trovamo un spacio quadro d’una liscia
piazza de marmi lustri ed altre pietre.
Ove nel mezzo la fatale biscia,
come sotto acqua fanno le lampetre,
sdrucciola quinci e quindi, ma non fiscia;
ché ’l capo ha di dongiella e par ch’impetre,
col vago suo sembiante, che chi passa
subitamente al suo voler s’abbassa.
S’abbassi tostamente a la sua voglia
di por le mani a quel vietato ramo
e dispiccarne il frutto, onde la doglia
succede poscia al nostro interno, Adamo;
lo qual non mai si vede senza spoglia,
se non dapoi che l’esca di quell’amo
l’attosca sí, che morto ne rimane,
fin che ’l rilevi poi lo empireo pane:
quel pane dolce bianco ed immortale
che pasce in ciel l’angelica famiglia.
Non è morbo né peste sí mortale,
che questo pan, salúbre a chi se ’l piglia
con salda fede, nol risani, quale
fu de’ leprosi giá la maraviglia.
Ma guardesi chiunque indegnamente
a un sí soperbo cibo admove il dente!
Soperbo cibo, che d’umilitade
profundissima sorse in mia salute;
soperbo cibo, ove l’alta bontade
cercò d’erger a’ morti la virtute;
soperbo cibo, il qual con veritade
convien che ’n corpo e sangue si trasmute,
in corpo e sangue de l’umano Dio,
che disse: — Or manucate il corpo mio! —