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380 caos del triperuno


trovamo un spacio quadro d’una liscia
piazza de marmi lustri ed altre pietre.
Ove nel mezzo la fatale biscia,
come sotto acqua fanno le lampetre,
sdrucciola quinci e quindi, ma non fiscia;
ché ’l capo ha di dongiella e par ch’impetre,
col vago suo sembiante, che chi passa
subitamente al suo voler s’abbassa.

S’abbassi tostamente a la sua voglia
di por le mani a quel vietato ramo
e dispiccarne il frutto, onde la doglia
succede poscia al nostro interno, Adamo;
lo qual non mai si vede senza spoglia,
se non dapoi che l’esca di quell’amo
l’attosca sí, che morto ne rimane,
fin che ’l rilevi poi lo empireo pane:

quel pane dolce bianco ed immortale
che pasce in ciel l’angelica famiglia.
Non è morbo né peste sí mortale,
che questo pan, salúbre a chi se ’l piglia
con salda fede, nol risani, quale
fu de’ leprosi giá la maraviglia.
Ma guardesi chiunque indegnamente
a un sí soperbo cibo admove il dente!

Soperbo cibo, che d’umilitade
profundissima sorse in mia salute;
soperbo cibo, ove l’alta bontade
cercò d’erger a’ morti la virtute;
soperbo cibo, il qual con veritade
convien che ’n corpo e sangue si trasmute,
in corpo e sangue de l’umano Dio,
che disse: — Or manucate il corpo mio! —