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selva terza 371


Ma de l’augel cristato non sí presto
s’annunzia giá spuntarse nova luce,
ecco di tromba un sòno manifesto
fa dar per le contrate il pronto duce.
S’ode di par il sòno: è il volgo desto,
al solito lavor che si riduce,
o lieto ch’in cospetto al rege primo
va fuora e riede carco sol di timo.

La verde giovenezza è che sen fugge
a la ricolta in bande assai longinque.
Chi qua la rosa, chi lá il giglio sugge;
chi assale questo fior e chi ’l relinque.
Fassi gran preda, ed Ibla si distrugge
co’ l’altre terre che vi son propinque;
la turba d’ogn’intorno succia e lambe,
né cessan riportar l’enfiate gambe.

Ma de le piú attempate un storno arguto
col suo signor in ròcca stassi a l’ombra,
cui per ufficio vien locar in tuto
la roba che, portata, il tetto ingombra:
depor i fasci a parte dan aiuto,
parte, giá leve, a la campagna sgombra.
Tanto al divin servigio, a l’uman gusto [«Iustus ac honestus labor honoribus, praemiis, splendore decoratur». Cic.]
di piacer brama un vermo sí robusto!

Talora un vento subito (quantunque
del tempo sian presaghe) di tranquillo
cosí molesto vien, che scossa ovunque
si pascon elle in fin l’umil serpillo.
Ecco la madre le ha provviste dunque;
ché, toltosi ne’ piedi alcun lapillo,
van elle poco del gran vento in forza,
librando qual nocchier il volo ad orza.