rationem hominis obtinere qui parentem animae suae Deum nescit: quae ignorantia facit ut Diis alienis serviat». Lactan.
Né voi verrete in suo servigio stanchi,
stellati cieli e tu, nostro scabello,
ritonda terra; ma ello
s’indura contra noi l’ungiuta ciampa,
e giá si finge e stampa
di ferro e pietra statue, quell’onore
lor dando che a Dio vien, del tutto autore.
Nascon insieme l’uomo e l’alto oblio
del dritto ed anteposto a lui viaggio:
dico ’l sentier, che al fin porge doi branchi,
l’un stretto, dolce; l’altro piano, fello.
Quinci al gioioso, quindi al stato rio
s’arriva, onde giustizia in lor dannaggio
a’ tristi vegna, e tengali ne’ fianchi
téma per sprono e morte per flagello:
morte che, in un fardello
cogliendo tutti, ovunque vòl si rampa.
Nullo da lei mai scampa;
sia pur bel volto, sia pur verde il fiore,
far non può mai che morte nol scolore.
Ma guai, chi ’n mal far sempre ha del restio,
ché ogni sempre di lá trova ’l paraggio;
que’ di che mai di colpa non fûr manchi
men fian di pena ove gli rei flagello,
in fin a l’ore estreme, quando ’l fio
pagar verrammi inante ogni linguaggio,
dal ciel i destri e da l’inferno i manchi.
Pur stando in carne, lor spesso rappello:

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— Non son tigre né agnello:
chi ’l perso ben per racquistar s’accampa, «Nemo renascitur in Christi corpore nisi prius nascatur in peccati corruptione». Aug.
chi ’l viver suo ristampa,
intenda realmente che ’l Signore
del ciel in ciel non sdegna il peccatore!
Dunque, Padre, mi ’nvio dare suffragio
a loro, che non san chi sia pur quello
ch’altri da morte scampa, ed esso muore!

TRIPERUNO


A li alti accenti d’un tal sòno eroico,
del quale ne tremai com’uom frenetico,
vennemi voce altronde: — A che esser stoico,
miser, ti giova né peripatetico?
che ti val fra l’un mar e l’altro euboico
pigliar oracli e ber fiume poetico?
a che spiar la veritá da gli uomini, «Sapientia carnis inimica est Deo». Paul.
che di menzogna furon mastri e domini? —

Io, che sculpito in cuor le note aveami
d’un sí bel viso, d’un parlar sí altiloquo,
a poco a poco gli occhi aprir vedeami
al sòno di colui tanto veriloquo.
Pur tal era l’error ch’anco teneami,
che a pena svelto fui; perché ’l dottiloquo
gioven mi sciolse, onde ciò che anti nubilo
mi parve intendo, ed intendendo giubilo.

Giubilo perché intendo (intenda e Plinio,
ch’or vive morto!) viver sempre l’anima;
non sí però, ch’i’ stia sotto ’l dominio
di chi ’l tegume d’uman spirto inanima.
Stetti gran tempo in tale sterquilinio,
nel qual concedo ben che l’alma exanima
la troppo vaga ed addolcita letera, Litera enim occidit animam.
e molti uccide il canto d’esta cetera.

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Qual è chi ’l creda, ch’oggi tanta insania
la nostra veritá si prema e vapoli?
S’io mi diparto a l’umile Betania
per alto mar da Roma o sia da Napoli,
ecco a man manca dal Parnasso Urania
scopremi l’Elicona, ove mi attrapoli.
Ben sa che a lei m’avvento, benché ’l Tevere Metaphorice.
lasciassi per Giordan, quell’acque a bevere.

Acque sí dolci! quanto piú bevémone,
piú a la tantalea sete si rinfrescano!
Quivi l’argute ninfe lacedemone «Qui addit scientiam addit dolorem». Eccl.
a gli ami occulti nostre voglie adescano;
cosí non mai dal bianco il negro demone
sceglier mi so, non mai l'onde si pescano,
cui trasser a la destra del navigio
Piero e Gioan de’ pesci il gran prodigio.

Però dal mio Iesú se detto fiami
giammai: — Di poca fede, or perché dubiti? —
scusarmi non saprò, quando che siami
concesso por le dita fin ai cubiti
nel suo costato e trarvi ’l ben, che diami
fidi pensieri e al vero creder subiti.
Non lece dunque piú d’Egitto in gremio
starsi, ma gir con Móse al certo premio.

Assai d’oro forniti e gemme carichi, Spoliant Aegyptum qui e libris philosophorum eloquentia tantum eligunt.
di Faraon scampiam omai la furia;
né sí men gravi paran i rammarichi
e pene che ci dava l'empia curia,
che nel deserto alcun de noi prevarichi,
dicendo in faccia a Móse questa ingiuria:
— Mancaron entro Egitto forse i tumuli,
ché morir noi per queste valli accumuli? —

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Ma non cosí l’alma gentil improvere
a chi oltra ’l mar asciutto mena un popolo;
ché nel primo sentier, quantunque povere
sian le contrate, ove sol giande accopolo
per cibo, al fin vedrassi manna piovere,
sorger un largo rio di nudo scopolo,
che cominciando a ber nostri cristigeni Sermo incultus divinarum scripturarum principio eloquentibus horret.
san quanto noccia usar co’ li alienigeni.

Deh! non ci chiuda il passo ai rivi, ch’ondano
di latte e mèle, nostra ingratitudine:
rivi che noi di lepra e scabbia mondano,
contratta dianzi ne la solitudine.
O di qual mèl e’ nostri petti abbondano,
ch’assaggiâr pria di fèl l’amaritudine!
Ma ciò non prima seppi, che ’n cuor fissemi
Iesú questi sí dolci accenti e dissemi:

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DIALOGO

CRISTO E TRIPERUNO

CRISTO


Pace tra noi, ch’amor ciò vòl, o privo
d’amor e pace miser animale,
sí bello dianzi ed or sí lordo e schivo!
Amor sia, prego, e pace teco, ché ale
né augel mai vola senza, né alma, cui
amor e pace manchi, ad alto sale.
Ma non m’intendi (sí contende i tui «Omne nostrum peccatum consuetudine vilescit et fit homini quasi nullum sit, obduruit, iam dolorem perdit et valde putre est nec dolet». Hier.
sensi la folta nebbia!): u’ l’aurea face
del cuor spent’hai, né vedi te né altrui.
Ahi! misero, che speri? ove fugace
te sottraendo a l’ira vai? ché altrove
ben giugne al varco l’empio contumace!
Le tue (non solle?) mal pensate prove
t’han scolorato ’l viso e spento a’ piedi
la scorta luce. Dove vai? di’, dove?
Or vegno liberarti: spera e credi,
porge la man, né aver, uomo, di téma «Non nostrum accepistis spiritum iterum in timore» Paul.
el spirto sol, d’amor anco ’l possedi.
Ma un dono qui ti cheggio, cui l’estrema
vertú del ciel, ch’or tu non sai, si pasce,
né in lui divina fame unqua vien scema.

TRIPERUNO


Il vago vostro aspetto, onde mi nasce
un trepido sperar (qual che voi siate,
Signor), deh, in questo errore non mi lasce!

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O dolce man ed occhi di pietate,
(ch’or man i’ stringo, ch’or begli occhi veggio),
morrò se ’l venir vosco mi negate!
Mentre vi guardo e ’nsieme favoleggio,
si rasserena e sfassi quella scabbia
nel cor giá fatta un smalto e duro seggio.
Qual sí fort’ira, qual schiumosa rabbia
non ratto cade al viso vostro onesto?
E pace mi chiedete in questa gabbia?
in questa d’error gabbia chiuso e mesto,
privo d’ogni, se non sia il vostro, aiuto,
dunque, ch’i’ v’ami e doni son richiesto?
Amarvi, anzi adorarvi, non refúto; Summum et maximum mandatum est Deum colere et amare.
ché, quanto parmi al bel sembiante altéro,
amarvi, anzi adorarvi son tenuto.

CRISTO


Oh se co’ l’occhio avessi ’l cor sincero,
piú che di for me ’ntenderessi dentro!
Però di me non hai giudicio intero.

TRIPERUNO


Non pur voi, ma me stesso, e ’n questo centro
come ’ntrassi non so. Ben or vi dico:
s’uscirne poscio, mai, non mai piú v’entro!
Non trovo in lui né porta né postico
per cercar chi’ mi faccia, e brancolando
in guisa d’orbo, piú miei passi intrico.
Oggimai tempo è trarsi d’ombra, quando
la luce de vostr’occhi essermi scorta
non sdegni a l’uscio per voi fatto entrando.

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CRISTO


Questa prigion da tutte parti porta
non ha, for ch’a l’entrare; ma ritorno
far indi e sovra girsen, via piú importa. «Sed revocare gradum superasque evadere ad horas | Hoc opus, hic labor est». Virg.
Questo è quel lungo nel mal far soggiorno:
non speri uman valor, chi uscirci vòle;
ed io lo guida son ch’altrui distorno.
Di che se ben sentissi, o ingrata prole,
quanto ti diedi e darti anco apparecchio
di questa cieca ed inornata mole,
non fôra mai che per alcuno specchio
di veritá lasciassi ’l vero lume,
avendo al falso pronto sí l’orecchio.
Son io la veritá, son io l’acume
del raggio che, volendo, sempre avrai:
persona i’ son de l’inscrutabil nume.
Io son l’amor divin, che ti criai
uomo simile mio, del ciel consorte,
se ’l cor porgi che pria t’addimandai. «Graminibus pecudes pascuntur, rore cicadae, | Quadrupedum tigres sanguine, corde Deus».
A te il mio regno, a me il tuo cor per sorte
convien. Stolto sarai se darmi ’l nieghi,
ché nol facendo ti verrá la morte!
Morte, fera crudele, ai lunghi prieghi
che le sian fatti acciò non ti divore,
immobil sta, non che punto si pieghi.
Ma se remetti ne le man mie il core
e per altrove porlo indi nol svelli,
non fia perché abbi tu di lei timore.
Soi tumuli, sepolcri, roghi, avelli
e quant’urne s’affretta empire d’ossa
non temer, né di forza ch’aggian elli.
Lei, di catene vinta in scura fossa
rinchiusa, freno; ché, sciôrse volendo,
talora si dimena con tal possa,

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ch’ella, te il cor ritolto avermi udendo,
subito rotte lasciaralle a dietro.
E, quant’or ti son bello e ti risplendo,
questa piú lorda e d’aspro viso e tetro
ti assalirá co’ l’insaziabil ferro
di nervo tal, ch’ogni altro li è qual vetro;
e ’n peggior stato, di cui ora ti sferro,
respinto ancideratti, e parangone «Prudentia carnis mors est, prudentia autem spiritus vita et pax est» Paul.
farai del gran destin che altrove serro
a te, sol d’intelletto e di ragione
bell’alma. Poi ch’ucciso morte t’aggia,
in Dio de l’opre tue sta ’i guidardone!
Pur speme né timor da te ti caggia,
ma l’una e l’altro insieme fa’ che libri;
ché chi spera temendo alfin assaggia
di me quale dolcezza lá si vibri,
ove sfrenato amor ragion non stempre,
ma sian le due vertu del senso i cribri.

TRIPERUNO


Se per cosa, Signor, di basse tempre
da voi sí largo pregio me n’acquisto,
ecco, vi dono il cuor! abbiatel sempre!
Ma (dirlo vaglia!) non piú bello acquisto
far si potria di quel ch’or faccio: averve,
o d’ogni ben bellezza, in fronte visto,
in quella fronte, onde tal foco ferve «Iesus mel in ore, melos in aure, iubilus in corde». Bern.
in l’alma mia, che ardendo s’addolcisce,
mentre che ’l suo del vostr’occhio si serve.
Non ho che io temi morte se perisce
ogni sua forza, pur che sempre v’ami;
e il sempre amarvi troppo m’aggradisce.

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CRISTO


Non mancheranno tesi lacci ed ami
d’un adversario tuo, che ’nvidioso
al don, ch’or ti darò, sotto velami
di veritá cerchi farti ritroso
a l’amistade nostra; ma piú bassi
che puoi gli occhi terrai col piede ombroso.
Muovi tu dunque accortamente i passi «Haec est in omnibus sola perfectio: suae imperfectionis cognitio». Hier.
per questo calle che a man destra miri,
onde al terrestro paradiso vassi.
Cosa non evvi per cui unqua sospiri,
anzi gioisci di quel dolce ch’io
t’apporto, acciò che m’ami e toi desiri
commetta a me che t’ho svelto d’oblio.

TRIPERUNO


Com’esser può ch’un arbore, ch’un fiume
l’un stia verde giammai senza radice,
l’altro piú scorra se acqua non s’elice
di fonte, o neve a l’austro si consume?
Com’esser può che ’ncendasi le piume,
mancando il sole, l’unica fenice,
o ch’ardi al spento foco cera o pice
di natural e non divin costume?
Com’esser può, dal cor un’alma sgiunta, «Felix conscientia illa in cuius corde, praeter amorem Christi, nullus alius versatur amor». Hier.
che ’n corpo viva, come allor viss’io
che ’l cor al car mio dolce Iesú diedi?
Ma ’n ciò tu sol, amor, natura eccedi,
ch’un corpo viver fai, benché ’l desio
sen porti altrove il cor su l’aurea punta.

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TALIA


Piú di voi fortunati sotto ’l sole
fra quantunque animai non muove spirto,
ch’al fin d’esta mortal incerta nebbia
migrar ci è dato sovra l’alte stelle!
Bontá di lui, che, a man destra del Padre
regnando, fassi degna nostra guida.
Nostra per cieco labirinto guida,
ove smarrí de lo ’ntelletto il sole;
nostro fermo dottor, che sé col Padre
esser c’insegna un Dio co’ l’almo Spirto,
un Dio, che stabil muove il mar, le stelle,
augelli, belve, frondi, vento e nebbia.
Ma da l'Egeo mar un’atra nebbia, Omnis doctrina et virtus philosophorum sine capite est, quia Deum nesciunt, qui est virtutis ac doctrinae caput.
che a tanti perder fa la dolce guida,
levata in alto fin sotto le stelle,
ai saggi erranti cela il vero sole:
ché piú credon salir di Plato il spirto,
che Paolo e Móse, che d’Isacco ’l padre;
né Archesilao né de stoici il padre
sin qui gli han tolto via del cuor la nebbia,
che penetrar non lascia ove sia ’l spirto
motor di ciò che muove, mastro e guida.
Però van ciechi e bassi, e solo al sole
molti dricciâr altari ed a le stelle.
O voi dunque, mortali, de le stelle,
de l’anime e di noi cercate il sole,
e non del dubbio Socrate la nebbia.
Meglio è morendo aver Iesú per guida
che ad Esculapio offrir d’un gallo il spirto! Socrates moriturus gallum immolari Esculapio iussit.
I' veggio trasformato il negro spirto
in angelo di luce, per le stelle
volando, a noi mostrarsi esser lor guida,

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se leggo Averois, d’errori padre.
Ma l’aquila Gioanni in bianca nebbia
sublime affise gli occhi al Sol del sole;
al Sol del sole, onde ’l figliuol, dal padre
mandato in questa nebbia su a le stelle,
si è fatto nostra guida, amor e spirto.

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DISSOLUZIONE DEL CAOS

TRIPERUNO


Finito che fu dunque l’alto verbo,
benché infinito sempre lo servai,
disparve ’l mio Signor in un soperbo
triunfo tolto a mille e mille rai;
ma nel fuggir un sòno cosí acerbo
tonò dal negro ciel, ch’io ne cascai
come frassino o pino, il qual per rabbia
di vento stride e stendesi a la sabbia.

Vidi la cieca massa, in quell’istante
che ’l capo m’intronò l’orribil scopio,
smembrarsi in quattro parti a me davante,
ed elle sgiunte aver giá loco propio,
due parti in capo e due sotto le piante: «Iudicet qui potest an maius sit iustos creare quam impios iustificare». Aug.
somministrarmi sento effetto dopio,
qual puro e caldo, qual sottil e leve,
qual molle e freddo, qual densato e greve.

Vidi anco le ’ncurvate spere intorno
de la terrestre balla farsi cerchio,
che rotan sempre e mai non fan ritorno:
sol’una è fatta a noi stabil coperchio.
Ma ’l ciel d’innumerabil lumi adorno
(un solo non mi parve di soverchio)
m’offerse al fin girando un sí bell’occhio,
che lui per adorar fissi ’l ginocchio.

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Egli, sé alzando, tal mi apparse, ch’io
lasciai pur anco ’l fren in abbandono,
drieto a l’error del credulo desio,
che ’n tal sentier non sferzo mai né sprono. «Facilis descensus Averni». Virg.
Ma strana voce, onde quell’occhio uscio,
mentre ch’assorto in lui sto fiso e prono,
scridommi come Paolo ai listri fece,
che di Mercurio l’adorâr in vece.

SOLE


Alma felice, c’hai sola quel vanto «Anima facta est similis Deo, quia immortalem et indissolubilem fecit eam Deus. Imago erga ad formam pertinet, similitudo ad naturam». Aug.
aver di l’alta mente simiglianza,
onde guardar mi puoi frontoso, altero,
qual or ti fai, ché ’n me, codarda tanto,
piú estimi questo raggio che l’orranza
del dato a te sovra ogni stella impero?
Non Dio, ma un messaggero
di lui ti vegno da quell’una luce,
ove ben sette volte intorno avrai
di me piú bianchi rai;
da Quel senza cui nulla fiamma luce,
ma come in vetro egli per noi traluce.
Or dunque piú alto e non sí basso adora,
ché l’ esser mio fu solo in tuo servigio.
Mira come ascendendo passo passo,
senza mai far in lunga via dimora,
di miei cavalli tempro sí ’l vestigio,
che l’ampia rota, ove tornando passo,
non unqua vario e lasso,
finir a la prescritta meta deggio.
Vedi come l’estreme parti abbraccio,
e quanto puosso faccio
sol per accomodarti l’uman seggio,
ove di quanto sai voler provveggio.

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Mira quell’ampia zona come obliqua Zodiacus.
mi volge a drieto, onde ne vado e riedo Duplex et diversus raotus.
insieme, ostando al mio tornar sí ratto.
Né di’ che tal ripulsa mi sia iniqua;
ché risospinto, mentre vi procedo,
l’un emisfero aggiorno, l’altro annotto.
scorrendo quattro ed otto
segni per tanti mesi, e passeggiando
causo molta bellezza di natura,
c’ha, variando, cura
farti piú vago e lieto il mondo, quando
d’ambi solstici a l’equinozio scando.
Quinci l’arista, e ’l ghiaccio quindi apporto,
lá il fior e ’l frutto a piú tua dolce gioia.
Ma non usar del ben concesso in male, «Quanto maiora beneficia sunt hominibus constituta, tanto graviora peccantibus iudicia». Chrys.
ché sentiressi quanto è ratto e corto
il mio gir lento, e ti darei gran noia
solcando il cerchio estivo e glaciale.
Poi ’l tempo c’ha cent’ale
a gli omeri, a le mani, al capo, ai piedi,
ch’ora sotterra giace in le catene,
verria stôrti dal bene
ch’oggi sí lieto godi e te ’l possedi;
e ne faria soi giorni e mesi eredi.
Ben tempo fu, che chi sia ’l tempo e morte
quello provasti, e questa dir sentisti;
e l’uomo Dio, che d’uomo a tempo nacque
(ma sempre di Dio nasce, ed or le porte
del ciel entrar hai visto), giá servisti,
quando per l’uomo farsi uomo li piacque;
ché nel presepio giacque
nudo, fra l’asinelio e bue nasciuto.
Ma, d’ignoranzia in grembo, l’hai scordato:
però da Dio novato
col mondo sei, che dianzi eri perduto,
e novo Adamo fatto sei di luto.

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Luto non sei piú, no, ma novo Adamo
per cui ruppe oggi Dio la massa, e d’ella
novellamente noi per tuo ben scelse;
noi, dico, stelle, ch’anzi ti eravamo
co’ l’altre cose nulla o quel si appella
«Caos», donde ’l bel seclo Dio ti svelse.
Ma sovra le piú excelse «Laetitia bonae conscientiae paradisus est, pollens affluentia gratiarum affluensque deliciis». Aug.
corna de’ monti, onde ti porto il giorno,
piantato t’è un terrestre paradiso,
che di solaccio e riso
onestamente sendo sempre adorno,
Iesú spesso vi fa teco soggiorno.
Adora lui, se forse quanto sia,
(dandogli ’l cor sí come hai fatto), gusti.
Quel non son io, perché da te adorato
ne vegna, come al mondo errore fia
di Manicheo e soi sequaci ingiusti.
Cristo non son, perch’egli sempre a lato
del Padre sia chiamato
«sol di giustizia»; dond’ei dir si puote
Cristo esser sole, e ’l sol non esser Cristo.
Sol son io ’l sole, visto
d’occhio mortal; ma l’altro sol percuote
di cieco error chi vòl mirar sue rote. Inscrutabile Dei numen.
Ora piú non m’attempo,
ché senza me vedi ogni errante stella
(per trarne frutto, chi testé, chi a tempo),
volersi unir indarno a mia sorella,
che adultera s’appella Luna omnium planetarum concubina.
d’ogni pianeta, e pur senza noi dua
con puoco effetto va la vertú sua.

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TRIPERUNO


A l’increpar umile del mio Apollo,
come uom che cade e sú vergogna l’erge,
mi rilevai, mirando quanto armollo
di sua potenzia Dio, che, ovunque asperge
li aurati raggi, il mondo fa satollo Dies et nox.
di caldo lume, e ratto che s’immerge
a l’altro uscito giá d’un emispero,
imbianca quello, e questo lascia nero.

Ma non sí tosto il giorno fu dal lume
solar causato e nanti mi rifulse,
che lá una fonte, qua bagnar un fiume
vidi le ripe sue da l'onde impulse:
parte stagnarsi e mitigar lor schiume,
parte volgersi al mar e l'acque insulse
far salse, ove l'orribil Oceáno
distende l’ampie braccia di luntano.

In mille parti ruppesi la terra,
donde montagne alpestri al ciel ne usciro.
Quinci una valle, quindi un lago serra
de’ colli e piagge qualche aprico giro.
L’alto profundo mar giá non pur erra
la sua consorte che rotonda miro,
anzi, fatta la via per calle stretto,
in grembo a lei si fece agiato letto.

Giá d’erbe, fiori, piante e de’ virgulti
la terra d’ogn’intorno si verdeggia;
quai poggi erbosi, e quai lor gioghi occulti
han di frondose cime, e qual pareggia
monte le nebbie. Ma de’ boschi adulti
ecco giá sbuca l’infinita greggia
de gli animali: chi presto, chi pegro,
chi fier, chi mansueto, o bianco o negro.

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Anco d’augelli un’alta copia vidi
sciolti vagar per l’aere, ed altri tanti
su per le frondi e macchie tesser nidi
o rassettar col becco li aurei manti
(non è poggetto e riva, che non gridi
lor vari e ben proporzionati canti),
altri lasciare il volo e al nuoto darsi
e, in acque scesi, d’augei pesci farsi.

Stavami affiso, e nel mirar un dolce
pensier alto diletto m’apportava:
gran cosa il mondo, e piú chi ’l guida e molce
troppo mi parve allor, e ch’ei non grava
né l’un né l’altro polo che lo folce,
e ch’un sí magno artefice l’inchiava!
Né fu mirabil men, che de niente
pender lo vidi ad alto incontanente. Subita rerum creatio. «Nemo quaerat ex quibus ista materiis tam magna tamque mirifica opera Deus fecerit. Omnia enim fecit ex nihilo». Lactant.

Tra nulla e tutto ’l mondo alcun indugio,
quantunque pargoletto, in Dio non cape.
Or stracco di stupir non piú m’indugio:
ma, vòlto il passo ad un pratel che d’ape
tutto risona, dando a lor rifugio
sí l’aura dolce come i fior le dape,
mi si presenta ratto in bella gonna,
ch’esce d’un bosco, sola e grave donna.

Presta ne’ gesti, e di sguardo matura,
ma piú d’augello ne l’andar spedita,
ha vesta bianca, gialla e di verdura,
e ciò che ’ncontra tocca e dálle vita.
Che nulla a drieto lasciasi procura;
e sopraggiunta ov’era l’infinita
mandra de l’ape, tutte le raguna,
e fece lor non so che, ad un’ ad una.

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Vago di lei saper, non che la causa
perché sí or questa or quella cosa tocchi,
vadole contra; e poi, di farle nausa
temendo, mi ritraggo e basso gli occhi.
Ella che accorto m’ebbe fece pausa
con le man giunte al ciel e li ginocchi
piegati in terra, e tal parole sciolse,
che poi finite, a me lieta si volse:

NATURA


Quell’inclito animale d’alto pregio,
ch’ogni altro avanza e tiensil basso e domo,
ecco, celeste Padre Santo, il nomo,
se da voi porre i nomi ho privilegio!
Ma giá trovai nel nostro sortilegio,
che nominar il debba «fragil uomo»,
per quel sí dolce e pestilente pomo
cui si nascose il primo sacrilegio.
Ben vedo che per me, «Natura» detta, Natura hominis corrupta proclivis et mutabilis est.
l’eterno oprar che destemi si perde,
e nasce ognor che mi persegua il tempo.
Onde, per ch’ora sia sempre sul verde,
altre stagion verranno assai per tempo,
che al fine mi trasportan qual saetta.

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DIALOGO

NATURA E TRIPERUNO

NATURA


Spirto immortale, a cui sol alza Dio «Soli nos ex animantibus astrorum ortus, obitus cursusque cognovimus». Cic.
la fronte in cielo e fattene capace,
fa’ che a me torni udendo l'esser mio!

TRIPERUNO


Io sospicai di troppo esser audace,
volendo e te sapere e l’opre tue:
però mi volsi adrieto per mia pace.

NATURA


Anzi dal Padre destinato fue
che sol da l’uomo l'esser mio s’intenda
fin a la meta de le fiamme sue;
ma che l’ottavo cerchio non trascenda,
se non quando abbia seco parte in cielo
e l’alto pegno, d’onde ’l tolse, renda.
Ch’i’ sia la tua Natura non ti celo,
da Lui fatta del mondo servatrice
sempre, se sempre dura l’uman velo.

TRIPERUNO


Dunque sei quella mastra, quell'altrice,
quell’onoranda madre, quella grande Natura divina et humana.
di Dio ministra e del mio ben radice?

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Ecco se lunge tua beltá si spande,
o causa se non prima, almen seconda,
ecco se chiara sei da tutte bande!
Verd’è la terra, gialla, rossa e bionda,
che ’l tuo pennello intorno mi la pinse
e mi la rese agli occhi sí gioconda.
E ’l ciel ne lodo, e lui che il mondo avvinse
di quel forse non mai solubil groppo,
né men chi a l’opra nobile t’accinse.

NATURA


Saggio animal, pur son colei che ’ngroppo
le fila ch’altri lá dissopra ordisce: Donec in carne anima est, patitur inquietudines.
lieta ne vo, ma non sicura troppo.
Anzi ’l vivo pensier, che m’addolcisce
pensando al tuo, non pur al mio decore,
sento che passo passo in me languisce. Diffidentia.
Deh! non fallir, alma gentil, amore,
che ad esser ti degnò suo dolce obietto,
dandoli tu, de cui si pasce, il cuore!

TRIPERUNO


Il cuor a lui giá diedi, ed ogni affetto
ho di seguir e non lasciarlo unquanco
per non privarmi del suo bello aspetto.
Non sazio mai, non mai vedrommi stanco «Solent non nulli Deum in prosperis diligere, in adversis autem minus amare». Greg.
mentre mi volgo a contemplar ognora
l’amor per cui di gioia mai non manco.
E pur se dubbia sei, madre, né ancora
ben stabile considri esser il chiodo,
battil cosí che mai non esca fora!

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NATURA


Figliuol, giá strinsi a l’altre cose un nodo,
donde sferrarsi quelle non potranno,
se Dio non le ritorna al primo sodo.
A te con li altri, che saputi vanno,
diede l’alto motor un liber giovo,
che o lor in pregio vegna o lor in danno.
Però mistier non è ch’io batta ’l chiovo;
altro braccio del mio sovente il preme;
tu stesso il sai che ’l fatto non t’è novo.
Ragion, memoria, e lo ’ntelletto insieme Mortalibus omnibus conscientia Deus.
sceser in te da le soperne idee,
c’han di tua libertá le parti estreme.
Se mai verrá che contra ’l ben si cree
pensier in te, non temer, che non senta
le voglie entrate se sian bone o ree.
Perché la scorta tua sta sempre intenta
del cor al varco e sa chi va chi viene,
né in darti avviso mai fia pegra e lenta. «Heu quantum misero poenae mens conscia donat!». Luc.
Però ch’io sol la rabbia in te raffrene!
forse tempo verrá che da me impetri
de le stagion di foco e ghiaccio piene.
Ché quando sia che i dí brumali e tetri
volgerti il chiaro ciel sossopra miri,
e i monti neve, e i stagni farse vetri,
nostra in balía sará che ’l mondo giri,
lo qual il tempo adorno riconduca,
e l’erbe e’ fior novellamente aspiri.
Ma non sia ch’alcun serpe mai t’induca
de l’arbore vietato a côr il frutto,
che ancide altrui se ’l morde o se ’l manuca.

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TRIPERUNO


Piú tosto il sol fermarsi e ’l mar asciutto
forse vedrò, che mai contra la voglia
cosa mi faccia di chi move ’l tutto.
Ma scoprimi tu giá (quando che foglia
mai senza tuo vigor non penda in ramo)
quanto sii vaga e bella sotto spoglia!

NATURA


Qual pianta, qual augel, qual fiera piú amo
di te, saggio animal? Però mie cose
io piú mostrarti, che tu veder, bramo.
Voi dunque, freschi rivi, piagge erbose,
opachi colli, cavernosi monti,
campi de gigli, de ligustri e rose;
voi, rilevate ripe, laghi e fonti,
riposte valli, ruscelletti e fiumi,
ch’anco miei segni non gli avete cònti;
anzi del ciel voi fiammeggianti lumi,
quella vertú spandete a l’uomo nostro,
ch’omai l’assenni e del mio ben l’allumi!
Nel cui servigio mosse l'esser vostro «Sunt nonnulli ex terra homines, non ut incolae et habitatores, sed quasi spectatores superarum rerum atque coelestium». Cic.
un Dio: però ch’ei sol v’intenda lece,
al qual faceste un altro piú bel chiostro;
chiostro di tante stelle ornato in vece
d’un bel trapunto, ove specchi e gioisca
le quattro e sette lá, qua l’otto e diece.
E quanto su contempla e giú, sortisca
in grazia tal, che lo ’nteletto pigli
non men de l’occhio, e par a lui salisca.

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Orsi, tigri, leon, lepre, conigli,
pantere, volpi, orche, ceti, delfini,
aquile, strucci, nottole, smerigli,
non sia de voi chi umile non s’inchini
a l’assennata forma, ovunque scorre
tra voi platani, abeti, faggi e pini.
Di tutte vostre cause in lui concorre
una dal sommo artefice criata,
che a l’uomo suo voi tutti ebbe a comporre.
Ma sento giá l'error! Ahi, scellerata Homo cum in honore esset non intellexit.
soperbia, che pur l’uscio trovi aperto,
ben cara costaratti quell’entrata,
ch’io vengo il premio compensarti al merto!

TRIPERUNO solo


Se dir volessi a mille e mille lingue,
se por in carte a mille e mille penne,
col senno ch’ogni groppo ci distingue,
dramma del sommo ben ch’allor mi venne,
dapoi che l’alta donna con le pingue
di sdegno gote al ciel spiegò le penne,
direi che tra’ mortali l'esser mio
saria non d’uomo anzi terrestre Dio.

Giá mai sí bel secreto fu di lei
né in erbe, fonti, pietre, stelle occulto,
ch’al subito girar de gli occhi miei
non mi restasse in l’alta mente sculto.
So ben che mille Atlanti e Tolomei
de l’intelletto, ch’oggi m’è sepulto,
non sen trarrebber una particella,
perché saliscon d’una in altra stella.

[p. 367 modifica]


Ma, lasso! il chiaro vetro in ch’io solea
specchiar da fronte i secli, e poi le spalle,
per ch’io ’l trovai sí fosco? perché Astrea
piú star non volse meco in questa valle?
perché ridir non so quant’io scorgea
per un angosto ma soave calle?
Lassiamlo dunque; anzi a le cose parve
scendiamo, poscia che l’altezza sparve!

Sparve Natura molto neghittosa,
mercé che volse a Dio l’orgoglio equarse.
I’ mi fermai sott’una macchia ombrosa, Si non vis intelligi, neque intelligaris, lector.
mirando l'ape, quinci e quindi sparse,
a sacco porre una campagna erbosa
ed a vicenda in loco poi ritrarse,
ove locar di cera e mèle vidi
per cave querze i tetti lor e’ nidi.

Se fu ne’ grandi corpi molto industre
Natura, ove mirabil officina
corcò, quanto piú parmi saggia e illustre
fingendo l’apa in forma sí piccina!
Né l’apa sol, ma ciò ch’umor palustre
nudrisce, dico, o riscaldata brina,
donde sbucarse veggio tarli e culci,
vespe, cicade, mosche, ragni e pulci.

Dimmi tu, senso altier che a tutta puossa
intender cerchi Dio né mai lo aggiugni,
perché, s’han elli sangue, nervi ed ossa
sol per sapere, non te stesso impugni?
perché sottrarsi da qualche percossa
lor presti miro, che morte no ’i giugni?
Segno evidente ch’in tal corpicello
non men la madre oprò ch’in un gambello.

[p. 368 modifica]


Ch’instrusse mai quella solerte vespa
svenar il ragno e trasferirlo al speco,
dove co’ piedi e rostro pria l’increspa
e tienlo poi, qual uovo, in grembo seco,
in fin ch’un figlio in quella tana crespa
gli nasca d’ale privo, ignudo e cieco,
ma di troncate mosche tanto ’l pasce,
ch’egli giá vespa salta fuor di fasce?

Qual mastro dito a l’errabondo fuso
volve di quel del ragno piú bel stame,
ch’or suso va cosí veloce, or giuso,
nodando, per far preda, l’alte trame?
Poi, ne la stanza pendula rinchiuso,
attende al varco, per scemar la fame,
qual animal vi caschi ne le stuppe,
che con prolisse gambe ravviluppe.

Né la formica men sagace parmi,
ch’ognor s’affanna per schivar il stento.
Di quanta forza veggio che co’ l’armi «Pars grandia trudunt | Obnixae frumenta humeris». Virg.
e schiene va burlando il gran frumento
(cosí nel far teatri grevi marmi
sòlsi condur per gli uomini al cimento),
poi l’incaverna e fiedelo col rostro,
che non s’imboschi dentro l’ampio chiostro!

Ecco sen passa d’una in altra forma
quel vermo onde la seta for s’elice.
O bell’instinto natural e norma,
che sanza le sua fila né testrice
né aurefice ben soi trapunti forma!
Taccio l’ovra del candido bombíce
che dal svelto per pioggia fior di querza
nasce cangiato in fin la volta terza.

[p. 369 modifica]


Mille altre spezie de la picciol greggia
pospongo agevolmente or in disparte.
Segue ch’io solamente l’ampia reggia
de l’ape contemplando chiuda in carte;
ché ’l magistrato lor forse pareggia,
se non in tutto, il nostro almen in parte,
sí come quelle c’han statuti e legge,
né manca il duca lor che le corregge.

Anzi de la piú parte da’ suffraggi
lo eletto imperator sostien la verga;
satelliti, littori, servi e paggi
vannogli sempre appresso ovunque perga.
Esso le pene simili a li oltraggi
librando va: però non è chi s’erga
soperbamente contra lui, ché amando «Qui vult amari, languida regnet manu». Sen.
temesi un rege piú che minacciando.

Non come l’altre l’umido mucrone
(armollo assai sua maiestade) cura.
Mentre la plebe strenua compone
senza Vetruvio tanta architettura,
egli sta sopra e lor case dispone,
servando (ove convien) modo e misura.
Non esce mai di corte se non quando
del popol manda una gran parte in bando.

E se a tardarla fusse allor men tosta
qualche armonia di ferro o d’altro sòno,
l’impulsa torma irebbe assai discosta.
Cosí dal rege suo guidate sono:
però Natura vòl che senza sosta
lor di concento arresti qualche tono,
e ’nsieme le raguni a nova tomba,
in guisa de’ soldati al sòn di tromba.

[p. 370 modifica]


Ma s’io non voglio che ’l mio popol n’esca
di sue contrade per migrar altrove,
un’ala tronco al capo de la tresca,
la qual non senza lui mai fuga move.
S’ei langue infermo, dangli bere ed esca; «Inexpugnabile munimentum est amor civium: quid pulchrius quam vivere optantibus cunctis?». Sen.
chi ’l porta, chi ’l sostien, chi ’n grembo il fove;
s’anche smarrito errando va per caso,
vien cònto, qual patron da’ cani, a naso.

E se di qua di lá trovar nol sanno,
allora per consiglio si delibra
condurse ad altro duca, e for sen vanno
a la cittade altrui, né alcun si vibra
de’ cittadini contra e fa lor danno,
anzi nel tetto si compensa e libra
di quanta plebe sia capace; dopo
né piú né men li accettan che li è uopo.

Tal volta ch’egli morto caschi occorre:
pensi chi ama il suo rege qual supplizio!
Di tutte bande al corpo si concorre,
gittato a terra l’util esercizio;
con lagrime non san elle giá sporre
lor gran cordoglio al funeral uffizio;
dirò ben veramente aver udito
strepito d’ale con vocal ruggito.

Se d’ordinato e regolar costume
giammai l’uso mortal restasse privo,
puoterlo aver da l'api si presume,
né l’uomo forse l’averebbe a schivo;
ché, stando elle di notte ne’ lor piume
sí il stato per servar sí il rege vivo, «Nunquam oportet domum esse sine custode». Arist.
la vigil guarda sempre a l’uscio ascolta,
cascando a queste e quelle la sua volta.

[p. 371 modifica]


Ma de l’augel cristato non sí presto
s’annunzia giá spuntarse nova luce,
ecco di tromba un sòno manifesto
fa dar per le contrate il pronto duce.
S’ode di par il sòno: è il volgo desto,
al solito lavor che si riduce,
o lieto ch’in cospetto al rege primo
va fuora e riede carco sol di timo.

La verde giovenezza è che sen fugge
a la ricolta in bande assai longinque.
Chi qua la rosa, chi lá il giglio sugge;
chi assale questo fior e chi ’l relinque.
Fassi gran preda, ed Ibla si distrugge
co’ l’altre terre che vi son propinque;
la turba d’ogn’intorno succia e lambe,
né cessan riportar l’enfiate gambe.

Ma de le piú attempate un storno arguto
col suo signor in ròcca stassi a l’ombra,
cui per ufficio vien locar in tuto
la roba che, portata, il tetto ingombra:
depor i fasci a parte dan aiuto,
parte, giá leve, a la campagna sgombra.
Tanto al divin servigio, a l’uman gusto «Iustus ac honestus labor honoribus, praemiis, splendore decoratur». Cic.
di piacer brama un vermo sí robusto!

Talora un vento subito (quantunque
del tempo sian presaghe) di tranquillo
cosí molesto vien, che scossa ovunque
si pascon elle in fin l’umil serpillo.
Ecco la madre le ha provviste dunque;
ché, toltosi ne’ piedi alcun lapillo,
van elle poco del gran vento in forza,
librando qual nocchier il volo ad orza.

[p. 372 modifica]


Ed anco se la notte per la loro
molta ingordigia d’acquistar le assale,
raccolte insieme quasi in concistoro
le gambe al ciel e ’n terra posan l’ale;
ché de le stelle il rugiadoso coro
le avvinge sí che poco il volo vale,
se non s’industran starsene sopine
tutta la notte ad aspettar il fine.

Taccio le ultrici guerre, ch’a le volte
tra l’un vicino rege e l’altro fansi.
Tu vedi tante squadre intorno accolte, «Iamque faces et saxa volant, furor arma ministrat. | Tum pietate gravem ac meritis si forte virum quem | Conspexere silent arrectisque auribus adstant». Virg.
che poscia a tôr la vita irate vansi,
e se ritornan parte in fuga vòlte,
ritrandosi lor duci fiacchi ed ansi,
parte seguendo vittoriosa gode,
né altro che plausi e voci liete s’ode.

Indi iattura tal (se non dissolve
l’agricola prudente lor litigi
co’ l’importuno fumo e secco polve)
vi nasce, che la morte ai campi stigi
la parte vinta e la vittrice involve.
O grandi spesso al stato uman prodigi!
ché de lor code mandon l’alte spine,
cui per grand’ira seguon l’intestine!

La vile mandra de’ pannosi fuchi
trovan sovente starsen al presepe,
ove cosa non è che non manuchi;
ma poi nel faticarse, pegra, tepe.
Tu vedi lor scacciati esser da’ buchi,
e morti far in cerco folta sepe;
e il simil fan de l’apa tarda e pigra,
che uccisa vien s’occulta non sen migra.

[p. 373 modifica]


Tra gli diversi lor nemici e morbi
come vespe, crabroni e rondinelle,
ragni, lacerte, acqua de stagni torbi,
puzzo de cancri, culici, mustelle,
par che la rana piú le affanni e storbi;
perch’ella contra i brandi lor ha pelle
non men sicura e di maggior fiduccia,
del ferro al colpo, d’una fral cannuccia.

Ecco mirabil vermo, che disopre
li altri animali (non pur dico insetti,
ma quanti piuma, squame e lana copre)
esser fatto mirai per santi effetti,
tra’ quai conobbi le lodevol opre
di cera, dentro ai cristiani tetti,
ove non ben di notte Dio si cole,
se máncavi di cere acceso il sole.

D’altri animali, dicovi seguendo,
tenni le cause d’infallibil prova;
ma quante rimembrar in me contendo
e porle inanzi a voi, nulla mi giova.
Cosí volse il mio fallo che, s’io spendo,
per risaper ciò ch’in natura cova,
il tempo invan, ne pianga giustamente
e faccia come quel che tardo pente!

Di poggio in piano, di campagna in selva,
giravami qual spirto che di gioia
pascendosi lá su per l’ampio ciel va,
né mai cosa v’incontra che lo annoia.
Qual orso, qual leon, qual altra belva
restò venirmi (non che desse noia)
scherzar intorno, e dentro le lor sanne
prendermi leggermente ambo le spanne?

[p. 374 modifica]


Palpava il dorso al tigro, come solsi
far d’un cagnolo o d’altro picciol pollo.
Comai le sete a li apri e mi ravvolsi
le vipere a le braccia, al capo, al collo,
li augelli al pugno e’ pesci al lido accolsi,
né de mirarli venni unqua satollo.
Poscia mi volsi a la man dritta, come
sopra mi disse quel dal dolce nome. «Nomen Iesu lucet praedicatum, pascit re cogitatum, lenit invocatum, roborat virtutes, vegetat bonos mores, castas fovet affectiones». Bern.

[p. 375 modifica]

PARADISO TERRESTRE

TRIPERUNO


Dopoi che sopra e sotto ’l ciel usciro
l’opre del summo artefice sí belle,
né molto spazio andò che l’empio e diro
popol de li demón fu da le stelle
bandito al centro basso, ove periro
con l’ombre eternamente al ciel rubelle,
su l’uomo Dio fondò stabil disegno,
ch’empir di novo avesse il vodo regno.

Né piú son pesci in acque né piú foglie
in selve, come in ciel private stanze.
Però Michel, poi ch’ebbe l’atre spoglie
di Pluto trionfando su le lanze
sospese ai tetti ove l’onor s’accoglie,
discinto il brando e tolte le bilanze,
venne qui giú per farvi non piú guerra,
ma sol un paradiso a l’uom in terra.

Qui, di soperba fatta invidiosa «Non enim invidia parit superbiam, sed superbia parit invidiam, quia non invidet nisi amor excellentiae». Aug.
la greggia de’ cornuti negri, quando
questo antivede, cruda e neghittosa,
ripiglia contra noi l’occulto brando
(i’ dico «brando occulto» a piú dannosa
nostra ruina), e sempre va celando
quinci quel vischio, quindi quella pania, Multi sunt vocati, pauci vero electi.
tanto che la piú parte avvinge e lania.

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Piantato dunque in terra un paradiso
da l’angiol fu di Dio detto «Fortezza»;
luoco non privo mai d’onesto riso,
de sòni, canti, giochi a gran dolcezza.
Quivi trovai pur anco l’aureo viso
di quel Iesú che l’amorosa frezza
nel cor m'immerse prima, e seco poscia
portollo, me lasciando in dolce angoscia.

Su ne le piú levate cime, donde
Febo riporta il mattutino giorno,
un monte, c’ha l’inaccessibil sponde
e cento millia passi volge intorno,
vidi che al ciel lunar il capo asconde
e par che tocchi i piedi a Capricorno.
Lá fui chiamato d’una nebbia scura:
— Vieni oggimai, o santa creatura! —

Suso mi porto, ed ecco alte muraglie
vidi luntano con quadrata cinta
serrar de poggi e campi e di boscaglie
una provincia in piú parti distinta.
Ma quello muro quasi mi abbarbaglia
la vista, dal suo lume resospinta,
mercé ch’era cristallo ed oro, intorno
di perle e tutte l’altre gemme adorno.

Or su per quel parete schietto e fino
vidi ch’avean Michel e Raffaele
(non l’urbinate, dico, o ’l fiorentino,
ch’or lascian dopo sé gran lode in tele)
depinto per mio specchio il fier destino
di Lucibello, a se stesso crudele,
che, bello troppo a se medemo, d’alto
prese co’ gli altri un smisurato salto.

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LA PORTA


«Uomo, che vedi a quanto onor ti degna Natura divina et humana.
l’altissimo Fattore,
or entra ad obbedirlo, acciò che ’l cuore
da te giá dato in grazia ti ’l mantegna!
Ma ne la gioia tua, ch’avrai sí lieta,
fa’ che raffreni accortamente; cui
non repugnando, provarai col male
quant’era il ben, anzi che l’un di dui
pomi gustassi. Ché se Dio ti ’l vieta,
toccar non déi, per non venir mortale.
Dal serpe il piede e dal legno fatale
se non vieti la mano,
ecco d’un legno more il ceppo umano, Ut qui in ligno vincebat, in ligno quoque vinceretur.
e un legno per sua croce Dio non sdegna!».

TRIPERUNO


Queste parole, trapuntate in oro,
sopra la porta, in un bel smalto, lessi;
ma i fregi e gli archi ed ornamenti loro
sono di fine gemme carchi e spessi.
Entrovi lieto per sí bel tesoro,
e in cerchio con le mani esser rannessi,
d’angioli pargoletti e nudi un stolo
vidi scherzando volteggiarsi a volo.

E su per merli e for de gli balconi,
quei di diamante e questi di cristallo,
mill’altri con diversi canti e suoni
muoveno d’altri tanti un lieto ballo:
arpe, laúti, citere, lironi,
senza mai farvi punto d’intervallo,
addolciscon le orecchie d’uditori
al nome c’hanno impresso dentro i cuori:

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al dolce nome sovra ogni altro grato,
nome amoroso, nome aureo e soave,
nome del mio Iesú forte, sacrato,
nome di grazie ponderoso e grave!
Non è macchia sí lorda di peccato,
che ’l dolce nome di Iesú non lave;
nome che chi noma in spirto, sente
mordersi ’l cuore d’un pietoso dente!

Quivi se non in danze e giochi stassi,
danze pudiche, giochi allegri, onesti:
chi su le penne, chi su lievi passi,
que’ leggiadretti spiriti modesti
scorron il bel giardino, or alti or bassi,
quelli de’ boschi per le cime, questi
per le fiorite piagge e verdi prati,
succinti o in bianche stole o nudi alati.

Altri con reti d’oro i pesci snelli
tranno di questo rio, di quello fonte;
altri tendon guazzarsi ne’ ruscelli
chi piè, chi man, chi l’ale, chi la fronte;
altri celan archetti ai vaghi augelli
per macchie e ripe, o sotto o sopra un monte;
altri scaccian de’ boschi e folti vepri
damme, conigli, cervi, capre e lepri.

Vidine molti ancora, con bei freni
di seta e d’oro, stringer lioncorni:
chi li rallenta il morso, chi ’l sostiene
con lievi sbalzi e volgimenti adorni.
Franguelli, piche, merli e filomene
con pappagalli, rondinelle e storni
volan di ramo in ramo, a schiera a schiera,
cantando la sua eterna primavera.

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Eterna primavera qui verdeggia,
ché ’n le catene il Tempo giace altrove;
aprile quivi e marzo signoreggia,
né mai da l ’ombre zefiro si move,
per cui soavemente sempre ondeggia
l’altezza de colline e poggi, dove
pini, cipressi, querze, faggi, abeti
adombrano vallette e campi lieti.

Quivi onoratamente fui raccolto
da duo barbati e candidi vecchioni.
L’uno fu Enocco, e l’altro che, distolto
di terra, ascese in ciel fra spirti boni, Helias.
quando Eliseo videlo nel molto
foco volar a l'alte regioni.
Questi con lieto volto m’abbracciaro,
mostrando il mio advenir quant’ebber caro.

Vado fra loro poscia, lento lento,
favoleggiando verso il gran palaccio.
Ecco quegli angioletti, a trenta, a cento
lascian chi l’arpa, chi ’l danzar, chi ’l laccio,
e vengono assalirmi in un momento
con un soave intrico e dolce impaccio,
perché mi carcan gli omeri, la testa
di sua leggiera salma e fanno festa.

Entrato ne l’adorna ed ampia stanza
non men di quelle del signor mio bella,
bella e gioiosa for d’umana usanza
(qual oggi a Marmiròl si rinnovella,
e qual li ombrosi campi sovravanza
in Pietole sul chiaro Minzio, e quella
ch’entro l’antiqua terra di Gonzaga
mostrasi al viatore tanto vaga),

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trovamo un spacio quadro d’una liscia
piazza de marmi lustri ed altre pietre.
Ove nel mezzo la fatale biscia,
come sotto acqua fanno le lampetre,
sdrucciola quinci e quindi, ma non fiscia;
ché ’l capo ha di dongiella e par ch’impetre,
col vago suo sembiante, che chi passa
subitamente al suo voler s’abbassa.

S’abbassi tostamente a la sua voglia
di por le mani a quel vietato ramo
e dispiccarne il frutto, onde la doglia
succede poscia al nostro interno, Adamo;
lo qual non mai si vede senza spoglia,
se non dapoi che l’esca di quell’amo
l’attosca sí, che morto ne rimane,
fin che ’l rilevi poi lo empireo pane:

quel pane dolce bianco ed immortale
che pasce in ciel l’angelica famiglia.
Non è morbo né peste sí mortale,
che questo pan, salúbre a chi se ’l piglia
con salda fede, nol risani, quale
fu de’ leprosi giá la maraviglia.
Ma guardesi chiunque indegnamente
a un sí soperbo cibo admove il dente!

Soperbo cibo, che d’umilitade
profundissima sorse in mia salute;
soperbo cibo, ove l’alta bontade
cercò d’erger a’ morti la virtute;
soperbo cibo, il qual con veritade
convien che ’n corpo e sangue si trasmute,
in corpo e sangue de l’umano Dio,
che disse: — Or manucate il corpo mio! —

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Ma come egli togliesse il grave assonto
in sé d’ogni mia colpa su la croce,
avrovvi a dir col tempo, s’io m’affronto
a un stil piú grave, e non piú che veloce.
Ché se d’altri concetti al giogo monto
col senso, non sussegue poi la voce
se non debile e inferma; come chiaro
si vede ch’io non so, ma tardo imparo.

Vedrò, se ’l debil filo non si taglia
nel mezzo del cammin di nostra vita,
quel raggio, ch’ora il senso m’abbarbaglia,
con vista piú vivace e piú spedita.
De’ bianchi e negri spirti la scrimaglia
ben tengo de le muse al monte ordita;
ma ch’abbia, se non tutto, almen in parte
di Lodovico attendo il stile e l’arte.

Non piú Merlino, Fúlica e Limerno
oltra sarovvi, ma sol Triperuno.
Tratto son oggi mai di quell’inferno
ove chi faccia ben non vi è sol uno. «Non est qui faciat bonum, non est usque ad unum». David.
Per te, Iesú, per te vedo e discerno
esser del cibo tuo sempre degiuno;
ed «ingannato al fine si ritrova
chi lascia la via vecchia per la nova».

FINISCE LO CAOS DEL TRIPERUNO.