Il Santo/Capitolo III
Questo testo è stato riletto e controllato. |
◄ | Capitolo II | Capitolo IV | ► |
CAPITOLO TERZO.
Notte di tempeste.
Nello scendere al cancello della villa don Clemente si domandava con ansia segreta: l’avrà riconosciuta o no? E se l’ha riconosciuta, quale impressione gli avrà fatto? Giunto al cancello, si voltò a colui che aveva chiamato Benedetto, gli scrutò il viso, un viso scarno, pallido, intellettuale. Non vi lesse turbamento. Quegli occhi lo fissavano attoniti, quasi dicendo: perchè mi guarda? Il monaco pensò: forse non l’ha riconosciuta o forse non suppone che io sappia del suo arrivo. Passò il braccio sotto quello del compagno, pigliò, tenendoselo stretto senza parlare, a sinistra, verso la fragorosa gola oscura dell’Aniene. Fatti pochi passi sotto gli alberi che fiancheggiano la via, gli disse: «Non mi domandi della riunione?» con maggiore dolcezza che le parole indifferenti non comportassero. Quegli rispose:
«Sì, mi racconti.»
La voce era fioca e vuota di desiderio. Don Clemente si disse: «l’ha riconosciuta» e parlò della riunione come persona preoccupata di altro, senza calore, senza cura di particolari; nè fu interrotto mai dal compagno con domande o commenti.
«Ci si è sciolti» diss’egli «senza conchiuder nulla, anche perchè sono arrivati dei forestieri. Così non ho potuto nemmeno combinar niente per te col signor Giovanni. Ma, domani, o tutti o in parte, credo che ci riuniremo ancora. E tu» soggiunse esitante «sei disposto a ritornare o non sei disposto?»
Benedetto rispose nel medesimo tôno sommesso di prima e sempre camminando:
«Le forestiere che ho vedute, restano?»
Don Clemente gli strinse il braccio forte forte.
«Non so» diss’egli. E soggiunse con un’altra stretta, commosso:
«Se avessi saputo…!»
Benedetto aperse la bocca per parlare ma si trattenne. Procedettero così in silenzio verso le due nere fronti della gola fragorosa, e, lasciata la strada maestra volgente a cavalcar l’Aniene sul ponte di San Mauro, presero la mulattiera dei Conventi che sale alla fronte di sinistra. Là in faccia l’obliquo scoglio enorme parve a don Clemente, in quel momento, simbolo minaccioso di una demoniaca forza ferma sul cammino di Benedetto; come gli parve minacciosa simbolicamente la cresciuta oscurità, minaccioso il cresciuto rombo profondo del fiume nella solitudine.
Passato l’Oratorio di san Mauro, dove la mulattiera dei Conventi gira a sinistra, sul fianco del monte, verso la Madonnina dell’Oro e un’altra mulattiera entra diritta nella gola per i ruderi delle Terme neroniane, Benedetto si sciolse dolcemente dal braccio del monaco e si fermò.
«Senta, padre» diss’egli. «Avrei bisogno di parlarle. Forse un poco a lungo.»
«Sì, caro, ma è tardi. Entriamo nel monastero.»
Benedetto abitava nell’Ospizio dei pellegrini, la casa rustica dove sono anche le stalle di Santa Scolastica a cui si accede da un cortile che comunica per un cancello grande colla via pubblica e per un cancello piccolo con il corridoio del monastero, che dalla via pubblica mette alla chiesa e al secondo dei tre chiostri.
«Non vorrei entrare nel monastero, stanotte, padre mio» diss’egli.
«Non vorresti entrare?»
Altre volte Benedetto, nei tre anni passati al servizio libero del monastero, aveva ottenuto da don Clemente licenza di passar la notte fuori, sulla montagna, pregando. Il Maestro pensò tosto che fosse giunto per il discepolo uno di quei terribili cimenti interni che gli facevano fuggire il povero giaciglio e le ombre chiuse, complici del Maligno nel martoriargli la immaginazione.
«Mi ascolti, padre» disse Benedetto.
Il suo accento fu così fermo, significò a don Clemente tanta gravità di prossime parole, che questi non credette di dover insistere sull’ora inoltrata. Uditi in alto zoccoli ferrati di cavalcature scendere alla loro volta, i due uscirono sul breve piano erboso che porta umili avanzi delle magnificenze neroniane incontro ad archi sperduti nel carpineto selvaggio dell’altra sponda, membra un tempo delle uniche Terme, cui ora divide in profondo il pianto dell’Aniene. Sopra quegli archi era la dimora del prete diabolico e delle peccatrici insidianti ai figli di San Benedetto. Il monaco pensò a Jeanne Dessalle. Là in fondo alla gola, alte sopra il monte Preclaro e il monte di Jenne Vecchio, splendevano le due stelle di cui si era parlato sulla terrazza dei Selva come di luci sante.
Aspettarono che passassero le cavalcature. Passate che furono, Benedetto abbracciò il suo maestro in silenzio. Don Clemente, sorpreso, sentendolo scosso da tremiti, da sussulti, immaginando che lo avesse turbato così la vista di quella signora, gli ripeteva:
«Coraggio, caro, coraggio, questa è una prova che il Signore ti manda.»
Benedetto gli mormorò:
«Non è quello che Lei pensa.»
E ricomposto, pregò il Maestro di sedere sopra un rudero al quale egli stesso, postosi ginocchioni sull’erba, appoggiò le braccia incrociate.
«Da questa mattina» diss’egli «io ho segni di una volontà nuova del Signore a mio riguardo, senza ch’io possa intendere quale. Ella sa cosa mi è avvenuto tre anni sono in quella piccola chiesa dove stavo pregando mentre la mia povera moglie era per morire.»
«Vuoi parlare della tua Visione?»
«No, prima della Visione, tenendo chiusi gli occhi, mi sono lette nelle palpebre le parole di Marta: «Magister adest et vocat te». Questa mattina, mentre Lei celebrava, all’Elevazione, mi sono vedute nel mio interno le stesse parole. Ho creduto a un ritorno automatico di ricordi. Dopo la Comunione ebbi un momento di ansia, parendomi che Cristo mi dicesse nell’anima: non intendi, non intendi, non intendi? Passai la giornata in un’agitazione continua, benchè cercassi di affaticarmi più del solito nell’orto. Nel pomeriggio stetti un poco a leggere sotto il leccio dove si raccolgono Loro padri. Avevo Sant’Agostino: «De opere monachorum». Passa gente sulla strada alta, discorrendo forte. Io alzo il viso, meccanicamente. Poi, non so perchè, invece di riprendere la lettura, chiudo il libro, mi metto a pensare. Pensavo a quello che scrive Sant’Agostino del lavoro manuale dei monaci, pensavo alla Regola di san Benedetto, a Rancé, e come si potrebbe ritornare, nell’Ordine benedettino, al lavoro manuale. Poi, in un momento di stanchezza, avendo però in cuore quella grandezza immensa di Sant’Agostino, ho creduto proprio di udire una voce dalla strada alta: «Magister adest et vocat te». Sarà stata un’illusione, sarà stato per Sant’Agostino, per un ricordo inconscio del «Tolle, lege», non dico di no, ma intanto tremavo, tremavo come una foglia. E mi venne questo dubbio pauroso: che il Signore mi voglia monaco? Ella lo sa, padre mio, perchè gliel’ho detto ancora forse due o tre volte, che questo si accorderebbe con la fine della mia Visione, almeno in una cosa. Le ho però anche detto, quando Lei mi consigliava, come don Giuseppe Flores, di non credere nella Visione, che appunto per me questa era una ragione di non crederci, non solo perchè mi sento indegno di essere sacerdote, ma più ancora perchè mi ripugna stranamente di entrare in qualsiasi Ordine religioso. Però, se Iddio me lo imponesse! Se questa grande ripugnanza fosse appunto una prova! Volevo parlarle quando siamo andati dai Selva, ma Lei aveva fretta, non era possibile. Là, su quel fascio di legne, sotto quelle rubinie, ho avuto l’ultimo colpo. Ero stanco, tanto stanco, e mi sono lasciato vincere dal sonno per cinque minuti. Ho sognato che camminavo con don Giuseppe Flores sotto le arcate del cortile pensile di Praglia. Io gli dicevo piangendo: «Ecco, è stato qui.» E don Giuseppe mi rispondeva con tanto affetto: «sì ma non pensi a questo, pensi che il Signore La chiama.» E io replicavo: «ma dove, dove mi chiama?» con tanta angoscia che mi svegliai. Udii una voce dall’alto della casa. Si rispose dal fondo del giardino, in francese. Vidi una signora uscire correndo dal fondo della villa, udii i saluti che si scambiarono lei e le persone arrivate, distinsi quella voce. Subito non la riconobbi con certezza, ma poi, siccome le voci si avvicinavano, non dubitai più. Era lei. Per un attimo sbigottii, ma fu proprio un attimo. Mi si fece una gran luce nella mente.»
Benedetto alzò il viso e le mani giunte. La voce gli s’infiammò di ardore mistico.
«Magister adest» diss’egli. «Comprende? Il Divino Maestro era con me, non avevo niente a temere, padre mio. E non temetti niente, nè lei, nè me. La vidi montare sul piazzaletto. Il mio sentimento fu: se c’incontriamo soli, le parlerò come a una sorella, le domanderò perdono, Iddio mi darà forse per lei una parola di verità, le mostrerò di sperare per l’anima sua e non di temere per la mia!»
Don Clemente non potè a meno d’interromperlo. «No no no, figlio mio» diss’egli, quasi atterrito, prendendogli il capo a due mani, pensando appunto come avrebbe potuto evitare un simile incontro, come allontanare Benedetto. I Selva, i Selva! Bisognava avvertire i Selva.
«Comprendo che Lei mi dica così» riprese Benedetto affannosamente «ma se la incontro, non devo io cercare di metterla a parte del mio bene come cercai di metterla a parte del male? E non mi ha insegnato Lei che l’amare Dio sopra ogni cosa e il porre sopra ogni cosa la salute dell’anima propria non possono andare insieme? Che quando si ama non si pensa mai a sè? Che si desidera solamente fare la volontà dell’amato e si vorrebbe che tutti la facessero? Che in questo modo uno si salva certo e che chi ha sempre in mente la salute dell’anima propria arrischia di perderla?»
«Bene bene bene, caro» rispose il padre, accarezzandogli la testa. «Tu intanto domani vai a Jenne e ci stai fino a che non ti richiamo io. Ti do una lettera per l’arciprete, ch'è una buona persona, e stai con lui. Hai capito? E adesso andiamo al monastero perchè è tardi.»
Si alzò e fece alzare Benedetto.
Sopra il loro capo l’orologio di Santa Scolastica suonava le ore. Erano dieci? Erano undici? Don Clemente non le aveva contate dal principio e temeva il peggio, aveva perduta, per tante diverse emozioni, la misura del tempo. Che andava mai a capitare! Chi avrebbe previsto? E che accadrebbe ora? Uscirono dal piano erboso e s’incamminarono per la ripida, sassosa mulattiera, don Clemente davanti, Benedetto alle sue spalle, ambedue con l’anima in tempesta, silenziosi, rispondendo ai loro pensieri la scura voce dell’Aniene. Ecco, ad una svolta, i lumi lontani di Subiaco. Pochi; sono forse le undici! In breve l’angolo nero del recinto di Santa Scolastica sorge a fronte dei viandanti. Per quali occulte vie, pensa Benedetto, non lo ha condotto Iddio dalle logge di Praglia, dove Jeanne lo ha tentato e vinto, a questa faticosa salita nelle tenebre, verso un altro luogo santo, con lei vicina e il cuore fondato in Cristo! Intanto le ragioni della prudenza pratica prementi, in quella distretta, su don Clemente e le ragioni della santità ideale, insegnate da lui al diletto discepolo in tempo di calma, si contendevano la sua volontà non più tanto ferma; le prime da vicino con violenza imperiosa, le seconde da lontano, con la sola bellezza severa e mesta. Le due «luci sante», alte sopra l’angolo nero del recinto, lo guardavano appunto, come gli parve, severe e meste. Oh terra impura, pensò, terra trista! E forse prudenza impura, prudenza trista, la prudenza terrena!
Giunti all’angolo, i due viandanti presero a sinistra voltando le spalle al rombo profondo dell’Aniene, passarono davanti al cancello grande del monastero e, girato l’altro canto del recinto, giunsero, per la galleria oscura che corre sotto la biblioteca, a una porticina. Don Clemente suonò. C’era da aspettare alquanto perchè alle nove o poco dopo tutte le chiavi del monastero si portano all’Abate.
«Dunque mi permette» chiese Benedetto «di restare fuori?»
Le altre volte che il Maestro glielo aveva permesso, egli era salito a passar la notte in preghiera sui greppi nudi del Colle Lungo, imminenti al monastero, o su quelli del Taleo o sulla costa petrosa che si taglia movendo dall’oratorio di Santa Crocella al bosco del Sacro Speco. Il Maestro esitò un poco, non ci aveva più pensato. E il discepolo gli era parso quel giorno più smunto, più esangue del consueto; temeva per la sua salute alquanto logora dalle fatiche del lavoro campestre, dalle penitenze, dal vivere disagiato. Glielo disse.
«Non pensi al mio corpo» supplicò il giovane, umile e ardente. «Il mio corpo è infinitamente lontano da me! Abbia solo paura che io non faccia il possibile per conoscere la Volontà Divina!»
Soggiunse che avrebbe pregato anche per aver lume circa questo incontro e che mai aveva sentito Iddio come pregando la notte sui monti. Il Maestro gli prese il capo a due mani, lo baciò in fronte.
«Va» diss’egli.
«E Lei pregherà per me?»
«Sì, nunc et semper.»
Passi nel corridoio. Una chiave gira nella toppa. Benedetto si dilegua come un’ombra.
Il buon vecchio fra Antonio, portinaio del monastero, aperse, non mostrò di essersi atteso a vedere anche Benedetto, e con quel rispetto dignitoso in cui si confondevano la sua umiltà d’inferiore e la sua coscienza di onesto famigliare antico, disse a don Clemente che il padre Abate lo attendeva nel suo alloggio. Don Clemente salì con un lanternino al corridoio grande dove mettevano l’alloggio dell’Abate e, poco discosto, la sua cella stessa.
L’Abate, padre Omobono Ravasio da Bergamo, lo stava aspettando in un salottino male rischiarato da una povera lucernina a petrolio. Il salottino, nella sua severa modestia ecclesiastica, non aveva di singolare che una tela del Morone, bel ritratto d’uomo, due piccole tavole con teste d’angeli di maniera luinesca, un piano a coda, carico di musica. L’abate, appassionato per i quadri, la musica e il tabacco da fiuto, dedicava a Mozart e a Haydn gran parte del tempo non largo che gli concedevano i suoi doveri religiosi e le cure del governo. Era intelligente, alquanto bizzarro, ricco di una cultura letteraria, filosofica e religiosa ferma sdegnosamente sul 1850. Piccolo, canuto, aveva una fisonomia arguta. Certi suoi modi orobii, certe familiarità ruvide avevano meravigliato i monaci, avvezzi alle maniere squisitamente signorili del suo predecessore, nobile romano. Veniva da Parma ed era entrato in carica da soli tre giorni.
Don Clemente gli s’inginocchiò davanti, gli baciò la mano.
«Che mode avete voialtri a Subiaco?» disse l’Abate. «Fate venire le dieci alle undici?»
Don Clemente si scusò. Aveva tardato per un dovere di carità. L’Abate lo fece sedere.
«Figlio mio» diss’egli. «Voi soffrite il sonno?»
Don Clemente sorrise, non rispose.
«Ebbene» riprese l’Abate «voi ne avete buttato via un’ora e adesso io ho le mie ragioni di prendervene un altro poco. Vi devo parlare di due cose. Mi avete chiesto il permesso di recarvi a visitare certi signori Selva. Ci siete andato? Sì? Potete dirmi di essere tranquillo nella vostra coscienza?»
Don Clemente fu pronto a rispondere con un lieve gesto di sorpresa:
«Eh, sì!»
«Bene bene bene» fece l’Abate; e fiutò, contento, una grossa presa di tabacco. «Io non conosco questi signori Selva, ma c’è a Roma chi li conosce o crede di conoscerli. Non è uno scrittore, il signor Selva? Non ha scritto di religione? Mi figuro che sarà un rosminiano, a giudicare dalla gente che ce l’ha su con lui; gente indegna di allacciar le scarpe a Rosmini, ma intendiamoci! Rosminiani sicuri sono quelli di Domodossola e non quelli che hanno moglie, eh? Dunque stasera, dopo cena, ho ricevuto una lettera da Roma. Mi scrivono – un pezzo grosso, capite, – che appunto stasera si doveva tenere in casa di questo falso cattolico signor Selva un conciliabolo di altri insetti malefici come lui, e che probabilmente vi ci sareste recato anche voi, e che io dovevo impedirlo. Non so cosa avrei fatto, perchè se parla il Santo Padre obbedisco, se non parla il Santo Padre rifletto; ma per vostra fortuna voi eravate già fuori. Del resto c’è della brava gente che scoverà qualche eretico anche in Paradiso. Adesso voi mi dite che la vostra coscienza è tranquilla. Dunque non devo credere alla lettera?»
Don Clemente rispose che certamente a casa Selva non ci erano venuti nè eretici, nè scismatici. Vi si era parlato della Chiesa, dei suoi mali, di possibili rimedî, ma come lo stesso padre Abate avrebbe potuto parlarne.
«No, figlio mio» rispose l’Abate. «Ai mali della Chiesa e ai possibili rimedî; non ci ho a pensar io. Ossia, ci posso pensare ma non ho a parlarne che a Dio perchè ne parli poi Lui a chi tocca. E così fate anche voi. Tenete a mente, figlio mio! I mali ci sono e i rimedî ci saranno, ma questi rimedî, chi sa? possono essere veleni e bisogna lasciarli adoperare al Grande Medico. Noi, preghiamo. Se non si credesse alla comunione dei Santi, cosa si starebbe a fare nei monasteri? E in quella casa, figlio mio, per la nostra pace, non ci ritornare! Non me lo chiedere più!»
Passando paternamente così dal voi al tu, l’Abate posò una mano affettuosa sulla spalla del suo monaco afflitto di non poter rivedere quei buoni amici e anche particolarmente di non poter l’indomani mattina conferire col signor Giovanni, avvertirlo del pericolo che correva Benedetto, avvisare insieme al riparo.
«Sono cristiani aurei» diss’egli con voce sommessa, dolente.
«Lo credo» rispose l’Abate «Credo che saranno migliori assai di questi zelanti che scrivono di queste lettere. Vedi che non faccio complimenti. Tu sei di Brescia, eh? Bene, io sono di Bergamo. Noi si direbbe che sono piaghe. Sono infatti piaghe della Chiesa. Io risponderò a tôno. I miei monaci non prendono parte a congreghe di eretici. Ma tu, a casa Selva, non ci ritornerai.»
Don Clemente baciò rassegnato la mano del paterno vecchio.
«Adesso all’altro argomento!» disse costui. «Apprendo che qui nell’Ospizio dei pellegrini, dove di regola non ci dovrebbe abitare stabilmente che il vaccaro, ci sta da tre anni un giovine che ci avete collocato voi; oh, col permesso del mio predecessore, s’intende! Un giovine che vi è molto legato, che voi dirigete spiritualmente, che fate anche studiare in biblioteca. Vero che lavora nell’orto, vero che mostra una pietà grande, ch’è di edificazione a tutti, ma però, siccome non pare che abbia l'intenzione di farsi religioso, questo suo soggiorno nell’Ospizio nostro dove occupa un posto da tre anni, è poco regolare. Cosa me ne potete dire? Sentiamo.»
Don Clemente sapeva che alcuni suoi confratelli, e non i più vecchi ma proprio i più giovani, non approvavano l’ospitalità concessa dall’Abate defunto a Benedetto. Neppure andava loro troppo a sangue che don Clemente e lui fossero tanto legati. Qualche dispiacere per questo, don Clemente l’aveva già avuto. Comprese che quei tali non avevano perduto tempo, che stavano già lavorando il nuovo Abate. Il suo bel viso si colorò di rossore. Egli non rispose subito, volendo prima spegnersi dentro il suo corruccio con un atto di perdono mentale; poi disse ch’era suo dovere e suo desiderio d’informarlo.
«Questo giovine» diss’egli «è un tale Piero Maironi, di Brescia. Ell’avrà udito nominare la famiglia. Suo padre, don Franco Maironi, sposò una donna senza nobiltà nè ricchezza. Egli allora non aveva più i genitori, viveva colla nonna paterna, la marchesa Maironi, donna imperiosa, orgogliosa.»
«Oh!» esclamò l’Abate. «L’ho conosciuta! Uno spavento! Mi ricordo! A Brescia la chiamavano la marchesa Haynau! Aveva dodici gatti! Una gran parrucca nera! Mi ricordo!
«Io non l’ho conosciuta che per fama» ripigliò don Clemente, sorridendo, mentre l’Abate si faceva passare con una buona presa di tabacco e un mugolio gutturale il cattivo sapore di quell’antipatica memoria.
«La nonna, dunque, non volle assolutamente saperne di questo matrimonio disuguale. Gli sposi furono ospitati da uno zio della sposa, ella pure orfana. Lui, don Franco, si fece soldato nel 1859 e morì di ferite. Sua moglie morì poco dopo. Il figliuolo venne raccolto dalla nonna Maironi e, morta lei, da certi Scremin, suoi parenti veneti. La nonna lo lasciò ricchissimo. Sposò una figlia di questi Scremin, che disgraziatamente perdette la ragione poco tempo dopo le nozze, credo. Lui ne fu afflittissimo, condusse vita ritirata fino a che s’incontrò, per sua sventura, in una signora divisa dal marito. Allora venne un periodo di traviamento; traviamento di costume e traviamento di fede. Quando, pare un miracolo del Signore!, ecco che sua moglie viene a morire e nel morire ricupera la ragione, fa venire il marito, gli parla, muore come una Santa. Questa morte gli volta il cuore verso Dio, egli lascia la signora, lascia le ricchezze, lascia tutto, fugge di notte da casa sua senza dire a nessuno dove va. Siccome aveva conosciuto me a Brescia una volta che ci andai per una malattia di mio padre, e sapeva ch’ero a Subiaco, siccome anche aveva caro il nostro Ordine e certe memorie della nostra povera Praglia, è capitato qua. Mi ha raccontato la sua storia, mi ha supplicato di aiutarlo a condurre una vita di penitenza. Credetti che aspirasse a entrare nell’Ordine. Egli mi disse invece di non sentirsene degno, di non aver potuto ancora conoscere, circa questo punto, la Divina Volontà, di volere intanto far penitenza, lavorare colle proprie mani, guadagnarsi il pane, un poverissimo pane. Mi disse altre cose, mi parlò di certi fatti sovrannaturali che gli sarebbero intervenuti. Io ne parlai subito al padre Abate di allora e si combinò così: alloggiarlo nell’Ospizio, farlo lavorare nella chiusura come aiuto all’ortolano e fornirgli il vitto magrissimo ch’egli desiderava. In tre anni non ha preso nè vino, nè caffè, nè latte, nè un uovo. Pane, polenta, frutta, erbaggi, olio, acqua pura: non ha preso altro. La sua vita è stata una vita di Santo, ciascuno glielo può dire. E si crede il più gran peccatore del mondo!»
«Hm!» fece l’Abate, pensoso. «Hm! Capisco! Ma perché non entra nell’Ordine? Altra cosa: so che ha passato qualche notte fuori.»
Don Clemente sentì ancora corrersi un fuoco al viso.
«In preghiera» diss’egli.
«Sarà così ma forse non tutti crederanno. Sapete cosa dice Dante:
«Sempre a quel ch’ha faccia di menzogna
Dee l’uom chiuder la bocca quant’ei puote,
Però che senza colpa fa vergogna.»
«Oh!» esclamò don Clemente arrossendo, nella sua dignità vereconda, per coloro che potessero aver concepito un vile sospetto.
«Scusate, figlio mio» disse l’Abate. «Non si accusa. Si biasimano le apparenze. Non riscaldatevi. È meglio pregare in casa. E questi fatti soprannaturali, dite su, cosa sono?»
Don Clemente rispose che erano state visioni, voci udite nell’aria.
«Hm! Hm!» fece ancora l’Abate con un complicato gioco di rughe, di labbra e di sopracciglia, come se avesse inghiottito un sorso di aceto. «Avete detto che si chiama?… Il nome proprio?»
«Piero, ma quando è venuto ha desiderato separarsi da questo nome, mi ha pregato d’imporgliene un altro. Ho scelto Benedetto; mi parve il più appropriato.»
L’Abate, a questo punto, espresse la volontà di vedere il signor Benedetto e ordinò a don Clemente di mandarglielo l’indomani mattina, dopo il coro. Allora don Clemente si turbò un poco, dovette confessare che non poteva prometterlo assolutamente perchè appunto anche in quella notte il giovine era uscito a pregare ed egli non sapeva con certezza a quale ora sarebbe rientrato. L’Abate s’inquietò molto, borbottò una sequela di rimbrotti e di riflessioni acide. Don Clemente si decise perciò a raccontare l’incontro colla signora Dessalle, l’antica amante, quel ch’era poi seguito per via, la sua idea di mandare Benedetto a Jenne e di farvelo rimanere fino a che la signora non fosse partita. Il Superiore lo ascoltò a ciglia aggrottate, con un continuo brontolìo sordo.
«Qui» esclamò finalmente «si torna a san Benedetto! Si torna alle insidie delle peccatrici! Vada vada vada, il nostro Benedetto! A questo Jenne e anche più in là! E non mi dicevate questo? Vi pareva poco? Vi pareva niente che si ordissero intorno al monastero delle trame di questa fatta? Andate, adesso; andate pure!»
Don Clemente fu per rispondere che non sapeva se si ordissero trame, se la signora avesse riconosciuto o no il suo discepolo, che a ogni modo egli aveva già espresso a Benedetto il proposito di allontanarlo; ma impose silenzio a questo inutile sfogo di amor proprio, e prese, ginocchioni, congedo.
Ritolto il lanternino che aveva lasciato nel corridoio, non entrò nella sua cella. Percorse lento lento il corridoio sino al fondo, scese lento lento, non senza qualche sosta, per una scaletta a chiocciola, nell’altro corridoio strettissimo che mette al Capitolo. Il pensiero del diletto discepolo orante nella notte sul monte, l’aspettazione delle risoluzioni che prenderebbe dopo avere comunicato con Dio, le coperte ostilità dei fratelli, i cipigli e i dubbî dell’Abate, il timore ch’egli ponesse Benedetto nella necessità di scegliere fra i voti monastici e il bando dal convento, gli accumulavano sul cuore un peso spossante. Il fervore mistico di Benedetto, quella sua grande inconscia umiltà, i suoi progressi nella intelligenza della Fede giusta le idee che originavano dal signor Giovanni, certi lumi nuovi che gli scaturivano, conversando, dal pensiero, la forza crescente del mutuo affetto, gli avevano fatto concepire speranze di una prossima rivelazione, in quel naufrago del mondo, della Divina Grazia, della Divina Verità, della Divina Potenza, per il bene delle anime. Lo avevano detto, alla riunione di casa Selva: ci vorrebbe un Santo. Lo aveva detto per il primo quell’abate svizzero. Secondo altri era desiderabile un Santo laico. E questo era pure il suo pensiero, e gli pareva provvidenziale che a Benedetto ripugnasse la vita monastica. Quasi quasi gli parve provvidenziale anche la venuta della signora, che lo costringeva a lasciare il convento. Ma che gli succedeva ora sul monte? Che gli diceva Iddio nel cuore? E se…
Questo balenare di un se nuovo, inatteso, formidabile, arrestò il meditabondo nel suo lento cammino. «Magister adest et vocat te.» Forse lo stesso Maestro Divino chiamava Benedetto a servirgli sotto le vesti del monaco.
Egli cessò, sbigottito, di pensare, e dal Capitolo, posato il lanternino, entrò nella chiesa, mosse diritto alla cappella del Sacramento. Con quella dignità che nessuna tempesta interna poteva togliere alle movenze signorili della persona, alla pura bellezza del viso, si compose sull’inginocchiatoio nel mezzo della cappella, fra le quattro colonne, sotto la lampada; e alzò gli occhi al Tabernacolo.
Il Maestro della Via, della Verità e della Vita, il Diletto dell’anima, era là e dormiva come la procellosa notte sul mare di Genezareth, fra Gadara e la Galilea, nella barca che altre barche travagliate dai flutti seguivano per le tenebre sonore. Era là e pregava come un’altra notte, solo, sul monte. Era là e diceva con la sua dolce voce eterna: — venite a me, voi dolenti; voi cui la vita è grave, tutti venite a me. — Era là e parlava, il Vivente: credete in me che sono con Voi, ristoro vostro e pace, io l’Umile, figlio del Potente, io il Mite, figlio del Terribile, io lavoratore dei cuori per il regno della giustizia, per la futura unità di voi tutti meco nel Padre mio. Era là, il Pietoso, nel Tabernacolo e spirava l’invito ineffabile: vieni, apriti, abbandonati a me.
E Clemente si abbandonò, gli disse quello che non aveva mai confessato neppure a sè stesso. Sentiva nell’antico monastero, tutto, tranne Cristo nel Tabernacolo, morire. Come cellula dell’organismo ecclesiastico, elaboratrice di calore cristiano radiante al mondo, il monastero si ossificava nella vecchiaia inesorabile. Onorandi fochi di fede e di pietà chiuse nelle forme tradizionali, simili alle fiamme dei ceri accesi sugli altari, vi consumavano i loro involucri umani inviandone al cielo il vapore invisibile, senza che una sola onda calorifica o luminosa ne vibrasse al di là delle muraglie antiche. Le correnti dell’aria viva non vi entravano più e i monaci non uscivano più a cercarle come nei primi secoli, lavorando nei boschi e sui prati, cooperando alle vitali energie della natura, nell’atto stesso che magnificavano Iddio col canto. I colloquii con Giovanni Selva lo avevano indirettamente condotto, poco a poco, a sentire così della vita claustrale nelle sue forme presenti, pure essendo convinto che ha indestruttibili radici nell’anima umana. Ma forse ora per la prima volta gli avveniva di guardare il suo sentimento in faccia. Era da un pezzo suo voto, era sua speranza che Benedetto diventasse un grande operaio del Vangelo; non un operaio comune, un predicatore, un confessore, bensì un operaio straordinario; non un soldato dell’esercito regolare, impedito dall’uniforme e dalla disciplina, bensì un libero cavaliere dello Spirito Santo; ma la Regola monastica non gli si era mai ripresentata in tale antagonismo con il suo ideale di un Santo moderno. E se ora la Volontà Divina si manifestasse a Benedetto proprio diversa dal desiderio suo?
Ah non era egli già quasi sull’orlo di un peccato mortale? Non presumeva già egli quasi, polvere tracotante, di giudicare le vie di Dio? Prosternato sull’inginocchiatoio, s’immerse nell’Onnipotente, anelando senza parole al perdono, alla rivelazione, in Benedetto, della Volontà Divina, adorandola da quel momento qualunque fosse. Nell’alzarsi con un naturale defluire dell’onda mistica dal cuore, con gli occhi vôlti ancora all’altare ma non più fissi nel Tabernacolo, non poté a meno di pensare alla Dessalle e al discorso di Benedetto. La mediocre pala di quell’altare rappresenta la martire Anatolia che offre dal paradiso la palma simbolica ad Audax, il giovine pagano che tentò sedurla e ne fu invece condotto a Cristo. La Dessalle aveva sedotto Benedetto; per quanto Benedetto si fosse studiato di scolpare lei e d’incolpare sè, don Clemente non dubitava che le cose fossero andate così. Se ora egli operasse la conversione di lei? Se fosse giusto che la tentasse? Se il sentimento di Benedetto fosse realmente più cristiano che il timore suo e gli spasimi del padre Abate? Don Clemente si dibatteva in testa questi problemi attraversando a capo basso la chiesa. Anatolia e Audax! Gli sovvenne che un forestiere scettico, udita da lui la spiegazione del quadro, aveva detto: sì, ma se non li avessero ammazzati, nè l’uno nè l’altra? E se Audax avesse avuto moglie? E queste beffarde parole gli erano parse una indegna profanazione. Le ripensò e, sospirando, raccattò da terra il lanternino posato nel Capitolo.
Invece di avviarsi alla sua cella si recò nel secondo chiostro a guardare il dorso del Colle Lungo, dove forse Benedetto stava in orazione. Alcune stelle brillavano sul roccioso dorso grigio macchiato di nero e il loro lume oscuro mostrava nel chiostro il piazzale, gli arboscelli sparsi, la torre possente dell’Abate Umberto, le arcate, le mura vecchie di nove secoli e, sulla ogiva del portale grande dove don Clemente stava contemplando, la doppia riga dei fraticelli di sasso che vi salgono in processione. Il chiostro e la torre si affermavano nella notte con maestà di potenza. Era proprio vero che stessero morendo? Nel lume delle stelle il monastero pareva più vivo che nel sole, grandeggiava in una mistica comunione di senso religioso con gli astri. Era vivo, era pregno di effluvi spirituali diversi, confusi in una persona unica, come le diverse pietre tagliate e scolpite a comporre la unità del suo corpo, come diversi pensamenti e sentimenti in una coscienza umana. Le vetuste pietre, sature di anime commiste ad esse in amore, sature di desiderii santi e di santo dolore, di gemiti e di preci, radiavano un che oscuro, penetrante nel subcosciente. A quei lavoratori di Dio che nelle ore aride vi si ritraessero dal mondo a breve riposo, potevano rinfondere forza come d’estate al falciatore in deserti montani una fonte. Ma perchè le pietre durassero vive, un continuo fiume di vita doveva pure trapassar per esse, un fiume di spiriti adoranti, contemplanti. Don Clemente sentì quasi rimorso dei pensieri volontariamente accolti in chiesa circa la decrepitezza del monastero, pensieri radicati nel suo giudizio personale, piacenti al suo amor proprio, quindi viziati di quella concupiscenza dello spirito che i suoi diletti Mistici gl’insegnavano a discernere e ad aborrire. Giunte le mani, fissò il dorso selvaggio del monte dove si figurava Benedetto pregante, fece un atto mentale di rinuncia, di umile abbandono delle proprie idee circa l’avvenire di quel giovine. Benedisse Iddio se lo voleva laico, benedisse Iddio se lo voleva monaco, se scopriva la Sua volontà e se non la scopriva. «Si vis me esse in luce sis benedictus, si vis me esse in tenebris sis iterum benedictus.» E si avviò alla sua cella.
Nel grande corridoio dove le due fioche lampade ardevano ancora, passando davanti all’uscio dell’Abate, ripensò la conversazione avuta col vecchio e quelle sue massime circa i mali della Chiesa e la opportunità di operare contro di essi. Ricordò un discorso del signor Giovanni sulle parole «fiat voluntas tua» che il comune dei fedeli intende soltanto come un atto di rassegnazione, e che implicano, invece, il dovere di lavorare con tutte le nostre forze per il prevalere della legge divina nel campo della libertà umana. Il signor Giovanni gli aveva fatto battere il cuore più forte e l’Abate glielo aveva fatto battere più fiacco. Quale dei due aveva detto la parola di Vita e di Verità?
La sua cella era l’ultima a destra, presso il balcone che guarda la conca rigata dall’Aniene, Subiaco e i monti Sabini. Prima di entrar nella sua cella don Clemente si fermò a guardar i lumi lontani di Subiaco, pensò alla villetta rossa, più vicina ma invisibile, pensò a quella donna. Trame, aveva detto l’Abate. Amava ella ancora Piero Maironi? Aveva scoperto, sapeva ch’egli si era rifugiato a Santa Scolastica? Lo aveva riconosciuto? Se sì, che meditava di fare? Probabilmente non aveva preso stanza nel minuscolo quartiere dei signori Selva; probabilmente alloggiava in un albergo di Subiaco. Quei lumi lontani erano fuochi di un campo nemico? Si fece il segno della croce ed entrò nella sua celletta per un breve sonno fino alle due, ora di coro.
Benedetto prese la via del Sacro Speco. Oltrepassato, all’altro angolo del monastero, il letto asciutto di un torrentello, raggiunto a destra l’oratorio antichissimo di Santa Crocella, salì per la petraia che ruina giù verso il rombo dell’Aniene di fronte ai carpineti del Francolano, erto e nero fino alla croce del vertice, incoronata di stelle. Prima di toccare l’Arco che mette al bosco del Sacro Speco, uscì di via, si arrampicò a sinistra, cercando il posto dell’ultima sua veglia, alto sui tetti quadrati e sulla torre tozza di Santa Scolastica. La ricerca del sasso dove aveva pregato ginocchioni un’altra dolorosa notte, sviandogli il pensiero dal mistico foco in cui era chiuso, glielo raffreddò. Se ne avvide tosto, ne sentì un rammarico affannoso, una impazienza di ricuperar calore acuita dal timore di non riuscirvi, dal senso di esserne in colpa, dal ricordo di altre aridità tristi. Gelava, gelava sempre più. Cadde ginocchioni, chiamò Iddio con uno spasimo di preghiera. Come piccola fiamma inutilmente apposta ad un fascio di legna verde, lo slancio della volontà gli venne meno senza movere il cuore inerte e mancò in uno stupido ascoltare del rombo eguale dell’Aniene. La mente gli ritornò in un assalto di terrore. Forse la notte passerebbe intera così; forse al gelo arido seguirebbe la tentazione calda! Impose silenzio al fervere delle immaginazioni, si raccolse nel proposito di non smarrirsi d’animo. Allora sorse in lui l’idea chiara che spiriti nemici gli erano sopra. Se avesse veduto intorno a sè fiammeggiare occhi diabolici nei fessi delle pietre, ne sarebbe stato meno certo. Sentiva in sè il vaporare di un veleno, sentiva un’assenza di amore, un’assenza di dolore, un tedio, un peso, l’aggravarsi di un assopimento mortale. Ricadde nello stupido ascoltare il rumore del fiume, fissi gli occhi senza sguardo al bosco nero del Francolano. Gli passò nella visione interna, lento automa, la immagine del prete malvagio vissuto là colla sua corte di peccatrici. Sentì stanchezza di star ginocchioni, si accasciò su sè stesso. Ecco ancora l’automa lento. Si voltò con un faticoso sforzo a sedere, abbandonò le mani sui ciuffi dell’erba soffice, fra sasso e sasso, odorante. Chiuse gli occhi nella dolcezza di quel tocco morbido, dell’odor selvaggio, del riposo; e vide Jeanne pallida sotto l’ala obliqua di un cappello nero, piumato, che gli sorrideva con gli occhi umidi di lagrime. Il cuore gli battè forte, forte, forte; un filo, un filo solo di volontà buona lo tratteneva sulla china dell’abbandono all’invito di quel volto. Spalancò gli occhi, mise, a braccia distese, a mani aperte, un lungo gemito. E subito pensò che qualche viandante notturno potesse averlo udito, trattenne il respiro, stette in ascolto. Silenzio; silenzio di tutte le cose fuorchè del fiume. Il cuore gli si venne chetando. «Dio mio, Dio mio» mormorò, inorridito del pericolo corso, dell’abisso intravvisto. Si afferrò con gli occhi, con l’anima, al gran dado sacro, lì sotto, di santa Scolastica, al torrione tozzo, tanto buono, che amava. Trapassò con lo spirito l’ombre e i tetti, attrasse in sè la visione della chiesa, della lampada ardente, del Tabernacolo, del Sacramento, vi si affisse avido. Si raffigurò con uno sforzo i chiostri, le celle, le grandi croci presso i giacigli dei monaci, il volto serafico del suo Maestro addormentato. Durò nello sforzo quanto potè, reprimendosi dentro con angoscia un balenar frequente dell’obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie dell’anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell’Imitazione: «Domine, dummodo voluntas mea recta et firma ad te permaneat, fac de me quidquid tibi placuerit.» Non vi era commozione nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati; ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell’ombra, del lontano ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d’erba che le mani giunte odoravano ancora. L’aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato le mani sull’erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non avrebbe permesso ch’egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora dal profondo dell’anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don Giuseppe Flores.
Egli si vide ginocchioni a Roma in piazza San Pietro, di notte, fra l’obelisco e la fronte del tempio immenso, illuminato dalla luna. La piazza era vuota; il rumore dell’Aniene gli diventò il rumore delle fontane. Dalla porta del tempio si porgeva sulla gradinata un gruppo di uomini vestiti di rosso, di violetto e di nero. Lo fissavano minacciosi, appuntando gl’indici verso Castel Sant’Angelo, come per intimargli di partirsi dal luogo sacro. Ma ecco, questa non era più la Visione, questo era un immaginar nuovo! Egli sorgeva, diritto e fiero, in faccia al manipolo nemico. Gli ruggiva improvviso alle spalle un rombo di moltitudini accorrenti che irrompevano nella piazza dalle bocche di tutte le vie, a fiumi. Un’ondata lo travolgeva con sè acclamando al riformatore della Chiesa, al vero Vicario di Cristo, lo posava sulla soglia del tempio. Di là egli si volgeva come ad affermare autorità sull’Orbe. In quel momento gli folgorò nel pensiero Satana offrente a Cristo il regno del mondo. Precipitò a terra, si stese bocconi sulle pietre, gemendo nello spirito: «Gesù, Gesù, non son degno, non son degno di venir tentato come Te!» E porse le labbra strette, le affisse al sasso, cercando Iddio nella creatura muta, Iddio, Iddio, il sospiro, la vita, la pace ardente dell’anima. Un soffio di vento gli corse sopra, gli mosse l’erbe intorno.
«Sei Tu» egli gemette «sei Tu, sei Tu?»
Il vento tacque.
Benedetto si stringe i pugni alle guancie, leva il capo puntando i gomiti al sasso, sta in ascolto senza saper di che. Sospira, si ripone a sedere. Iddio non gli parlerà. L’anima stanca tace, vuota di pensiero. Passa il tempo, lento. L’anima stanca richiama a fatica per suo ristoro l’ultima parte della Visione, il suo ascendere, per un notturno cielo tempestoso, incontro ad angeli discendenti. E pensa torbidamente: se questa sorte mi aspetta, perchè rattristarmi? Se sarò tentato non sarò vinto e se sarò vinto Iddio mi rialzerà. Neppure è necessario di domandargli cosa voglia da me. Perchè non scendo a dormire?
Benedetto si alzò, greve il capo di stanchezza plumbea. Il cielo si era tutto coperto di nuvole pesanti fino ai monti di Jenne, dove la valle dell’alto Aniene gira. Appena Benedetto poteva discernere la tenebra nera del Francolano, in faccia, e i lividori, a’ suoi piedi, della petraia. Mosse per discendere e al secondo passo si arrestò. Le gambe non lo reggevano, un soffio di sangue gli accese il viso. Era quasi digiuno da trent’ore. Non aveva preso che un tozzo di pane a mezzodì. Si sentì punger la persona da miriadi di spilli, batter forte il cuore, annebbiar la mente. Quali viluppi di serpi gli si attorcigliavano ai piedi simulando la innocenza dell’erba? E qual demonio sinistro lo attendeva lì sotto, carponi sulla pietra, simulando un cespuglio per avventarglisi? Non lo aspettavano i demonii anche nel monastero? Non si annidavano negli occhi del torrione? Non avevano quegli occhi una fiamma nera? No, no, adesso non più; adesso lo fissavano semichiusi e beffardi. Il rombo dell’Aniene, questo? No, il ruggito dell’Abisso trionfante. Non credeva interamente a quello che vedeva, a quello che udiva, ma tremava tremava come una festuca nel vento e le miriadi di spilli gli camminavano per tutta la persona. Cercò svincolar i piedi dai viluppi di serpi, non gli riuscì. Dal terrore alla collera: «devo potere!» esclamò, forte. Dalla gola fosca di Jenne gli rispose il sordo rumor del tuono. Guardò a quella volta. Un lampo aperse le nubi sopra il negrore del monte Preclaro e sparì. Benedetto si provò di levar i piedi dalle serpi e ancora la leonina voce del tuono lo minacciò.
«Cosa faccio?» si diss’egli, cercando raccapezzarsi. «Perchè voglio scendere?»
Non lo sapeva più, ebbe bisogno di uno sforzo mentale per ricordare. Ecco, aveva pensato di scendere a dormire perchè la preghiera era inutile a un uomo sicuro di salire al cielo. E un lampo arse anche dentro di lui:
«Io tento Iddio!»
Le serpi lo stringevano, il demonio strisciava carponi alla sua volta per la petraia tutta infernalmente viva di spiriti feroci, le fiamme nere ardevano negli occhi del torrione, ruggendo sempre l’Abisso a trionfo. Ma il rugghio sovrano del tuono romoreggiò per le nubi: «NON TENTARE IL SIGNORE IDDIO TUO.» Benedetto levò al cielo il viso e le mani congiunte, adorando, come potè, con l’ultimo lume della offuscata coscienza, vacillò, allargò le braccia, afferrò l’aria, piegò lentamente all’indietro, stramazzò riverso sulla china, giacque senza moto.
Il suo corpo giaceva immobile nel vento del temporale, come un tronco schiantato, fra il dibattersi delle ginestre e il mareggiare dell’erba. L’anima dovette chiudersi nel contatto centrale con l’Essere senza tempo e senza spazio, perchè Benedetto, al primo ritorno della coscienza, non ebbe senso nè del luogo nè dell’ora. Sentiva una levità strana delle membra, una spossatezza fisica piacevole, una infinita dolcezza interna; prima sul viso, poi sulle mani tanti minuti titillamenti come di animati atomi amorosi dell’aria: teneri sussurri di voci timide intorno a quello che gli pareva il suo letto. Si rizzò a sedere, guardò smarrito ma in pace; dimentico del dove e del quando, ma tanto in pace, tanto contento della quieta fonte interna di un indistinto amore che gli fluiva in tutti i vasi della vita e se ne spandeva per le cose intorno, per le dolci piccole vite fatte amorose a lui. Sorridendo fra sè del suo proprio smarrimento, riconobbe il dove e il come. Il quando, no. Neppure ne sentì desiderio, neppure si domandò se dalla caduta fossero trascorse ore o minuti, tanto lo appagava il beato presente. Il temporale era disceso verso Roma. Nel mormorio della pioggia senza vento, piana piana, nella voce grande dell’Aniene, nella riposata maestà dei monti, nell’odore selvaggio della petraia umida, nello stesso proprio cuore, Benedetto sentiva un Divino confuso alla creatura, un’ascosa essenza di paradiso. Sentiva di fondersi con le anime delle cose come piccola voce in un coro immenso, di essere uno con la montagna odorante, uno con l’aria beata. E così sommerso nel mare della paradisiaca dolcezza, abbandonate le mani sulle ginocchia, socchiusi gli occhi, blandito dalla pioggia piana piana, godeva non senza un vago desiderio che tanta soavità fosse conosciuta dalla gente che non crede, dalla gente che non ama. Nel declinare del rapimento gli ritornarono a mente i perchè della presenza sua sul monte deserto nelle tenebre della notte, e le incertezze del domani, e Jeanne, e l’esilio dal monastero. Ma ora incertezze e dubbî erano indifferenti all’anima sua ferma in Dio, come al Francolano immobile i tremolii del suo manto di foglie. Incertezze, dubbî, ricordi della mistica Visione gli si disciolsero nel profondo abbandono alla Divina Volontà, che avrebbe disposto di lui a suo piacimento. La immagine di Jeanne, contemplata quasi dall’alto di una inaccessibile torre, gli moveva solo il desiderio di operare fraternamente per lei. La tranquilla ragione ripigliando intero l’ufficio suo, egli si accorse di esser molle di pioggia fin dentro le vesti; e la pioggia, piana piana, continuava. Che fare? Rientrare all’Ospizio dei pellegrini no perchè il vaccaro dormiva; svegliarlo per farsi aprire non avrebbe voluto nè sarebbe stato facile. Pensò di riparare sotto i lecci del Sacro Speco. Alzatosi faticosamente, ebbe un assalto di vertigini. Aspettò un poco e poi scese adagio adagio sulla via che da Santa Scolastica mette all’Arco d’ingresso nel bosco. Là nella nera ombra dei grandi lecci chini e protesi, a braccia sparse, sulla china del monte, fra il chiarore fioco, a sinistra, della costa esterna al bosco, cadde a sedere, sfinito.
Desiderava un po’ di cibo e non osò domandarlo al Signore, parendogli domandare un miracolo. Si dispose ad attendere il giorno. L’aria era tepida, il suolo quasi asciutto, radi goccioloni battevano qua e là dal fogliame dei lecci. Benedetto si assopì di un sopor lieve che appena gli velava le sensazioni, tramutandole in sogno. Si figurò di stare in un sicuro asilo di preghiera e di pace, all’ombra di braccia sante, protese sopra il suo capo; e gli pareva di doverlo abbandonare per ragioni di cui gli era evidente l’impero, benchè non avesse coscienza della loro natura. Poteva uscirne per una porta cui metteva capo la via discendente al mondo, poteva uscirne dalla parte opposta, per un cammino ascendente a solitudini sacre. Pendeva incerto. Il batter vicino di una grossa goccia gli fece aprire gli occhi. Dopo un primo momento di torpore riconobbe l’Arco a destra, cui metteva capo il cammino discendente verso Santa Scolastica, Subiaco, Roma; a sinistra il cammino ascendente verso il Sacro Speco. E notò attonito che dall’uno e dall’altro lato, fuori dei lecci, le pietre scoperte erano molto più chiare di prima, che tanti minuti chiarori traforavano il fogliame sopra il suo capo. Giorno? Si fa giorno? Benedetto avrebbe creduto oltrepassata di poco la mezzanotte. Le ore suonano a Santa Scolastica; una, due, tre, quattro. È giorno e sarebbe anche più chiaro se il cielo non fosse tutto una pesante nube dai monti di Subiaco a quelli di Jenne, quantunque non piova più. Un passo da lontano; qualcuno sale verso l’Arco.
Era il vaccaro di Santa Scolastica che, per un caso insolito, portava a quell’ora il latte al Sacro Speco. Benedetto lo salutò. Colui all’udir questa voce, tramortì e fu per lasciar cadere il vaso del latte.
«Oh, Benedè!» esclamò riconoscendo Benedetto. «Qui, siete?»
Benedetto gli chiese un sorso di latte per amor di Dio.
«Lo racconterete ai padri» diss’egli. «Direte ch’ero sfinito e che vi ho chiesto un po’ di latte per amor di Dio.»
«Eh sì! eh sta bene! eh pigliate! eh bevete!» fece colui, rispettoso, avendo Benedetto per un Santo. «Che ci avete passato la notte qui? Che ci avete preso tutta quella pioggia? Dio come siete molle! Siete inzuppato come una spugna, siete!»
Benedetto bevve.
«Benedico Iddio» diss’egli «per la bontà vostra e per la bontà del latte.»
Lo abbracciò e, anni dopo, il vaccaro, Nazzareno Mercuri, soleva raccontare che mentre Benedetto lo stringeva fra le sue braccia non gli pareva esser lui; che il sangue gli era diventato prima tutto un gelo poi tutto un foco; che il core gli batteva forte forte come la prima volta che aveva ricevuto Cristo in Sacramento; che un gran dolor di capo statogli addosso due giorni gli era sfumato via; che allora egli aveva capito subito di trovarsi nelle braccia di un Santo da miracoli e gli era caduto ginocchioni ai piedi. In fatto non s’inginocchiò ma restò di sasso e Benedetto gli dovette dire due volte: «ora andate, Nazzareno; andate, figliolo caro.» Avviatolo amorevolmente così al Sacro Speco, s’incamminò egli stesso verso Santa Scolastica.
La petraia chiara era vôta di spiriti buoni e rei. Montagne, nuvole, le stesse fosche mura del monastero e la torre parevano, nella luce scialba, gravi di sonno. Benedetto entrò nell’Ospizio e coricatosi, senza spogliar le vesti bagnate, sul misero giaciglio, si raccolse al petto le braccia in croce, si addormentò profondamente.