mendosi dentro con angoscia un balenar frequente dell’obliquo cappello piumato e del viso pallido, fino a che i baleni gli si affiochirono, gli si perdettero giù nelle profondità inconscie dell’anima. Allora sorse faticosamente in piedi e lento come se la maestà di una grandezza pensata governasse gli stessi suoi moti, giunse le mani, vi piegò il mento su. Fermò il pensiero nella preghiera dell’Imitazione: «Domine, dummodo voluntas mea recta et firma ad te permaneat, fac de me quidquid tibi placuerit.» Non vi era commozione nel suo interno, pareva che gli spiriti di nequizia se ne fossero allontanati; ma neppure vi erano discesi angeli. La mente stanca gli posò nel senso delle cose esterne, delle vaghe forme, dei fiochi biancori nell’ombra, del lontano ululo di un gufo nei carpineti, del tenue aroma d’erba che le mani giunte odoravano ancora. L’aroma selvaggio gli richiamò il momento in cui aveva posato le mani sull’erba, prima che gli apparisse il sorriso triste di Jeanne. Sciolse le mani impetuoso, tornò con gli occhi avidi al monastero. No no, Iddio non avrebbe permesso ch’egli fosse vinto, Iddio lo serbava alle opere sue. Allora dal profondo dell’anima, senza che il volere vi avesse parte, gli si levarono fantasmi non più evocati, per consiglio del Maestro, da quando era venuto a Santa Scolastica; fantasmi della visione affidata in iscritto alla custodia di don Giuseppe Flores.