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342 caos del triperuno


Perché, sí come il pullo dentro l’uovo,
bramando indi migrar, si fa fenestra
col becco donde v’entra il raggio nuovo,
e poscia da le spoglie si sequestra;
tal io, mentre me stesso in l’ombre covo,
luce spontar mi vidi a la man destra,
ch’empí la notte, onde ratto m’avvento
lá col desio che ’l corso far sòl lento.

Inusitato e subito conforto
ardir m’offerse al cuor ed ale al piede.
Lungo un sentier de gli altri men distorto
affretto i passi ovunque l’occhio il vede.
Oh avventurosa fuga, che a buon porto
giunger mi fece d’un tal pregio erede!
Ben duolmi che, narrarvi ciò volendo
mentre son carne, in van mie rime spendo!

Di luce un gioven cinto, anzi un’aurora, [«Natura Dei est invisibilis: potest tamen videri in aliqua spetie quam ipse elegerit». Aug.]
ch’appare spesso a l’alma cieca e frale,
ecco si mi presenta e mi ’ncolora
col viso piú che ’l sol di luce eguale.
Onesto e lieto sguardo, che ’namora
ogni aspro e rozzo core, onde immortale
so ben che a tal beltá l’avrei pensato,
se allor io fussi, quel ch’oggi son, stato!

Que’ soi begli occhi ch’abbellâr il bello,
quanto su ne risplende e giuso nasce,
raccolsi a la mia vista, e fui da quello
non men depinto che quando rinasce [«Etenim Deus noster ignis consumens est». Paul.]
Proserpina in obietto del fratello
e de’ soi rai, benché luntan, si pasce.
Né il lume pur, ma un amoroso ardore
sentiva entrarmi dolcemente al core.