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100 | capitolo terzo |
«No, figlio mio» rispose l’Abate. «Ai mali della Chiesa e ai possibili rimedî; non ci ho a pensar io. Ossia, ci posso pensare ma non ho a parlarne che a Dio perchè ne parli poi Lui a chi tocca. E così fate anche voi. Tenete a mente, figlio mio! I mali ci sono e i rimedî ci saranno, ma questi rimedî, chi sa? possono essere veleni e bisogna lasciarli adoperare al Grande Medico. Noi, preghiamo. Se non si credesse alla comunione dei Santi, cosa si starebbe a fare nei monasteri? E in quella casa, figlio mio, per la nostra pace, non ci ritornare! Non me lo chiedere più!»
Passando paternamente così dal voi al tu, l’Abate posò una mano affettuosa sulla spalla del suo monaco afflitto di non poter rivedere quei buoni amici e anche particolarmente di non poter l’indomani mattina conferire col signor Giovanni, avvertirlo del pericolo che correva Benedetto, avvisare insieme al riparo.
«Sono cristiani aurei» diss’egli con voce sommessa, dolente.
«Lo credo» rispose l’Abate «Credo che saranno migliori assai di questi zelanti che scrivono di queste lettere. Vedi che non faccio complimenti. Tu sei di Brescia, eh? Bene, io sono di Bergamo. Noi si direbbe che sono piaghe. Sono infatti piaghe della Chiesa. Io risponderò a tôno. I miei monaci non prendono parte a congreghe di eretici. Ma tu, a casa Selva, non ci ritornerai.»